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25 aprile, una commemorazione diversa

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Iran-Israele, attacco e contrattacco

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Haiti, tra criminalità, paramilitari e intervento esterno

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8 marzo, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo

del Collettivo femminista di inchiesta sociale “Ipazia”, da Facebook

Anche quest’anno scendiamo in piazza per la giornata dell’8 marzo per riaffermare la nostra volontà di lotta contro tutte le forme di oppressione, di sfruttamento e di razzismo che riguardano le donne.

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Israele-Gaza, un’implacabile logica di espulsione

di Gilbert Achcar, nato in Libano, professore di studi sullo sviluppo e relazioni internazionali presso la School of African and Oriental Studies dell’Università di Londra, autore di numerosi libri, da Le Monde diplomatique

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Migranti, il "pizzo di stato" di Meloni e Piantedosi e i 10 punti di Ursula Von Der Leyen

di Fabrizio Burattini


L’arrogante e indecente decisione del governo di imitare le mafie che gestiscono i lager libici, esigendo dai migranti il pagamento di un “pizzo di stato” di ben 4.938 euro per evitare di finire nei lager italiani che Meloni e Piantedosi intendono moltiplicare in giro per la penisola, sintetizza bene la politica della destra al potere.


Pace con le banche, guerra ai migranti


Mentre si azzera la demagogica proposta di tassare i miliardi di superprofitti delle banche accumulati sulle spalle dei cittadini costretti a pagare astronomiche rate di mutuo (una proposta che aveva indotto i creduloni a pensare che il governo fosse dalla parte dei più poveri), si vuole far cassa sulle spalle dei migranti.


Questo perché il governo è consapevole del fatto che, nonostante i memorandum sottoscritti con i dittatori, nonostante i “dieci punti” ipotizzati da Ursula Von Der Leyen, nonostante i messaggi minatori della presidente del consiglio e dei suoi ministri, i migranti continueranno ad affluire in Italia e in Europa.

Il taglieggiamento deciso dal governo dovrebbe gravare sui migranti che arrivano da “paesi sicuri”, cioè da paesi nei quali non ci siano guerre o limitazioni ai diritti democratici ed umani. Ma ci chiediamo, in particolare nel Sud del mondo, quali sono i “paesi sicuri”?


Le misure del governo


Le altre misure previste nei nuovi decreti emergenziali, la moltiplicazione dei CPR, la loro codificazione come veri e propri campi di concentramento (“facilmente perimetrabili e collocati in aree a bassissima densità abitativa”), l’allungamento fino a 18 mesi della “detenzione amministrativa” anche per le/i “richiedenti asilo”, la delega al ministero della Difesa, cioè alle forze armate della loro gestione, la rinnovata minaccia di “blocco navale” attraverso i memorandum e gli accordi con i dittatori dei paesi di provenienza e di transito non solo non risolveranno la presunta emergenza e non solo offendono i diritti e la dignità umana dei migranti, ma costituiscono di per sé un nuovo e sempre più grave attentato alla democrazia del nostro paese.


I partiti di governo continuano a gareggiare tra loro in demagogia, al fine di spartirsi fette di elettorato impaurito dal timore di perdere i propri miserabili “privilegi”, indicando negli “ultimi” (migranti, percettori del reddito di cittadinanza, disoccupati…) i responsabili delle difficoltà economiche in cui si dibatte il paese. 


Un’emergenza fabbricata in casa


Si è gridato all’emergenza perché in una settimana sono arrivati in Italia una decina di migliaia di migranti.


Ma facciamo un po’ di cifre: secondo i dati più recenti, il numero complessivo di persone che nel mondo fuggono da persecuzioni, conflitti e violenze è valutato in 108 milioni e mezzo di esseri umani. Il 40% dei rifugiati è composta da bambini. I paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia, l’Iran, la Colombia, la Germania e il Pakistan. I tre quarti dei rifugiati nel mondo sono ospitati in paesi a reddito medio e basso.


Nel 2022 i richiedenti asilo nell’Unione europea sono stati 880.000, nel 2021 540.000, dunque meno dell’1% dei rifugiati mondiali e meno del 2 per mille della popolazione europea. 


Ma, nonostante le dimensioni del tutto gestibili del fenomeno, l’avvicinarsi di delicate elezioni (quelle europee del prossimo giugno) spinge tutti i governi della UE e tutti i partiti istituzionali a fare a gara nel prendere le distanze da ogni seria politica di accoglienza e a rinviare sine die la revisione del trattato di Dublino.


La politica razzista e classista dei visti


D’altra parte né la UE, né i singoli paesi che la compongono e che aderiscono al trattato di Schengen hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di ridefinire le politiche di accesso degli “extracomunitari” nella UE, che continuano da sempre ad essere improntate a espliciti principi razzisti e discriminatori. 


Il Regolamento UE sui visti (Reg. 539/2001) elenca i paesi i cui cittadini devono essere muniti di visto per accedere ai paesi dell’Unione (attraversamento delle “frontiere esterne”), suddividendoli in “lista bianca” (paesi i cui cittadini sono esenti da obbligo di visto) e “lista nera” (quelli per i quali vige l’obbligo di visto e dunque di discrezionalità da parte delle autorità consolari europee).


In realtà, anche questa “discrezionalità” è fortemente limitata e classista perché nei fatti concede il visto a cittadini extracomunitari provenienti dai paesi della “lista nera” solo se sono in grado di dimostrare di possedere un patrimonio ed un reddito che faccia escludere l’ipotesi di immigrazione a fini lavorativi.

Naturalmente nel regolamento UE sui visti la “razza”, la religione e la classe sociale non sono esplicitamente menzionate come criteri per la compilazione delle due liste nera e bianca. Ma l’impostazione discriminatoria, razzista e classista, è comunque evidente: tutti i paesi africani (nessuno escluso) sono elencati nella lista nera; per quel che riguarda l’Asia sono esclusi solo il Giappone, la Corea del Sud, la Malesia, Brunei, Singapore, Taiwan, Timor Est, Emirati Arabi Uniti e Israele; anche l’orientamento religioso incide, in quanto, ad eccezione di Singapore, Malesia, Brunei ed Emirati Arabi Uniti, i cittadini di tutti i paesi a maggioranza musulmana sono soggetti all’obbligo di visto, al pari di tutti i paesi a maggioranza induista o buddista; e un esame obiettivo delle due liste fa emergere anche una forte correlazione classista con il PIL pro capite dei diversi paesi, per certi versi ancora più forte di quella con colore della pelle e l’orientamento religioso.


D’altra parte le due liste, nel corso dei 22 anni trascorsi dalla stesura nel 2001 delle liste originarie, sono state modificate in misura molto marginale, come, ad esempio, con il passaggio alla lista di esenzione dal visto per numerose isole dei Caraibi (Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Dominica, Grenada, Santa Lucia, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Trinidad e Tobago), delle Mauritius, delle Seychelles, e di alcune isole del Pacifico (Kiribati, Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Samoa, Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu). E’ del tutto evidente la motivazione “turistica” dei questi cambi di lista.


Un’impostazione da rivedere alla base


Peraltro è lo stesso concetto di “rifugiato politico” che andrebbe riconsiderato, includendo nei criteri le ragioni che molto spesso giustificano la scelta del migrare, come la mancanza reale di prospettive economiche, la devastante insicurezza ambientale, la crescente disuguaglianza, la corruzione delle élite… 


E il refrain razzista del “aiutiamoli a casa loro”, anche ammesso che si voglia farlo “in buona fede” e mettendo a disposizione fondi adeguati, si scontra strutturalmente con le responsabilità dei paesi ex “colonizzatori” nell’aver affidato i paesi dismessi dagli imperi coloniali a governanti del tutto inaffidabili e complici del comportamento predatorio del neocolonialismo, non molto dissimile dal colonialismo diretto del XIX secolo.


Il piano della presidente UE


I dieci punti del “piano europeo” avanzato da Ursula Von Der Leyen dopo la sua visita a Lampedusa il settembre, non presentano alcun elemento di novità. 


Il punto 1 (la promessa di un “aiuto europeo” all’Italia per affrontare una “emergenza” sostanzialmente inesistente) serve solo a mascherare la colpevole impreparazione e l’inerzia demagogica del governo Meloni, peraltro denunciata anche dai cittadini lampedusani.


Il punto 2 (“intensificazione degli sforzi” dell’Ue per il trasferimento dei migranti verso altre destinazioni, sulla base del “meccanismo volontario di solidarietà”) è anch’esso una pia intenzione, esplicitamente vanificata non solo dai paesi “sovranisti”, ma anche da altri paesi del “cuore della UE”.


Il punto 3 (“supporto delle strutture di Frontex per i rimpatri”), il 4 (“aumento delle azioni per la lotta contro i trafficanti”), il 5 (“intensificazione della sorveglianza aerea e navale” attraverso Frontex), il 6 (“azioni concrete contro la logistica dei trafficanti”, garantendo il sequestro e la distruzione delle imbarcazioni utilizzate) sono tutte enunciazioni che guardano al problema dei “trafficanti” con una logica complottista, come se il fenomeno delle migrazioni di massa fossero conseguenza dell’azione dei trafficanti e non frutto della disperazione di intere comunità, e di migliaia di persone pronte proprio a tutto pur di partire.


Il punto 7 (“aiuto del personale dell’Agenzia Ue per l’asilo” al fine di accelerare l’esame delle domande presentate dai migranti respingendo quelle prive di fondamento e rispedendo nei paesi di origine coloro che le hanno presentate) può essere utile ad accelerare la scandalosa lentezza e l’approssimazione con cui le commissioni italiane preposte esaminano le domande di asilo e di protezione, ma i suoi effetti dipendono in fin dei conti dall’esistenza o meno della volontà di fare una seria politica di accoglienza, cosa totalmente smentita dalle scelte del governo Meloni in questi mesi.


I punti 9 (“rafforzare la collaborazione con le agenzie Onu” per garantire la protezione dei migranti anche durante i rimpatri) e 10 (“attuazione del memorandum con la Tunisia”) manifestano la totale complicità della UE nei confronti dei respingimenti che vorrebbe attuare il governo italiano.


Resta il punto 8 (“offrire alternative valide alle rotte illegali attraverso il rafforzamento dei corridoi umanitari”) che potrebbe essere l’unica novità del piano, ma probabilmente destinata a restare lettera morta, nel contesto demagogico della campagna elettorale e della cinica utilizzazione della tematica per cercare di aumentare il peso politico dei vari partiti.


Le vere ragioni della politica governativa


D’altra parte, la risposta da dare alla questione “migranti” non si misura solo sul terreno “umanitario”. Per l’economia del capitalismo italiano, la possibilità di sfruttare una forza lavoro ricattabile in quanto “irregolare” è un fattore di profitto assolutamente non trascurabile e spinge costantemente contro ogni ipotesi di regolarizzazione dei flussi migratori.


Ed ha un “valore d’uso” anche politico. La continua denuncia di un “capro espiatorio”, la “narrazione” continua dell’esistenza di una “emergenza invasione” contribuiscono a distrarre l’elettorato piccolo borghese ma anche popolare dai veri problemi sociali e dalle vere responsabilità delle classi dirigenti. E, non solo, ma creano consenso attorno a chi vuole che si adottino misure repressive che in realtà poi saranno utilizzate non solo contro i migranti ma contro tutti.


Noi – e lo dichiariamo a voce alta – siamo perché venga immediatamente dato a tutte/i il permesso di soggiorno e perché si riconosca ovunque la più completa libertà di movimento.

Francia, decine di migliaia contro le violenze e il razzismo, ma si rinfocola la polemica a sinistra

Le valutazioni, come al solito, sono contrastanti: tra 30.000 e 80.000 sono stati i manifestanti che sono scesi in piazza ieri, sabato 23 settembre, a Parigi e in numerose altre città francesi, rispondendo all’appello unitario lanciato settimane fa per una manifestazione contro la violenza della polizia, il razzismo sistemico e per le libertà civili. 

Il corteo parigino è partito verso le 15 dalla Gare du Nord, nel quadrante nordorientale della capitale francese, dietro lo striscione di apertura del “Coordinamento nazionale contro le violenze della polizia”, fitto di striscioni e di cartelli: “Tutte/i insieme contro le violenze e il razzismo”, “Né oblio né perdono”, “Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte”, “Senza giustizia nessuna pace”, “In lutto e in collera”, “Giù le mani dai nostri ragazzi”, “Giustizia per Nahel” (in riferimento al diciassettenne Nahel Merzouk, ucciso a sangue freddo da due poliziotti ad un posto di blocco alla fine dello scorso giugno).

Altri spezzoni del corteo si concentravano su altre vittime del “razzismo sistemico” delle forze di polizia: “Verità per Othmane”. “per Alassane”, “per Mohamed”, “per Medhi”, “per Mahamadou”… con tanti cartelli sorretti dai familiari dei giovani uccisi. E c’era anche chi denunciava l’impunità degli assassini, come sosteneva la sorella di Mahamadou Cissé, ucciso con una fucilata meno di un anno fa a Charleville Mézières, nella regione delle Ardenne: infatti, l’uomo che l’ha ucciso, un ex militare, se l’è cavata con solo qualche giorno di prigione…


Perfino l’Ispettorato generale della Polizia nazionale riconosce che il ricorso alla forza (e anche alle armi da fuoco) è “in netto aumento”. Ma nonostante questo, il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha scritto proprio alla vigilia delle manifestazioni una lettera di sostegno pubblico ai poliziotti, ai gendarmi e ai questori, chiedendo loro di “dare prova di una vigilanza particolare durante le manifestazioni, di proibirle, se necessario, e di segnalare gli slogan insultanti ed oltraggiosi verso le istituzioni della Repubblica, della polizia e della gendarmeria”.

Tanto che, a Grenoble, il questore ha vietato un presidio descrivendolo come “un assembramento anti razzista composto da persone razzializzate”.


Ai cortei hanno aderito La France Insoumise, il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), i verdi di EELV, i sindacati CGT, FSU e Sud-Solidaires, assieme ad altre 150 organizzazioni politiche, sindacali, associative, collettivi dei quartieri popolari…

Come abbiamo già riferito, il Partito comunista francese (PCF) non ha aderito all’iniziativa, cosa che ha alimentato una violentissima polemica a sinistra, tanto che la deputata LFI Sophia Chikirou, in una sua dichiarazione, ha paragonato l’attuale leader del PCF a Jacques Doriot, l’ex comunista che negli anni 40 passò a collaborare con gli occupanti tedeschi, accompagnandola con la foto di una t-shirts con la scritta “Tutti detestano Fabien Roussel”, ironizzando sullo slogan che falsamente il segretario del PCF aveva attribuito alla manifestazione del 23: “Tutti detestano la polizia”.

La cosa ha portato anche il Partito socialista (PS), che pure fa parte della NUPES, cioè dell’alleanza elettorale di sinistra costruita attorno a LFI che ha raccolto alle elezioni parlamentari dello scorso anno il 25,66% dei voti, a non partecipare alla manifestazione.

Russia-Corea del Nord, l'incontro siberiano di Putin e Kim

di Pierre Rousset, da europe-solidaire.org

Lo scorso 13 settembre, Vladimir Putin e Kim Jong Un si sono incontrati nella base di lancio russa del cosmodromo di Vostotchny, nell’estremo est della regione dell’Amur, non lontano dal confine cinese.

La voce di questo incontro si è diffusa tardivamente, senza essere confermata prima che Kim Jong Un attraversasse segretamente il confine con il suo treno blindato. Il contenuto degli scambi tra i leader russo e nordcoreano, che non si incontravano dal 2019, non è stato reso noto, ma il simbolismo e il contesto ne danno un’idea almeno parziale.

L’incontro dimostra la volontà dei due regimi di impegnarsi in una cooperazione attiva e rafforzata, che copre certamente un’ampia gamma di questioni e mira in particolare ad aggirare le sanzioni internazionali che li hanno colpiti, a seguito dell’invasione dell’Ucraina per uno, e dei suoi test nucleari e lanci missilistici per l’altro.

La vicinanza ora in mostra non era evidente. Per Mosca e Pechino, la dinastia dei Kim, sempre più incontrollabile, rappresentava uno sgradito fattore di instabilità nell’Asia nordorientale.

Negli anni ’90, la Russia ha partecipato alle pressioni internazionali per limitare lo sviluppo delle tecnologie nucleari in Corea del Nord. Insieme alla Cina, ha sostenuto a lungo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condannavano i test nucleari della Corea del Nord. Questi due paesi hanno smesso di farlo nel 2017.

La base di lancio del cosmodromo di Vostotchny, inaugurata nel 2016, è “tanto un simbolo della resilienza tecnologica della Russia quanto del suo immenso spreco, con il progetto che ha assorbito miliardi di dollari”. La scelta di questo luogo d’incontro, situato a 1.500 km dal confine coreano, suggerisce che Mosca è pronta a sostenere Pyongyang nel campo dei missili balistici e dello spazio, poiché il miglioramento delle sue capacità in questo settore è un obiettivo chiave per Kim Jong Un. La Corea del Nord avrebbe raggiunto i limiti dei suoi programmi balistici e dei lanci di satelliti militari. Si dice che abbia “bisogno di competenze straniere” e che le siano state “fornite spiegazioni sul funzionamento dei nuovi lanciatori Angara e dei razzi Soyuz-2” (in corsivo sono citazioni dall’articolo apparso su Le Monde il 14 settembre).

Un altro tabù è stato infranto: la Russia (e la Cina) hanno smesso di condannare le minacce di attacchi nucleari di Kim Jong Un – va detto che Putin non ha evitato di fare lo stesso in Ucraina.

Lo scorso luglio, il ministro della Difesa Sergei Shoigu è stato il primo rappresentante russo a partecipare a una parata militare a Pyongyang che comprendeva missili nucleari, e ora Mosca lascia intendere che potrebbe contribuire alla modernizzazione del suo arsenale. Una possibilità che non può che preoccupare alcuni paesi vicini, visto che la Corea del Nord lancia regolarmente missili a capacità nucleare.

Fino a che punto Mosca è davvero disposta a spingersi in questo campo? Non è certo che Putin permetterà a Kim di fare progressi significativi in questi settori. Tuttavia, la calorosa accoglienza riservata al leader nordcoreano rappresenta una minaccia per Seul e per il rafforzamento delle alleanze regionali guidate da Washington.

Alla domanda su un possibile aiuto russo nel lancio di satelliti nordcoreani, Putin è stato citato dalle agenzie di stampa per dire: “È per questo che siamo qui. Il leader nordcoreano è molto interessato alla tecnologia missilistica. Sta cercando di sviluppare il suo programma spaziale” (ancora da Le Monde del 14 settembre).

In cambio, Kim potrebbe fornire alla Russia equipaggiamento militare, a partire dalle munizioni per l’artiglieria, che Mosca sta consumando pesantemente sul fronte ucraino. La Corea del Nord sta cercando di aumentarne la produzione, così come di droni e missili. In questi settori, le armi nordcoreane, di origine sovietica, dovrebbero essere compatibili con quelle russe e cinesi, ma la loro qualità lascia a desiderare. Non sono sufficienti a cambiare l’equilibrio di potere in questo teatro di operazioni, ma potrebbero essere utilizzate per bombardamenti terroristici imprecisi e aiutare Putin a proseguire il suo sforzo bellico.

Tuttavia, entrambe le Coree hanno ancora notevoli scorte di granate, retaggio della guerra del 1950-1953. Gli Stati Uniti stanno attualmente acquistando alcune di queste scorte da Seul per inviarle all’Ucraina, in attesa che la sua industria bellica sia in grado di soddisfare la domanda. La Russia potrebbe beneficiare dello stesso accordo.

Se lo sfarzo dell’incontro rafforza l’immagine della Russia come potenza siberiana al confine con la Cina (abbastanza da far alzare le sopracciglia a Xi Jinping? Quest’ultimo ha chiaramente altre cose di cui preoccuparsi al momento), permette a Kim Jong Un di rendere il suo viaggio parte di una narrazione familiare nazionale. A differenza del padre, gli piace volare, ma ha scelto il suo lussuoso treno blindato, una leggenda, anche se il suo peso considerevole lo costringe a viaggiare a un ritmo lento.

Sembra di essere in un fumetto del compianto Hugo Pratt; manca solo una bufera di neve.

Inoltre, la Russia dovrebbe fornire alla Corea del Nord, che ha un disperato bisogno di prodotti agricoli, grandi quantità di valuta estera (aggirare le sanzioni internazionali è costoso). La manodopera nordcoreana può tornare a lavorare in territorio russo in gran numero, su una scala paragonabile a quanto accadeva prima della pandemia di Covid del 2019. Mosca ne ha bisogno più che mai, soprattutto alla luce delle perdite militari sul fronte ucraino e della mobilitazione delle reclute. Questa forza lavoro immigrata a basso costo ha pochissimi diritti.

In quali altri settori si dispiegherà la “cooperazione rafforzata” tra Mosca e Pyongyang? Trasferimenti di tecnologia? “Entrambi i paesi sono altamente qualificati nella guerra informatica e nello spionaggio informatico: possono interrompere o rompere infrastrutture chiave e rubare informazioni governative sensibili. Il gruppo di hacker Lazarus della Corea del Nord è stato identificato – attraverso un attento monitoraggio dei processi – come responsabile di furti di criptovalute per un totale di decine di milioni di dollari” (citato da Robert M. Dover, 15 settembre 2023, The Conversation).

L’incontro di Vostotchny solleva molti interrogativi (forniture di armi alla Russia, ammodernamento dell’arsenale missilistico balistico e spaziale della Corea del Nord, ecc.) che per il momento restano senza risposta, ma conferma che il “grande gioco” geopolitico continua ad essere giocato alle due estremità dell’Eurasia, dall’Ucraina alla penisola coreana, anche se la Cina di Xi Jinping si ripiega per il momento su se stessa. E conferma che l’Asia nord-orientale rimane una “frontiera nucleare” calda.

Giovedì 28 settembre alle 17:30 per la libertà di Boris Kagarlitsky

Com’è già noto alle lettrici e ai lettori di questo blog, il sociologo marxista russo, strenuo oppositore del regime di Putin e della sua politica antidemocratica e di guerra, Boris Kagarlitsky è stato arrestato dai servizi di sicurezza del Cremlino il 26 luglio scorso, con la fantasiosa accusa di “giustificare il terrorismo”.

Proprio qualche giorno fa il tribunale di Syktyvkar ne ha confermato la detenzione. 

E’ stato pubblicato un appello internazionale per la sua liberazione e per quella di tutte le altre migliaia di prigionieri politici detenuti nelle carceri russe. L’appello è stato sottoscritto da migliaia di personalità democratiche, tra le quali segnaliamo Jean-Luc Mélenchon, la storica svizzera Stefania Prezioso Batou, il filosofo sloveno Slavoj Žižek, Nadya Tolokonnikova, la componente del gruppo femminista punk russo Pussy Riot, il dirigente del partito laburista britannico Jeremy Corbyn, lo storico italo-francese Enzo Traverso, la docente di scienze politiche della Scuola normale di Firenze Donatella Della Porta, l’europarlamentare Miguel Urbán Crespo, la femminista indiana Kavita Krishnan, il filosofo francese Étienne Balibar, il politologo britannico Alex Callinicos, il regista britannico Ken Loach, il politologo anglo-pakistano Tariq Ali, l’attivista pakistano Farooq Tariq, l’attivista femminista e altermondialista Naomi Klein, l’accademico filippino Walden Bello, la studiosa indiana Jayati Ghosh, lo storico e critico d’arte russo Ilya Budraitskis

Per rivendicare la liberazione di Boris Kagarlitsky e di tutti gli altri prigionieri politici russi, è stato organizzato un presidio per giovedì 28 settembre, alle 17:30, a Roma, nei pressi dell’ambasciata russa (Metro Castro Pretorio) a cui hanno finora aderito La Comune, il Partito comunista dei lavoratori e Sinistra Anticapitalista.

Micromega non deve morire


Sono molti anni che leggo Micromega. Forse decenni. 

Sono stato un lettore affezionato del sito. Della versione cartacea – lo confesso – sono stato un acquirente irregolare, anche se ricordo alcuni numeri veramente memorabili. Uno fra tutti quello “speciale” di 5 anni fa per il cinquantenario del 1968, o quello prima per il quarantennale. 

E, nella totale unanimità della politica istituzionale, ricordo gli articoli contro lo sfregio dell’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione.

Poi, quasi due anni fa, ho trovato un nuovo motivo di sintonia. La posizione nettamente favorevole alla resistenza del popolo ucraino contro la criminale invasione russa scattata il 24 febbraio del 2022. Una solidarietà che andava controcorrente forse ancor più che altre battagle del passato. Perché ora, nel campo progressista e di sinistra, dobbiamo assistere, da 18 mesi a questa parte, ad un ipocrita pacifismo che non riesce a nascondere la condivisione, in tutto o in gran parte, delle “ragioni” dell’aggressore.

E la mia sintonia si è tradotta perfino in una seppur sporadica collaborazione.

Così, oggi, quando mi è capitato di leggere l’editoriale appello di Paolo Flores d’Arcais che preannuncia una probabile chiusura di quella quasi quarantennale esperienza editoriale, ho avuto un sussulto: ecco, è un’altra parte della storia della nostra sinistra che se ne va. Occorre impedirlo.

Ovviamente ho preso i miei impegni (limitati per ovvi motivi di budget peronale ma per me significativi) e invito tutte le lettrici e i lettori di questo blog a fare altrettanto (o se possono anche di più), sottoscrivendo l’impegno ad abbonarsi e comunque a sostenere il collettivo editoriale compilando il form apposito.

Mircomega non deve morire.

Qui potete leggere l’editoriale appello di Paolo Flores d’Arcais, storico direttore ed editore di Micromega.