Archivi tag: autodeterminazione

Lenin e la questione nazionale

Autodeterminazione, secessione e federalismo

Continua a leggere Lenin e la questione nazionale

All’Aia, l’autodifesa israeliana, nella versione biblica e nella versione liberal

Continua a leggere All’Aia, l’autodifesa israeliana, nella versione biblica e nella versione liberal

Gaza, oltre 140 esponenti femministe chiedono il cessate il fuoco e la fine dell’occupazione 


Quasi 150 studiose di studi femministi, queer e trans chiedono la fine del genocidio e dell’occupazione di Gaza da parte di Israele mentre l’esercito israeliano inizia un’operazione di terra nell’area, intensificando il suo già orribile assedio.

Continua a leggere Gaza, oltre 140 esponenti femministe chiedono il cessate il fuoco e la fine dell’occupazione 

Palestina-Israele, dall’apartheid al genocidio 

di Fabrizio Burattini

L’operazione genocida avviata dal governo di estrema destra israeliano ha messo in profonda crisi la speranza dell’amministrazione statunitense di far sparire dalla scena la questione palestinese attraverso la “normalizzazione” delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo.

Continua a leggere Palestina-Israele, dall’apartheid al genocidio 

Ancora sulla guerra russo-ucraina 


Che dicono la storia e la teoria marxista

di Paul Le Blanc, da tempestmag.org

Continua a leggere Ancora sulla guerra russo-ucraina 

Cina-Israele, una lunga storia di cooperazione nella repressione 

di Promise Li, attivista di Hong Kong e Los Angeles, membro di Tempest, da jacobin.com

Continua a leggere Cina-Israele, una lunga storia di cooperazione nella repressione 

Quando “il nemico del mio nemico” non è mio amico 


Da Hamas palestinese ad Azov ucraino e all’EOKA di Cipro…

di Yorgos Mitralias

Lo spunto per quanto segue è stato l’importantissimo testo della giovane ucraina Hanna Perekhoda “Se in nome della ‘pace’ tradiamo gli ucraini, come i palestinesi…”, in cui – per dirla con le sue parole – cerca di vedere “le strutture che permettono di non ‘esotizzare’ la Palestina, ma di renderla potenzialmente paragonabile ad altre situazioni di oppressione coloniale e di legittima resistenza portata avanti comunque da organizzazioni di estrema destra ultra-reazionarie”

Continua a leggere Quando “il nemico del mio nemico” non è mio amico 

Palestina-Israele, oltre il sionismo e il jihadismo


di Yorgos Mitralias

Più che in qualsiasi altra fase dei 75 anni di esistenza dello stato di Israele, in questi giorni abbiamo assistito al crollo spettacolare e tragico della grande promessa del movimento sionista al popolo ebraico perseguitato… la promessa secondo cui solo uno stato ebraico in Palestina sarebbe stato in grado di portare loro la sicurezza e la pace di cui sono stati privati per secoli. 

Oggi, il palese fallimento del sionismo nel mantenere la sua promessa è più evidente che mai, poiché è ormai generalmente accettato che la diaspora ebraica nel mondo può ancora essere soggetta all’antisemitismo (di nuovo in aumento), ma che comunque vive in una sicurezza e in una pace di gran lunga maggiori rispetto alla popolazione ebraica in Israele. 

Chiaramente, il luogo più pericoloso al mondo per un ebreo oggi è… Israele.

Purtroppo, gli ultimi ad ammetterlo sono gli attuali leader di Israele, che stanno portando al disastro più persone di qualsiasi Hamas, Jihad o Hezbollah. 

Estremisti razzisti, sciovinisti, sostenitori incondizionati della “Grande Israele”, oscurantisti e guerrafondai di professione, i vari politici di estrema destra che compongono il governo israeliano non hanno altro progetto che continuare ad aggravare la crisi, a rosicchiare costantemente la terra palestinese, a opprimere e umiliare il popolo palestinese fino all’estremo. 

Perché la loro sopravvivenza politica – e non solo – lo richiede. Perché solo la guerra e l’isteria nazionalista possono permettere al loro leader, il famigerato Bibi Netanyahu, di contrastare la pressione soffocante esercitata su di lui per un anno dalle centinaia di migliaia di cittadini israeliani che hanno manifestato due volte a settimana, chiedendo la sua rimozione dall’incarico, il suo processo e la sua condanna sia per la sua sfacciata corruzione sia per il suo tentativo di demolire le istituzioni democratiche del paese. 

A distanza di settantacinque anni, la pubblica denuncia del grande (ebreo) Albert Einstein sui maestri e gli antenati politici di Netanyahu come “fascisti”, “razzisti” e “terroristi” che possono solo nuocere al popolo ebraico è più che mai utile e attuale…

Quindi, se non possiamo aspettarci nulla di minimamente promettente dai leader israeliani, e anche dalla loro opposizione ufficiale, non possiamo nemmeno nutrire alcuna illusione democratica o progressista nei confronti di Hamas, Hezbollah e della loro “potenza protettrice”, l’Iran, sotto il regime oscurantista e ultra-repressivo degli Ayatollah. 

E naturalmente non possiamo aspettarci nulla di buono dai leader occidentali, capaci solo di chiudere gli occhi sui crimini di Israele per poter dare un sostegno incondizionato a Netanyahu e descrivere i combattenti di Hamas come “terroristi”. 

La conclusione (provvisoria?) è quindi inevitabilmente pessimistica: la resistenza, la lotta più che giusta del popolo palestinese contro i suoi nemici ma anche contro i suoi “amici”, non ha ancora trovato un’espressione politica capace di ispirare e mobilitare le masse arabe, compreso il popolo palestinese, sull’esempio di quanto realizzato in passato, almeno in parte, dal socialismo prima e dal panarabismo poi.

Poiché è sulle rovine del messaggio emancipatore socialista e comunista che fioriscono questi oscurantismi reazionari, sia religiosi che neoliberali, che stanno devastando l’umanità del nostro tempo, è ovvio che l’inizio di una via d’uscita dall’attuale impasse deve e può essere ricercato attraverso la reinvenzione di un movimento antimperialista di liberazione nazionale e sociale basato sulla solidarietà internazionalista di “quelli di sotto”. 

Una “reinvenzione” che ci riguarda tutti direttamente, anche nei nostri paesi europei. Dopo tutto, data l’enorme superiorità militare di Israele e il permanente e sempre più scandaloso tradimento della causa palestinese da parte di tutti i regimi arabi, così autoritari e antidemocratici, l’unico modo per impedire la continuazione indefinita dei reciproci massacri di palestinesi ed ebrei israeliani è la loro solidarietà militante e la loro lotta comune contro i loro nemici comuni. 

Il compito sembra ed è difficile. Ma è l’unica opzione realistica…

Nagorno-Karabakh, la storia e l'attualità

Il Nagorno Karabakh, o meglio, in armeno Artsakh, è stata la zona nella quale si sono sviluppate in epoca precristiana la civiltà e la cultura armena. Questa terra fu annessa dall’impero russo nel 1805, durante la guerra russo-persiana del 1804-1813, annessione poi confermata dal Trattato del Golestan del 1813, e nel 1868 entrò a far parte del governatorato zarista  di Elisavetpol.

Dopo la Prima guerra mondiale, il Nagorno-Karabakh fu conteso tra la Repubblica di Armenia e quella dell’Azerbaigian. Con il sostegno dell’imperialismo inglese, si installò al potere un governatore azero che dette il via al massacro degli armeni. La popolazione autoctona, con il sostegno dell’esercito armeno, si ribellò dando vita per un paio di anni (1918-1920) ad una Repubblica Armena di Montagna, esattamente nel territorio dell’attuale Nagorno-Karabakh.

Con l’integrazione dell’Azerbaigian nell’Unione sovietica nell’aprile del 1920 (e con la contemporanea integrazione nell’URSS dell’Armenia), l’esercito armeno che aveva fino ad allora consentito la sopravvivenza della Repubblica Armena di Montagna, fu costretto a ritirarsi. Nel 1921, Stalin, in qualità di commissario del popolo alle nazionalità, sostenne l’annessione del Nagorno-Karabakh alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. 

Visto che comunque il 94% della popolazione della regione era armena, nel 1923 fu creato l’oblast’ autonomo del Nagorno-Karabakh, separato dall’Armenia da un “corridoio azero”. Secondo il censimento del 1989, nonostante decenni di “azerizzazione”, su una popolazione di 189.000 abitanti 145.500 erano armeni e 41.000 azeri. 

L’URSS ha congelato per 65 anni la situazione, fino al 1988 quando, approfittando della perestrojka e utilizzando la norma costituzionale sovietica sul diritto di autodeterminazione e di secessione, la regione dell’oblast’ autonomo del Nagorno-Karabakh si proclamò Repubblica socialista sovietica a tutti gli effetti, su un piano di parità con Armenia e Azerbaigian.

Nonostante l’intermediazione di Mikhail Gorbaciov, già nel 1988 scoppiarono violenze sia in Azerbaigian che in Armenia. Pogrom anti-armeni uccisero diverse centinaia di persone a Sumgait, vicino a Baku, e nella stessa Baku nel 1990.

A seguito della dissoluzione dell’URSS nel 1991, l’Azerbaigian e l’Armenia ottennero un’ndipendenza de facto. Così, anche l’Assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh proclamò l’indipendenza del paese il 2 settembre dello stesso anno, mentre il parlamento azero la annullava due mesi dopo. Gli abitanti del Nagorno-Karabakh il 10 dicembre 1991 confermarono con il 99,98% di sì la scelta dell’indipendenza in un referendum a cui partecipò l’82% degli aventi diritto. 

Tra il 1990 e il 1992, nella regione si verificò un disastro umanitario a causa dell’intervento militare azero e del blocco che l’Azerbaigian impose. Gli scontri tra armeni e azeri causarono numerose vittime e massacri da entrambe le parti.

La crisi militare e umanitaria fece sì che il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottò numerose risoluzioni sul tema.

Il “Gruppo di Minsk”, una coalizione de facto creata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), copresieduto da Russia, Francia e Stati Uniti, impose un cessate il fuoco nel 1994, che, salvo qualche sporadico incidente, resse fino al 2016, quando l’Azerbaigian intervenne di nuovo militarmente contro la Repubblica di Artsakh (la nuova denominazione assunta nel frattempo).

La nuova guerra vide un esplicito sostegno all’esercito azero da parte di Israele (con l’invio di armi) e da parte del regime turco (con l’invio di reparti di mercenari siriani e libici assoldati da Ankara).

Il 10 novembre 2020 venne firmato un nuovo accordo di cessate il fuoco e venne dispiegato un contingente di pace e di interposizione di 2.000 soldati russi.

Poi, è cronaca di queste settimane. Il 19 settembre 2023, l’Azerbaigian ha nuovamente attaccato il Nagorno-Karabakh con il pretesto di un’operazione “antiterroristica”, senza alcuna reazione del contingente russo di interposizione, obbligando così di fatto nei giorni successivi all’esodo forzato in Armenia di grandissima parte della popolazione. In pochi giorni sono arrivati in Armenia 65.000 profughi.

Il 28 settembre, le autorità della Repubblica di Artsakh, evidentemente con la pistola azera puntata alla tempia, hanno annunciato la dissoluzione dell’entità autonoma a partire dal 1° gennaio 2024.

Di seguito pubblichiamo un articolo di Vicken Cheterian, giornalista e analista politico, docente di relazioni internazionali alla Webster University di Ginevra.

La morte di una repubblica ribelle

di Vicken Cheterian, da alencontre.org

A mezzogiorno del 19 settembre 2023, l’esercito azero ha lanciato un attacco massiccio e immotivato sull’intera linea di fronte alle forze armene nella repubblica ribelle non riconosciuta del Nagorno Karabakh.

Droni turchi e israeliani hanno attaccato le difese aeree del Karabakh, missili balistici LORA di fabbricazione israeliana sono stati lanciati contro postazioni di artiglieria e le forze azere sono avanzate per tagliare le strade all’interno del Karabakh, isolando città e villaggi. Dopo una giornata di pesanti combattimenti, la leadership del Nagorno-Karabakh ha accettato una resa incondizionata come parte di un accordo mediato dalle “forze di pace” russe dispiegate nella regione.

Questa massiccia aggressione militare da parte dell’Azerbaigian era stata pianificata da tempo. Dal 12 dicembre 2022, l’Azerbaigian ha imposto un assedio al Nagorno-Karabakh, bloccando l’unica strada che collega la regione all’Armenia e quindi al mondo esterno. Questo blocco è stato inizialmente orchestrato da “attivisti ambientali”, che in realtà erano agenti del governo azero di Ilham Aliyev. 

Le “forze di pace” russe – nella misura in cui non sono intervenute in conformità al loro mandato, che comprendeva la garanzia di un passaggio sicuro attraverso il corridoio di Latchine – hanno rafforzato il blocco fino a quando la regione è stata completamente isolata dal mondo esterno. Di conseguenza, la regione e i suoi 120.000 abitanti hanno vissuto in condizioni di quasi fame, senza medicine per i malati e i feriti e senza carburante per il riscaldamento, le ambulanze e i veicoli militari.

Inoltre, l’Azerbaigian ha ripreso a importare armi da Israele, il che di solito prelude a una grave escalation militare. Secondo un rapporto (Haaretz, 13 settembre), da marzo Israele ha consegnato all’Azerbaigian 11 navi cargo Ilyushin-76 piene di armi, cinque delle quali nella prima metà di settembre. Ognuna era in grado di trasportare 40 tonnellate di armi. All’inizio di settembre, l’Azerbaigian ha anche iniziato ad ammassare truppe intorno a Karabakh e al confine con l’Armenia.

La guerra è stata prima annunciata e poi realizzata come previsto. Ilham Aliyev ha sempre voluto la guerra, non una pace negoziata.

L’arrivo di un lungo e freddo inverno

Le notti sono fredde sulle montagne del Karabakh, l’Artsakh armeno. Quando i nostri numerosi nemici hanno varcato i cancelli, i nostri amici se ne sono andati.

È difficile comprendere l’aggressività dell’Azerbaigian senza tenere conto della Turchia e del suo massiccio sostegno militare. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha fatto mistero del suo sostegno all’aggressione dell’Azerbaigian (Al-Monitor, 19 settembre), proprio come fece nel 2020 quando i soldati turchi furono direttamente coinvolti nella guerra. 

Dato che la Turchia ha continuato a imporre un blocco all’Armenia negli ultimi trent’anni, si ha l’impressione che non abbia perdonato agli armeni di essere sopravvissuti a un genocidio perpetrato durante la Prima guerra mondiale. 

I caschi blu russi si sono voltati dall’altra parte quando i soldati azeri hanno attaccato. La leadership russa è arrivata al punto di ordinare ai suoi propagandisti di incolpare l’Armenia – piuttosto che l’Azerbaigian – per le ultime ostilità scatenate dall’Azerbaigian (The Moscow Times, 20 settembre 2023). Con tali amici, non c’è bisogno di nemici.

L’Unione Europea – quella struttura che non sa che pesci pigliare – ha permesso all’Azerbaigian di aumentare le sue esportazioni di petrolio e gas l’anno scorso. Nel luglio 2022, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha visitato Baku per aumentare le importazioni di gas, mentre l’UE cercava alternative al gas russo. 

L’UE ha così pompato ancora più petrodollari in Azerbaigian e, pur discutendo “l’intera gamma delle nostre relazioni e della nostra cooperazione” (“Dichiarazione della Presidente von der Leyen con il Presidente azero Aliyev”, UE, 18 luglio 2022), Ursula von der Leyen non ha posto una sola precondizione per fermare la possibile pulizia etnica degli armeni del Karabakh. 

Per punire Putin per l’invasione dell’Ucraina, l’UE ha finanziato l’Azerbaigian e lo sterminio del Nagorno-Karabakh è stato solo un danno collaterale della sua realpolitik.

Dopo molte esitazioni, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito “genocidio” le atrocità commesse dagli ottomani contro gli armeni nel 1915 (“Statement by President Joe Biden on Armenian Remembrance Day”, Casa Bianca, 24 aprile 2022). È successo nel 2022, quindi è ancora fresco nella memoria di tutti. Ha avuto tutto il tempo e l’opportunità di avvertire Ilham Aliyev che avrebbe imposto sanzioni e che doveva fermare la pulizia etnica del Karabakh. Genocidio? Sì. Sì, ma sembra che il “mai più” non valga per gli armeni.

La politica internazionale oggi e nella vita quotidiana

Gli armeni hanno molte qualità, ma l’abilità politica non è una di queste. Hanno confuso la retorica e gli slogan patriottici con la politica. Per decenni, l’attivismo armeno ha cercato “giustizia”, come se la giustizia fosse possibile dopo il genocidio. Gli armeni hanno cercato riconoscimenti e parole, piuttosto che praticare la politica secondo le norme stabilite e sviluppare così una reale influenza.

L’errore fatale è stato che la leadership armena non ha seguito i cambiamenti in atto nella prassi politica internazionale. Essi contavano sulla Russia per moderare il conflitto e impedirne l’escalation. Ma la Russia di Putin era diversa da quella di Eltsin. Gli armeni contavano soprattutto sulla Russia per porre fine all’intervento diretto della Turchia nel Caucaso meridionale. Pensavano che questo avrebbe garantito un equilibrio di potere tra Armenia e Azerbaigian. Si sbagliavano. 

Quando l’Azerbaigian ha lanciato il suo massiccio attacco nel 2020, l’esercito turco è intervenuto, mentre la Russia è rimasta in attesa per 44 giorni, un tempo sufficiente per decimare le forze del Karabakh e l’esercito armeno.

Ma ciò che è più difficile è la continua incapacità dell’élite politica armena. Dalla “rivoluzione di velluto” del 2018, la politica armena si è polarizzata tra i sostenitori dei nuovi leader “rivoluzionari” [Nikol Pachinian, a seguito di una mobilitazione, è stato eletto primo ministro l’8 maggio 2018] e i sostenitori del vecchio ordine. 

Nel 2020, queste dispute interne hanno già impedito alla classe politica di vedere la tempesta in arrivo. Dopo la guerra e la sconfitta, c’era una nuova opportunità di fare appello all’unità nazionale, di concordare una piattaforma minima per lavorare insieme per salvare il Nagorno-Karabakh, o ciò che ne rimaneva.

Non tutti i politici sono statisti. La classe politica di Yerevan – governo e opposizione – sembra troppo assorbita dalle proprie beghe interne per rendersi conto che sta per perdere la propria patria (la culla della civiltà armena).

Per i piccoli stati e le piccole nazioni, un singolo errore, una singola sconfitta può essere fatale. Se guardiamo alla storia dell’Armenia, potremmo pensare che non c’è spazio per un singolo errore, che una singola sconfitta può essere fatale.

Quando il 19 settembre l’Azerbaigian ha attaccato l’aquila ferita dell’Artsakh [sullo stemma del Nagorno-Karabakh c’è un’aquila calva], nemmeno l’Armenia era presente per aiutare.

Oggi, l’intera popolazione del Karabakh è tenuta in ostaggio dall’esercito azero, mentre il leader azero Ilham Aliyev annuncia la sua “integrazione” forzata. Questo mi ricorda i campi di concentramento.

Riposa in pace, guerriero di montagna, il tuo coraggio e il tuo ostinato patriottismo non sono bastati a difendere la tua esistenza.

Ucraina-Palestina, I veleni del negazionismo

L’ambasciatore palestinese Hashem Dajani e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy


di 
David Finkel, redattore di Against the Current e membro di Jewish Voice for Peace – Detroit chapter e di Ukraine Solidarity Network, da againstthecurrent.org

L’invasione russa dell’Ucraina e l’escalation di violenza e pulizia etnica di Israele in Palestina sono diventate, nell’ultimo anno, due centri di una crisi globale sempre più profonda. Per la sinistra internazionale, la guerra in Ucraina e la catastrofe in Palestina, sia da sole che insieme, rappresentano un grande banco di prova per la teoria e, soprattutto, per la politica.

Una domanda ha assillato la sinistra: è possibile sostenere le lotte ucraine e palestinesi e opporsi all’imperialismo allo stesso tempo? In realtà, la domanda dovrebbe essere invertita: come è possibile per una sinistra genuinamente internazionalista non sostenere entrambe queste lotte per l’autodeterminazione e la sopravvivenza nazionale?

Ovviamente, la degenerazione della spirale sanguinosa nei Territori palestinesi occupati e la spinta della Russia a distruggere l’Ucraina sono entrambe emergenze internazionali. Al di là di questo, le situazioni sono ovviamente molto diverse. Tuttavia, ritengo che vi siano anche importanti parallelismi e connessioni.

A prima vista, la differenza più grande sta nella posizione dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati – che danno un massiccio sostegno militare alla guerra di difesa dell’Ucraina e applicano sanzioni economiche contro la Russia, mentre allo stesso tempo, da più di cinque decenni, permettono allo stato israeliano di schiacciare le aspirazioni del popolo palestinese alla sopravvivenza e all’autodeterminazione.

Per una parte della sinistra, purtroppo, la lotta globale ruota solo intorno ai crimini dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati, al punto che non solo il ruolo degli altri oppressori imperiali, ma anche l’azione delle persone reali e dei popoli oppressi che lottano per la propria libertà, svanisce nell’irrilevanza. Da questo punto di vista, per la sinistra sostenere contemporaneamente l’Ucraina e la lotta palestinese sembra una contraddizione senza speranza.

L’ipocrisia della retorica occidentale sull’“ordine internazionale basato sulle regole” e sulla “democrazia contro l’autoritarismo” è, ovviamente, schiacciante. Ma questo non è nuovo né sorprendente alla luce di secoli di storia coloniale e imperiale.

Per noi che ci sforziamo di essere coerentemente antimperialisti, il punto di partenza non è quale campo imperialista sia più forte o “il nemico principale” in qualche schema globale, ma piuttosto i diritti delle nazioni e dei popoli e le loro legittime lotte.

Ecco perché inizio questa discussione con un parallelo vitale tra le lotte ucraine e palestinesi: la negazione della nazionalità ucraina da parte di Vladimir Putin, che la definisce una creazione artificiale dei bolscevichi senza Dio, e la negazione della nazionalità palestinese da parte di tutti gli ideologi israeliani e del movimento sionista che sostengono che “i palestinesi non esistono” (Golda Meir) e che “non c’è mai stato uno stato palestinese”.

Ideologie di negazione

Stiamo equiparando Ucraina e Palestina? Certamente no: stiamo parlando di negazionismo. In ogni caso si tratta della negazione del diritto all’autodeterminazione. Questo tipo di ideologia contorta ha delle conseguenze, fino alla de-umanizzazione che spiana la strada all’omicidio di massa.

Nel caso della Palestina, il negazionismo facilita il mito – assurdo in sé e da tempo screditato, ma ancora ampiamente diffuso – secondo cui la popolazione palestinese autoctona sarebbe composta per lo più da arrivi recenti, attratti dalla prosperità generata dall’insediamento sionista. Sebbene sia di fatto vacua, essa funge da comodo supporto ideologico per la continua confisca di terre e proprietà palestinesi ai fini della “ricostruzione della patria ebraica”.

Questa narrazione attraversa il tempo e la politica, dalla sionista laburista Golda Meir all’attuale ministro delle Finanze israeliano, il religioso-nazionalista integralista Bezalel Smotrich: “Non esiste una nazione palestinese. Non esiste una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.

I nazionalisti cristiani statunitensi di destra riprendono il tema: “I palestinesi non esistono proprio”, afferma l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee.

Questo tentativo di cancellare la realtà del popolo palestinese ha raggiunto il suo apice, almeno negli ambienti statunitensi, con la pubblicazione di un saggio di Joan Peters (o scritto per lei), From Time Immemorial (1984). Il testo è stato smontato in toto da Norman Finkelstein e screditato da studiosi come lo storico israeliano Yehoshua Porath, che lo ha definito un “puro falso”, ma come utile narrazione sionista ha continuato a circolare.

La tesi di Peters ha preso nuova vita quando le sue falsità sono state riprese, senza attribuzione, da Alan Dershowitz per il suo libro del 2003 The Case for Israel. (Norman Finkelstein è tornato sull’esposizione di Peters e Dershowitz nel suo libro del 2008 Beyond Chutzpah. Dershowitz ha negato di aver tentato di fare pressione sulla University of California Press affinché non pubblicasse il libro di Finkelstein. Tra l’altro, a posteriori la vicenda illustra alcuni aspetti del carattere di Dershowitz che alla fine lo hanno avvicinato a Donald Trump).

Per molti amici liberali (ebrei e non) di Israele, la brutalità dell’occupazione, quando è impossibile da ignorare, diventa un motivo di allarme e di malumore, ma l’idea che i palestinesi siano qualcosa di meno di una “vera” nazione serve come parziale anestetico. Possono razionalizzare la “violenza da entrambe le parti” come il risultato dell’irragionevole “rifiuto” dei palestinesi (cioè il rifiuto di accettare il furto dell’80% della loro patria).

Questo ha anche conseguenze debilitanti per la politica israeliana, come vedremo di seguito.

Nella guerra d’Ucraina, l’affermazione di Putin secondo cui l’Ucraina fa naturalmente parte del “cuore della Russia” è storicamente ridicola, ma essendo promossa da una potente propaganda di stato non ha bisogno di essere sostenuta dai fatti. Il mito mette in risalto le pretese annessionistiche di Mosca sulle province di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, oltre che sulla Crimea.

Nel suo saggio del luglio 2021 “Sull’unità storica di russi e ucraini”, Putin ha scritto della “bomba a orologeria” piazzata nell’Unione Sovietica alla sua fondazione:

“Il diritto delle repubbliche di secedere liberamente dall’Unione fu incluso nel testo della Dichiarazione sulla creazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e, successivamente, nella Costituzione dell’URSS del 1924. Così facendo, gli autori hanno piantato nelle fondamenta del nostro stato la più pericolosa bomba a orologeria, che è esplosa nel momento in cui è venuto meno il meccanismo di sicurezza fornito dal ruolo di guida del Partito comunista dell’Unione sovietica, facendo crollare il partito stesso dall’interno”.

Nell’aprile 2008, in occasione di un vertice NATO a Bucarest, Putin avrebbe affermato che: “L’Ucraina non è nemmeno uno stato! Che cos’è l’Ucraina? Una parte del suo territorio è [in] Europa orientale, ma una parte, una parte considerevole, è un nostro regalo!”.

Il noto studioso (sic!) di storia europea, Donald J. Trump, avrebbe esclamato in un briefing dell’agosto 2017 che l’Ucraina “non era un ‘vero paese’, che era sempre stata parte della Russia”. (Washington Post, 2 novembre 2019, A presidential loathing for Ukraine is at the heart of the impeachment inquiry”Il disgusto presidenziale per l’Ucraina è al centro dell’inchiesta sull’impeachment”).

La negazione della nazionalità dell’Ucraina aiuta i settori più ignoranti e disonesti della sinistra globale a etichettare il nazionalismo ucraino come guidato da “nazisti” degni di essere sterminati, mentre gli elementi più pacifisti considerano il territorio ucraino come merce di scambio da negoziare per fermare la carneficina.

Se l’Ucraina è considerata una costruzione artificiale – a prescindere da ciò che pensano gli ucraini – quanto dovrebbe importare se Donetsk fa parte dell’Ucraina, della Russia o è semi-indipendente? Così vediamo, ad esempio, come CodePink e i gruppi alleati che invocano la “pace” rifiutino sistematicamente di rispondere alla semplice domanda: “L’Ucraina è un ‘vero paese’ e ha il diritto di difendersi?”.

Questo rifiuto rende più comodo per i pacifisti che simpatizzano con le sofferenze degli ucraini, ma non comprendono la profondità popolare della resistenza dell’Ucraina, invocare “negoziati di pace” che equivarrebbero all’amputazione territoriale dell’Ucraina. Sembrano anche ciechi di fronte alla realtà che una tale “pace” porterebbe a un massiccio riarmo da tutte le parti per un prossimo, più sanguinoso round.

Il punto non è quali condizioni il popolo ucraino potrebbe decidere di negoziare – che è un suo diritto, e solo suo – ma la bancarotta politica e morale dei sostenitori della “pace” che gli danno lezioni sulla necessità di arrendersi.

Se le potenze imperialiste occidentali, che sappiamo essere infinitamente infide, alla fine si muoveranno per imporre qualche “soluzione” in nome del “realismo”, rimane una questione aperta. Per la sinistra, questo non dovrebbe influire sulla difesa di principio del diritto degli ucraini a determinare il proprio futuro.

Le principali differenze

La negazione parallela della nazionalità palestinese e ucraina e dei diritti all’autodeterminazione non significa che queste lotte siano identiche. Ovviamente, l’Ucraina non è la Palestina – e tanto meno Israele, come ha sostenuto il presidente ucraino Zelensky quando sperava di ottenere maggiore sostegno da quella parte:

“Nel 2020, Zelensky ha fatto uscire l’Ucraina dal Comitato delle Nazioni Unite sull’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese e, in un discorso alla Knesset, ha collegato il diritto esistenziale della nazione ucraina a quello della nazione israeliana, entrambe in lotta contro un nemico votato alla ‘distruzione totale del popolo, dello Stato e della cultura’. In una risposta appassionata, il professore dell’Università palestinese di Haifa Asad Ghanem ha accusato Zelensky di invertire il ruolo di occupante e occupato. Pur esprimendo il sostegno palestinese alla resistenza del popolo ucraino alla brutale invasione russa, ha affermato che le parole di Zelensky sono una ‘vergogna quando si tratta di lotte globali per la libertà e la liberazione'”. (Liz Fekete, Civilisational racism, ethnonationalism and the clash of imperialisms in Ukraine,” Race & Class).

Gli esperti di geopolitica possono spiegare tutte le differenze tra la guerra in Ucraina e il cosiddetto “conflitto” tra Palestina e Israele. In fondo, però, le differenze tra questi stati e nazioni moderni sono abbastanza chiare. Attenzione: diciamo stati e nazioni “moderni”, perché non stiamo parlando delle guerre dei regni europei e dei confini statali dei secoli passati, né tantomeno della Rus’ di Kiev medievale o della storia dell’antico Israele, intrisa di miti. Tutti questi argomenti sono interessanti, ma appartengono a discussioni separate.

La differenza principale tra l’Ucraina e Israele è che il moderno stato ucraino non è stato fondato sull’espropriazione della terra di un altro popolo, che ha espulso in massa e ha proceduto a imporre un brutale regime di occupazione con caratteristiche coloniali e di apartheid.

D’altra parte, la grande differenza tra l’Ucraina e la Palestina è che l’Ucraina è uno stato nazionale con la capacità ben dimostrata di difendere il proprio territorio da un invasore imperiale. Il fatto di trovarsi al centro dell’Europa le ha permesso di ottenere l’assistenza militare necessaria. I palestinesi non hanno istituzioni statali, né un esercito, né alcuna opzione militare strategica per conquistare la loro libertà.

Inoltre, i palestinesi non hanno amici tra le grandi potenze e l’imperialismo statunitense, in particolare, è del tutto indifferente al loro destino finché le cose rimangono relativamente “tranquille” (cioè invisibili). Di fatto, la Palestina è essenzialmente un danno collaterale in ogni crisi internazionale, compresa l’attuale guerra in Ucraina.

Il popolo palestinese attira una grande solidarietà popolare globale, ma nessun sostegno da parte di attori “geopolitici” nella regione o altrove. Si tratta di una popolazione essenzialmente disarmata che si confronta da sola con l’enorme potere dello stato coloniale israeliano.

Per ragioni proprie, ovviamente, l’imperialismo statunitense assiste la guerra dell’Ucraina e contemporaneamente permette a Israele di schiacciare la Palestina. Questo è un esempio di cinica politica delle grandi potenze, ma non è un motivo per cui la sinistra debba semplicemente rivoltarla come un calzino. L’eroismo ampiamente acclamato del popolo ucraino e quello generalmente non riconosciuto del popolo palestinese meritano la stessa solidarietà da parte di chi, come noi, si oppone a tutti gli imperialismi e i colonialismi. Questo è ancora più importante ora.

Feedback reazionario

Un ulteriore parallelo è che l’invasione dell’Ucraina e il disastro in Palestina non possono essere separati dalle crisi politiche interne rispettivamente in Russia e in Israele. In ogni caso, gli sforzi dei regimi per schiacciare un’altra nazione si ripercuotono direttamente sulle loro società.

Troppi “amici di Israele” liberali non riescono a comprendere il fatto che l’amalgama ebraico-suprematista (tra nazionalismo di destra ed estremismo religioso) della nuova coalizione di governo israeliana rappresenta l’autentica meta verso cui il sionismo politico si dirige da molto tempo.

Si può discutere a lungo e in modo complesso se fosse possibile una destinazione diversa – se l’occupazione post-1967 fosse stata rapidamente interrotta – ma questa possibilità è morta da tempo, insieme alla ormai sepolta “soluzione dei due stati”.

Mentre gli omicidi da parte dei militari israeliani e dei coloni sono una realtà quotidiana nei Territori palestinesi occupati, allo stesso tempo è esploso uno scontro senza precedenti nella politica israeliana sulla mossa perentoria del governo di prendere il controllo sulla nomina e sui poteri della magistratura del paese. L’avvertimento del presidente dello stato israeliano Herzog di una “guerra civile” mostra la portata della crisi.

La minaccia della “riforma” ha portato centinaia di migliaia di cittadini israeliani (quasi interamente ebrei) nelle strade, bloccando le autostrade e i porti e definendo apertamente “fascista” il piano del governo. Essi vedono la lotta come una battaglia di vita o di morte per salvare la democrazia israeliana.  Con i capitali che fuggono dal paese, Amjad Iraqi della rivista israeliana online +972 definisce la rivolta dilagante, ironia della sorte, “una delle campagne BDS più impressionanti mai viste” (BDS, boicottaggio/disinvestimento/sanzioni).

La democrazia esiste, per i cittadini ebrei di Israele; in misura molto più limitata per i cittadini arabi del paese; e non esiste affatto per i palestinesi dei Territori occupati, che vivono in condizioni di apartheid militare. Un movimento per la democrazia israeliana è inevitabilmente strangolato finché la negazione della nazionalità palestinese rimane in vigore, apertamente o per difetto.

Per il primo ministro Netanyahu, la “riforma” giudiziaria significa esimersi dal perseguire penalmente le molteplici accuse di corruzione. Netanyahu è di fatto prigioniero dei suoi partner di coalizione religioso-estremisti, per i quali si tratta di prendere il controllo delle questioni relative all'”identità ebraica” e di rimuovere ogni (debole) freno agli assalti militari e dei coloni alle città palestinesi, all’espansione illimitata degli insediamenti e al potere di bandire i partiti a guida araba dalle future elezioni (come le commissioni elettorali parlamentari hanno tentato di fare in precedenza, ma sono state annullate dalla Corte Suprema di Israele).

I critici palestinesi e progressisti hanno accuratamente sottolineato che la lotta per “salvare la democrazia di Israele” consiste essenzialmente nel mantenere uno status quo già letalmente antidemocratico per i palestinesi. Date queste limitazioni, le sue prospettive di successo sostanziale sono offuscate – anche se la prospettiva di indebolire l’autorità giudiziaria sta causando una seria fuga di capitali, mentre il protettore supremo di Israele, il governo degli Stati Uniti, sembra ora seriamente preoccupato dalle implicazioni degli appelli apertamente genocidi dei ministri del gabinetto sionista religioso. Entrambi questi fattori sono negativi per gli affari e la “stabilità”.

Un interessante confronto tra Israele e Russia è stata l’indifferenza pubblica della maggior parte delle loro popolazioni – nel caso israeliano-ebraico, al disastro che si sta svolgendo nei Territori occupati, e nel caso russo all’orrore in Ucraina.

Da molti anni ormai, la maggior parte dell’opinione pubblica israelo-ebraica è stata condizionata a ignorare i fatti dell’occupazione, anche quando sono liberamente disponibili. In Russia, i media di stato e la repressione della polizia tengono nascosta la brutalità della guerra. Il grado di libertà in Israele rende possibile un’eccitazione civica, mentre in Russia l’invasione dell’Ucraina è stata accompagnata dalla scomparsa dei rimanenti residui di democrazia.

Il regime di Putin è ora la nave madre globale del nazionalismo cristiano bianco, per il quale è tanto ammirato da gran parte della fazione MAGA del Partito Repubblicano statunitense. Come ampiamente discusso, la Russia si sta muovendo sempre più verso una forma di fascismo, una tendenza che rischia di accelerare solo se la sua invasione non verrà sconfitta. (Abbiamo discusso questa tendenza nel recente articolo di Zakhar Popopvych “La strada della Russia verso il fascismo?”).

Per quanto riguarda l’impasse della società russa stessa, essa è aggravata dalla catastrofe della guerra scelta da Putin. Come ha scritto nel primo anniversario della guerra il sociologo Boris Kagarlitsky:

“L’anno trascorso dall’inizio della guerra ha dimostrato chiaramente che il sistema politico ha bisogno di un cambiamento radicale. L’alternativa alle riforme può essere solo la crescente disintegrazione delle istituzioni statali e il degrado di un’economia già malata, che non conviene a nessuno. Ma l’unico modo per cambiare rotta è rimuovere Vladimir Putin dal potere”.

Prospettive

In effetti, le prospettive di un futuro democratico per la Russia sono indissolubilmente legate all’esito della guerra – in particolare, dipendono dalla sconfitta delle sue ambizioni imperialiste e annessionistiche in Ucraina. Anche la democrazia ucraina dipende dai risultati della guerra, ma nel suo caso dalla vittoria della resistenza all’invasione. E gli esiti di questi eventi avranno effetti a catena per tutti noi.

Mentre le forze sindacali e di sinistra ucraine sono pienamente impegnate nella guerra, sono anche costrette a resistere alle politiche antioperaie del governo Zelensky. Una vittoria ucraina aprirebbe la possibilità (non ci sono garanzie) di superare definitivamente il ciclo della politica oligarchica di fazione che ha dominato il paese dopo l’indipendenza post-sovietica del 1991. D’altro canto, è più probabile che una tragica sconfitta o l’amputazione dell’Ucraina mandi in frantumi la sua emergente unità nazionale – e provochi una rinascita delle forze di estrema destra.

Per Israele, la conservazione della democrazia formale dipende dalla sua espansione sostanziale. Ciò significa innanzitutto un movimento che affronti la riduzione dei diritti dei cittadini arabi – e il regime di apartheid-coloniale nei Territori palestinesi occupati – nella legge e nella pratica. A tal fine è necessaria una rivoluzione politica che distrugga la dottrina dello “stato-nazione del popolo ebraico” che l’attuale coalizione di governo sta guidando verso le sue ultime indicibili conclusioni.

Come in qualsiasi altro regime etno-religioso, la supremazia ebraica e la democrazia non coesisteranno pacificamente. I coloni violenti che hanno compiuto il pogrom di Huwara e che commettono quotidianamente atrocità che non fanno notizia a livello internazionale, lo capiscono perfettamente. Senza dubbio correranno ad unirsi alla “guardia nazionale” che Netanyahu ha regalato al membro di gabinetto estremista e razzista Itamar Bem-Gvir.

La questione per la società israeliana è se sia in grado di affrontare le conseguenze della negazione della nazione palestinese da parte del movimento sionista, fin dalla sua nascita. Questa lotta richiede assistenza dall’esterno, attraverso il BDS (boicottaggio/disinvestimento/sanzioni) e altre azioni di solidarietà per i diritti dei palestinesi.

Allo stesso tempo, il negazionismo russo della nazionalità ucraina può essere sconfitto solo sul campo di battaglia, e ciò richiede solidarietà internazionale, anche con le armi, per la guerra di sopravvivenza dell’Ucraina. La Russia e la NATO possono anche condurre un elemento di “guerra per procura” – che grazie a Putin, la NATO sta vincendo – ma ciò che è di importanza decisiva è che l’Ucraina sta combattendo una guerra di popolo che ogni forza di sinistra dovrebbe sostenere.

Contrariamente alla retorica raffazzonata di Biden, i problemi di questa guerra non riguardano gli stati globali che si battono per la “democrazia contro l’autoritarismo”. È una lotta che non esiste tra stati, ma all’interno di ogni società, compresa (soprattutto) la nostra.  E non si tratta nemmeno della pia menzogna di un “ordine internazionale basato sulle regole”, in cui gli Stati Uniti fanno le regole e danno gli ordini.

La sinistra non deve farsi sviare: in Ucraina e in Palestina la lotta riguarda innanzitutto i diritti dei popoli e delle nazioni e le conseguenze velenose che si hanno quando questi diritti vengono negati.