L’ambasciatore palestinese Hashem Dajani e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy
di David Finkel, redattore di Against the Current e membro di Jewish Voice for Peace – Detroit chapter e di Ukraine Solidarity Network, da againstthecurrent.org
L’invasione russa dell’Ucraina e l’escalation di violenza e pulizia etnica di Israele in Palestina sono diventate, nell’ultimo anno, due centri di una crisi globale sempre più profonda. Per la sinistra internazionale, la guerra in Ucraina e la catastrofe in Palestina, sia da sole che insieme, rappresentano un grande banco di prova per la teoria e, soprattutto, per la politica.
Una domanda ha assillato la sinistra: è possibile sostenere le lotte ucraine e palestinesi e opporsi all’imperialismo allo stesso tempo? In realtà, la domanda dovrebbe essere invertita: come è possibile per una sinistra genuinamente internazionalista non sostenere entrambe queste lotte per l’autodeterminazione e la sopravvivenza nazionale?
Ovviamente, la degenerazione della spirale sanguinosa nei Territori palestinesi occupati e la spinta della Russia a distruggere l’Ucraina sono entrambe emergenze internazionali. Al di là di questo, le situazioni sono ovviamente molto diverse. Tuttavia, ritengo che vi siano anche importanti parallelismi e connessioni.
A prima vista, la differenza più grande sta nella posizione dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati – che danno un massiccio sostegno militare alla guerra di difesa dell’Ucraina e applicano sanzioni economiche contro la Russia, mentre allo stesso tempo, da più di cinque decenni, permettono allo stato israeliano di schiacciare le aspirazioni del popolo palestinese alla sopravvivenza e all’autodeterminazione.
Per una parte della sinistra, purtroppo, la lotta globale ruota solo intorno ai crimini dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati, al punto che non solo il ruolo degli altri oppressori imperiali, ma anche l’azione delle persone reali e dei popoli oppressi che lottano per la propria libertà, svanisce nell’irrilevanza. Da questo punto di vista, per la sinistra sostenere contemporaneamente l’Ucraina e la lotta palestinese sembra una contraddizione senza speranza.
L’ipocrisia della retorica occidentale sull’“ordine internazionale basato sulle regole” e sulla “democrazia contro l’autoritarismo” è, ovviamente, schiacciante. Ma questo non è nuovo né sorprendente alla luce di secoli di storia coloniale e imperiale.
Per noi che ci sforziamo di essere coerentemente antimperialisti, il punto di partenza non è quale campo imperialista sia più forte o “il nemico principale” in qualche schema globale, ma piuttosto i diritti delle nazioni e dei popoli e le loro legittime lotte.
Ecco perché inizio questa discussione con un parallelo vitale tra le lotte ucraine e palestinesi: la negazione della nazionalità ucraina da parte di Vladimir Putin, che la definisce una creazione artificiale dei bolscevichi senza Dio, e la negazione della nazionalità palestinese da parte di tutti gli ideologi israeliani e del movimento sionista che sostengono che “i palestinesi non esistono” (Golda Meir) e che “non c’è mai stato uno stato palestinese”.
Ideologie di negazione
Stiamo equiparando Ucraina e Palestina? Certamente no: stiamo parlando di negazionismo. In ogni caso si tratta della negazione del diritto all’autodeterminazione. Questo tipo di ideologia contorta ha delle conseguenze, fino alla de-umanizzazione che spiana la strada all’omicidio di massa.
Nel caso della Palestina, il negazionismo facilita il mito – assurdo in sé e da tempo screditato, ma ancora ampiamente diffuso – secondo cui la popolazione palestinese autoctona sarebbe composta per lo più da arrivi recenti, attratti dalla prosperità generata dall’insediamento sionista. Sebbene sia di fatto vacua, essa funge da comodo supporto ideologico per la continua confisca di terre e proprietà palestinesi ai fini della “ricostruzione della patria ebraica”.
Questa narrazione attraversa il tempo e la politica, dalla sionista laburista Golda Meir all’attuale ministro delle Finanze israeliano, il religioso-nazionalista integralista Bezalel Smotrich: “Non esiste una nazione palestinese. Non esiste una storia palestinese. Non esiste una lingua palestinese”.
I nazionalisti cristiani statunitensi di destra riprendono il tema: “I palestinesi non esistono proprio”, afferma l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee.
Questo tentativo di cancellare la realtà del popolo palestinese ha raggiunto il suo apice, almeno negli ambienti statunitensi, con la pubblicazione di un saggio di Joan Peters (o scritto per lei), From Time Immemorial (1984). Il testo è stato smontato in toto da Norman Finkelstein e screditato da studiosi come lo storico israeliano Yehoshua Porath, che lo ha definito un “puro falso”, ma come utile narrazione sionista ha continuato a circolare.
La tesi di Peters ha preso nuova vita quando le sue falsità sono state riprese, senza attribuzione, da Alan Dershowitz per il suo libro del 2003 The Case for Israel. (Norman Finkelstein è tornato sull’esposizione di Peters e Dershowitz nel suo libro del 2008 Beyond Chutzpah. Dershowitz ha negato di aver tentato di fare pressione sulla University of California Press affinché non pubblicasse il libro di Finkelstein. Tra l’altro, a posteriori la vicenda illustra alcuni aspetti del carattere di Dershowitz che alla fine lo hanno avvicinato a Donald Trump).
Per molti amici liberali (ebrei e non) di Israele, la brutalità dell’occupazione, quando è impossibile da ignorare, diventa un motivo di allarme e di malumore, ma l’idea che i palestinesi siano qualcosa di meno di una “vera” nazione serve come parziale anestetico. Possono razionalizzare la “violenza da entrambe le parti” come il risultato dell’irragionevole “rifiuto” dei palestinesi (cioè il rifiuto di accettare il furto dell’80% della loro patria).
Questo ha anche conseguenze debilitanti per la politica israeliana, come vedremo di seguito.
Nella guerra d’Ucraina, l’affermazione di Putin secondo cui l’Ucraina fa naturalmente parte del “cuore della Russia” è storicamente ridicola, ma essendo promossa da una potente propaganda di stato non ha bisogno di essere sostenuta dai fatti. Il mito mette in risalto le pretese annessionistiche di Mosca sulle province di Luhansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, oltre che sulla Crimea.
Nel suo saggio del luglio 2021 “Sull’unità storica di russi e ucraini”, Putin ha scritto della “bomba a orologeria” piazzata nell’Unione Sovietica alla sua fondazione:
“Il diritto delle repubbliche di secedere liberamente dall’Unione fu incluso nel testo della Dichiarazione sulla creazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e, successivamente, nella Costituzione dell’URSS del 1924. Così facendo, gli autori hanno piantato nelle fondamenta del nostro stato la più pericolosa bomba a orologeria, che è esplosa nel momento in cui è venuto meno il meccanismo di sicurezza fornito dal ruolo di guida del Partito comunista dell’Unione sovietica, facendo crollare il partito stesso dall’interno”.
Nell’aprile 2008, in occasione di un vertice NATO a Bucarest, Putin avrebbe affermato che: “L’Ucraina non è nemmeno uno stato! Che cos’è l’Ucraina? Una parte del suo territorio è [in] Europa orientale, ma una parte, una parte considerevole, è un nostro regalo!”.
Il noto studioso (sic!) di storia europea, Donald J. Trump, avrebbe esclamato in un briefing dell’agosto 2017 che l’Ucraina “non era un ‘vero paese’, che era sempre stata parte della Russia”. (Washington Post, 2 novembre 2019, “A presidential loathing for Ukraine is at the heart of the impeachment inquiry”, Il disgusto presidenziale per l’Ucraina è al centro dell’inchiesta sull’impeachment”).
La negazione della nazionalità dell’Ucraina aiuta i settori più ignoranti e disonesti della sinistra globale a etichettare il nazionalismo ucraino come guidato da “nazisti” degni di essere sterminati, mentre gli elementi più pacifisti considerano il territorio ucraino come merce di scambio da negoziare per fermare la carneficina.
Se l’Ucraina è considerata una costruzione artificiale – a prescindere da ciò che pensano gli ucraini – quanto dovrebbe importare se Donetsk fa parte dell’Ucraina, della Russia o è semi-indipendente? Così vediamo, ad esempio, come CodePink e i gruppi alleati che invocano la “pace” rifiutino sistematicamente di rispondere alla semplice domanda: “L’Ucraina è un ‘vero paese’ e ha il diritto di difendersi?”.
Questo rifiuto rende più comodo per i pacifisti che simpatizzano con le sofferenze degli ucraini, ma non comprendono la profondità popolare della resistenza dell’Ucraina, invocare “negoziati di pace” che equivarrebbero all’amputazione territoriale dell’Ucraina. Sembrano anche ciechi di fronte alla realtà che una tale “pace” porterebbe a un massiccio riarmo da tutte le parti per un prossimo, più sanguinoso round.
Il punto non è quali condizioni il popolo ucraino potrebbe decidere di negoziare – che è un suo diritto, e solo suo – ma la bancarotta politica e morale dei sostenitori della “pace” che gli danno lezioni sulla necessità di arrendersi.
Se le potenze imperialiste occidentali, che sappiamo essere infinitamente infide, alla fine si muoveranno per imporre qualche “soluzione” in nome del “realismo”, rimane una questione aperta. Per la sinistra, questo non dovrebbe influire sulla difesa di principio del diritto degli ucraini a determinare il proprio futuro.
Le principali differenze
La negazione parallela della nazionalità palestinese e ucraina e dei diritti all’autodeterminazione non significa che queste lotte siano identiche. Ovviamente, l’Ucraina non è la Palestina – e tanto meno Israele, come ha sostenuto il presidente ucraino Zelensky quando sperava di ottenere maggiore sostegno da quella parte:
“Nel 2020, Zelensky ha fatto uscire l’Ucraina dal Comitato delle Nazioni Unite sull’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese e, in un discorso alla Knesset, ha collegato il diritto esistenziale della nazione ucraina a quello della nazione israeliana, entrambe in lotta contro un nemico votato alla ‘distruzione totale del popolo, dello Stato e della cultura’. In una risposta appassionata, il professore dell’Università palestinese di Haifa Asad Ghanem ha accusato Zelensky di invertire il ruolo di occupante e occupato. Pur esprimendo il sostegno palestinese alla resistenza del popolo ucraino alla brutale invasione russa, ha affermato che le parole di Zelensky sono una ‘vergogna quando si tratta di lotte globali per la libertà e la liberazione'”. (Liz Fekete, Civilisational racism, ethnonationalism and the clash of imperialisms in Ukraine,” Race & Class).
Gli esperti di geopolitica possono spiegare tutte le differenze tra la guerra in Ucraina e il cosiddetto “conflitto” tra Palestina e Israele. In fondo, però, le differenze tra questi stati e nazioni moderni sono abbastanza chiare. Attenzione: diciamo stati e nazioni “moderni”, perché non stiamo parlando delle guerre dei regni europei e dei confini statali dei secoli passati, né tantomeno della Rus’ di Kiev medievale o della storia dell’antico Israele, intrisa di miti. Tutti questi argomenti sono interessanti, ma appartengono a discussioni separate.
La differenza principale tra l’Ucraina e Israele è che il moderno stato ucraino non è stato fondato sull’espropriazione della terra di un altro popolo, che ha espulso in massa e ha proceduto a imporre un brutale regime di occupazione con caratteristiche coloniali e di apartheid.
D’altra parte, la grande differenza tra l’Ucraina e la Palestina è che l’Ucraina è uno stato nazionale con la capacità ben dimostrata di difendere il proprio territorio da un invasore imperiale. Il fatto di trovarsi al centro dell’Europa le ha permesso di ottenere l’assistenza militare necessaria. I palestinesi non hanno istituzioni statali, né un esercito, né alcuna opzione militare strategica per conquistare la loro libertà.
Inoltre, i palestinesi non hanno amici tra le grandi potenze e l’imperialismo statunitense, in particolare, è del tutto indifferente al loro destino finché le cose rimangono relativamente “tranquille” (cioè invisibili). Di fatto, la Palestina è essenzialmente un danno collaterale in ogni crisi internazionale, compresa l’attuale guerra in Ucraina.
Il popolo palestinese attira una grande solidarietà popolare globale, ma nessun sostegno da parte di attori “geopolitici” nella regione o altrove. Si tratta di una popolazione essenzialmente disarmata che si confronta da sola con l’enorme potere dello stato coloniale israeliano.
Per ragioni proprie, ovviamente, l’imperialismo statunitense assiste la guerra dell’Ucraina e contemporaneamente permette a Israele di schiacciare la Palestina. Questo è un esempio di cinica politica delle grandi potenze, ma non è un motivo per cui la sinistra debba semplicemente rivoltarla come un calzino. L’eroismo ampiamente acclamato del popolo ucraino e quello generalmente non riconosciuto del popolo palestinese meritano la stessa solidarietà da parte di chi, come noi, si oppone a tutti gli imperialismi e i colonialismi. Questo è ancora più importante ora.
Feedback reazionario
Un ulteriore parallelo è che l’invasione dell’Ucraina e il disastro in Palestina non possono essere separati dalle crisi politiche interne rispettivamente in Russia e in Israele. In ogni caso, gli sforzi dei regimi per schiacciare un’altra nazione si ripercuotono direttamente sulle loro società.
Troppi “amici di Israele” liberali non riescono a comprendere il fatto che l’amalgama ebraico-suprematista (tra nazionalismo di destra ed estremismo religioso) della nuova coalizione di governo israeliana rappresenta l’autentica meta verso cui il sionismo politico si dirige da molto tempo.
Si può discutere a lungo e in modo complesso se fosse possibile una destinazione diversa – se l’occupazione post-1967 fosse stata rapidamente interrotta – ma questa possibilità è morta da tempo, insieme alla ormai sepolta “soluzione dei due stati”.
Mentre gli omicidi da parte dei militari israeliani e dei coloni sono una realtà quotidiana nei Territori palestinesi occupati, allo stesso tempo è esploso uno scontro senza precedenti nella politica israeliana sulla mossa perentoria del governo di prendere il controllo sulla nomina e sui poteri della magistratura del paese. L’avvertimento del presidente dello stato israeliano Herzog di una “guerra civile” mostra la portata della crisi.
La minaccia della “riforma” ha portato centinaia di migliaia di cittadini israeliani (quasi interamente ebrei) nelle strade, bloccando le autostrade e i porti e definendo apertamente “fascista” il piano del governo. Essi vedono la lotta come una battaglia di vita o di morte per salvare la democrazia israeliana. Con i capitali che fuggono dal paese, Amjad Iraqi della rivista israeliana online +972 definisce la rivolta dilagante, ironia della sorte, “una delle campagne BDS più impressionanti mai viste” (BDS, boicottaggio/disinvestimento/sanzioni).
La democrazia esiste, per i cittadini ebrei di Israele; in misura molto più limitata per i cittadini arabi del paese; e non esiste affatto per i palestinesi dei Territori occupati, che vivono in condizioni di apartheid militare. Un movimento per la democrazia israeliana è inevitabilmente strangolato finché la negazione della nazionalità palestinese rimane in vigore, apertamente o per difetto.
Per il primo ministro Netanyahu, la “riforma” giudiziaria significa esimersi dal perseguire penalmente le molteplici accuse di corruzione. Netanyahu è di fatto prigioniero dei suoi partner di coalizione religioso-estremisti, per i quali si tratta di prendere il controllo delle questioni relative all'”identità ebraica” e di rimuovere ogni (debole) freno agli assalti militari e dei coloni alle città palestinesi, all’espansione illimitata degli insediamenti e al potere di bandire i partiti a guida araba dalle future elezioni (come le commissioni elettorali parlamentari hanno tentato di fare in precedenza, ma sono state annullate dalla Corte Suprema di Israele).
I critici palestinesi e progressisti hanno accuratamente sottolineato che la lotta per “salvare la democrazia di Israele” consiste essenzialmente nel mantenere uno status quo già letalmente antidemocratico per i palestinesi. Date queste limitazioni, le sue prospettive di successo sostanziale sono offuscate – anche se la prospettiva di indebolire l’autorità giudiziaria sta causando una seria fuga di capitali, mentre il protettore supremo di Israele, il governo degli Stati Uniti, sembra ora seriamente preoccupato dalle implicazioni degli appelli apertamente genocidi dei ministri del gabinetto sionista religioso. Entrambi questi fattori sono negativi per gli affari e la “stabilità”.
Un interessante confronto tra Israele e Russia è stata l’indifferenza pubblica della maggior parte delle loro popolazioni – nel caso israeliano-ebraico, al disastro che si sta svolgendo nei Territori occupati, e nel caso russo all’orrore in Ucraina.
Da molti anni ormai, la maggior parte dell’opinione pubblica israelo-ebraica è stata condizionata a ignorare i fatti dell’occupazione, anche quando sono liberamente disponibili. In Russia, i media di stato e la repressione della polizia tengono nascosta la brutalità della guerra. Il grado di libertà in Israele rende possibile un’eccitazione civica, mentre in Russia l’invasione dell’Ucraina è stata accompagnata dalla scomparsa dei rimanenti residui di democrazia.
Il regime di Putin è ora la nave madre globale del nazionalismo cristiano bianco, per il quale è tanto ammirato da gran parte della fazione MAGA del Partito Repubblicano statunitense. Come ampiamente discusso, la Russia si sta muovendo sempre più verso una forma di fascismo, una tendenza che rischia di accelerare solo se la sua invasione non verrà sconfitta. (Abbiamo discusso questa tendenza nel recente articolo di Zakhar Popopvych “La strada della Russia verso il fascismo?”).
Per quanto riguarda l’impasse della società russa stessa, essa è aggravata dalla catastrofe della guerra scelta da Putin. Come ha scritto nel primo anniversario della guerra il sociologo Boris Kagarlitsky:
“L’anno trascorso dall’inizio della guerra ha dimostrato chiaramente che il sistema politico ha bisogno di un cambiamento radicale. L’alternativa alle riforme può essere solo la crescente disintegrazione delle istituzioni statali e il degrado di un’economia già malata, che non conviene a nessuno. Ma l’unico modo per cambiare rotta è rimuovere Vladimir Putin dal potere”.
Prospettive
In effetti, le prospettive di un futuro democratico per la Russia sono indissolubilmente legate all’esito della guerra – in particolare, dipendono dalla sconfitta delle sue ambizioni imperialiste e annessionistiche in Ucraina. Anche la democrazia ucraina dipende dai risultati della guerra, ma nel suo caso dalla vittoria della resistenza all’invasione. E gli esiti di questi eventi avranno effetti a catena per tutti noi.
Mentre le forze sindacali e di sinistra ucraine sono pienamente impegnate nella guerra, sono anche costrette a resistere alle politiche antioperaie del governo Zelensky. Una vittoria ucraina aprirebbe la possibilità (non ci sono garanzie) di superare definitivamente il ciclo della politica oligarchica di fazione che ha dominato il paese dopo l’indipendenza post-sovietica del 1991. D’altro canto, è più probabile che una tragica sconfitta o l’amputazione dell’Ucraina mandi in frantumi la sua emergente unità nazionale – e provochi una rinascita delle forze di estrema destra.
Per Israele, la conservazione della democrazia formale dipende dalla sua espansione sostanziale. Ciò significa innanzitutto un movimento che affronti la riduzione dei diritti dei cittadini arabi – e il regime di apartheid-coloniale nei Territori palestinesi occupati – nella legge e nella pratica. A tal fine è necessaria una rivoluzione politica che distrugga la dottrina dello “stato-nazione del popolo ebraico” che l’attuale coalizione di governo sta guidando verso le sue ultime indicibili conclusioni.
Come in qualsiasi altro regime etno-religioso, la supremazia ebraica e la democrazia non coesisteranno pacificamente. I coloni violenti che hanno compiuto il pogrom di Huwara e che commettono quotidianamente atrocità che non fanno notizia a livello internazionale, lo capiscono perfettamente. Senza dubbio correranno ad unirsi alla “guardia nazionale” che Netanyahu ha regalato al membro di gabinetto estremista e razzista Itamar Bem-Gvir.
La questione per la società israeliana è se sia in grado di affrontare le conseguenze della negazione della nazione palestinese da parte del movimento sionista, fin dalla sua nascita. Questa lotta richiede assistenza dall’esterno, attraverso il BDS (boicottaggio/disinvestimento/sanzioni) e altre azioni di solidarietà per i diritti dei palestinesi.
Allo stesso tempo, il negazionismo russo della nazionalità ucraina può essere sconfitto solo sul campo di battaglia, e ciò richiede solidarietà internazionale, anche con le armi, per la guerra di sopravvivenza dell’Ucraina. La Russia e la NATO possono anche condurre un elemento di “guerra per procura” – che grazie a Putin, la NATO sta vincendo – ma ciò che è di importanza decisiva è che l’Ucraina sta combattendo una guerra di popolo che ogni forza di sinistra dovrebbe sostenere.
Contrariamente alla retorica raffazzonata di Biden, i problemi di questa guerra non riguardano gli stati globali che si battono per la “democrazia contro l’autoritarismo”. È una lotta che non esiste tra stati, ma all’interno di ogni società, compresa (soprattutto) la nostra. E non si tratta nemmeno della pia menzogna di un “ordine internazionale basato sulle regole”, in cui gli Stati Uniti fanno le regole e danno gli ordini.
La sinistra non deve farsi sviare: in Ucraina e in Palestina la lotta riguarda innanzitutto i diritti dei popoli e delle nazioni e le conseguenze velenose che si hanno quando questi diritti vengono negati.