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I BRICS, dall’ambizione sviluppista alla sfida geopolitica

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Cina-Israele, una lunga storia di cooperazione nella repressione 

di Promise Li, attivista di Hong Kong e Los Angeles, membro di Tempest, da jacobin.com

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Il mondo nel caos e di fronte ai pericoli di una violenta dissoluzione 


di Fabrizio Burattini

L’offensiva dell’esercito israeliano, prima con aerei e missili, ora anche con i carri armati e le forze di terra, prende di mira deliberatamente e consapevolmente la popolazione civile di Gaza. 

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Che succede ai vertici della Cina?


La scelta di Xi Jinping di non prendere le distanze dell’avventura ucraina di Putin e di minacciare di voler risolvere manu militari la “questione Taiwan” ha avuto significative ripercussioni sulla politica e sull’economia cinese, ripercussioni particolarmente sgradite a settori rilevanti dell’élite dominante.

Potrebbe esserci questo alla base dei bruschi sommovimenti che proprio in queste settimane si stanno manifestando ai vertici politico e militari del paese.

Si tratta di una serie di misteriose scomparse dalla scena e di sostituzioni di personaggi di primo piano che legittima l’ipotesi una vera e propria crisi, per il momento strisciante.

Tutto è iniziato con la vicenda dei generali Li Yuchao e Liu Guangbin, rispettivamente comandante e vicecomandante delle forze missilistiche dell’esercito cinese, massimi responsabili di tutto ciò che riguarda l’arsenale nucleare e missilistico della Cina, prima scomparsi e poi sostituiti, senza spiegazioni. 

Questi generali erano stati nominati dallo stesso Xi Jinping, in qualità di capo della Commissione Militare Centrale.

A giugno, il ministro degli esteri Qin Gang è sparito dalla circolazione per diverse settimane, dopo avere incontrato il segretario di stato statunitense Anthony Blinken. Dopo oltre un mese di “vacanza”, a fine luglio è stato sostituito, senza alcuna spiegazione, da Wang Yi, già in precedenza titolare degli esteri. 

Eppure Qin era stato nominato ministro solo nel dicembre 2022, dopo il congresso del Pcc che aveva “santificato” la leadership di Xi Jinping, ed era perfino stato nominato consigliere di stato, in quanto fedelissimo del “capo”.

All’inizio di settembre è stato rimosso dall’incarico, sempre senza spiegazioni,  Cheng Dongfang, presidente del tribunale militare nominato a gennaio.

Dal 29 agosto risulta misteriosamente scomparso un altro ministro,  quello della Difesa, anch’egli consigliere di stato, Li Shangfu, colpito dalle sanzioni statunitensi per i suoi traffici con la Russia. Anche Li è considerato un fedelissimo di Xi ed era stato nominato appena nel marzo scorso. Le indiscrezioni più recenti fanno sempre più pensare che il ministro della difesa Li Shangfu verrà non solo dimissionato, ma anche messo sotto inchiesta per corruzione.

Vale la pena di approfondire la situazione  del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, una sorta di super governo di cinque componenti di cui appunto facevano parte i due ministri spariti e sostituiti. Ora in quel delicato e potente organismo, come fedelissimo di Xi, resterebbe solo Wang Xiaohong, capo della polizia e del ministero della Pubblica sicurezza, al pari di Wu Zhenglong, unico rappresentante della fazione dei “Giovani comunisti” capeggiata dall’ex premier Li Keqiang, uscita sconfitta al XX Congresso del novembre 2022. 

La sparizione o l’estromissione di uomini legatissimi a Xi sono in contraddizione stridente con la conferma di quest’ultimo come segretario del Pc e come “presidente a vita”, cosa che avrebbe dovuto portare invece a una stabilizzazione dei vertici politici e miliari.

Ad acuire gli interrogativi c’è stata anche la misteriosa e rilevante assenza di Xi Jinping dal vertice dei G20 in India di qualche giorno fa. 

La scelta di Xidi non allontanarsi dalla Cina potrebbe essere stata motivata dal timore di assentarsi in un momento di lotte intestine nel paese. O, addirittura, perché “sotto tutela” per i ripetuti insuccessi delle sue politiche (gravissimi segni di crisi economica, gravose sanzioni Usa, problemi con l’Ue, rafforzamento del blocco Usa-Giappone-Corea del Sud-Filippine, ecc.) e per la cattiva gestione politica della pandemia (problemi economici, milioni di vittime, proteste in tutto il paese).

Sintetizzo qui sotto i commenti su questi eventi fatti dal sinologo russo (e putinista) Nikolay Varlamov (tratti da un post di Andrea Ferrario che li ha tradotti in italiano).

Per Varlamov, gli scenari possibili sono solo due: “Xi Jinping non è riuscito ad acquisire nei fatti tutto il potere che il XX Congresso gli aveva formalmente attribuito, e gli oppositori di un’operazione contro Taiwan e della rottura con gli Stati Uniti stanno estromettendo i suoi sostenitori con un pretesto o con l’altro (o anche con motivazioni reali); il secondo scenario è una cospirazione interna”

Che poi continua: una parte del regime di Xi Jinping “non è pronta ad accettare una guerra totale con gli Stati Uniti, anche se in realtà la Cina è a un passo da questa scelta […] Una parte dei generali, rendendosi conto che invece sta facendo sul serio e che le sue intenzioni non sono solo di facciata, sta dicendo alle proprie unità e ai propri reparti di non pensare nemmeno a tali ipotesi di guerra totale, ritenendo che Xi Jinping stia francamente guidando il paese nella direzione sbagliata […] Questo gruppo sta cercando di scaricare Xi”

Varlamov enumera anche una serie di esponenti della fazione “sconfitta” dei “Giovani comunisti” che dopo mesi di oscuramento sono ritornati in auge.

E poi, esplicitando il proprio putinismo, Varlanov fornisce un suggerimento a Xi, che invece “avrebbe voluto portare avanti il lavoro di ripilitura con calma fino al Congresso del Partito Comunista nel 2027”: per affrontare un “contesto così difficile”, nel quale “i tempi si stanno accelerando”, occorre usare il “modello russo”, lo “stile russo”: cioè “usare le sue truppe e rompere, rompere, rompere questo vecchio ordine con tutti quei ‘sabotatori ucraini’ rintanati in uffici importanti”.

Alle sparizioni e alle inspiegate inspiegabili sostituzioni occorre aggiungere altri fatti: la cessazione della pubblicazione di statistiche sugli aspetti fondamentali dell’economia, un orientamento politico criptico sia sull’economia sia sulla situazione internazionale, che non può essere sostituito da slogan vacui e altisonanti come la “prosperità comune” o la “circolazione duale”.

Non va dimenticato che la stessa ambizione cinese di svolgere un ruolo diplomatico primario nella risoluzione della guerra in Ucraina sembra essersi arenata nel nulla.

Tutto fa pensare che la dirigenza cinese si stia rivelando sempre più inadeguata, sempre più simile all’ultimo esausto Stalin, in preda alla paranoia e a un definitivo offuscamento di identità e di prospettive.

Ucraina, la staffetta e la pace


di Fabrizio Burattini


Si è svolta qualche giorno fa la “staffetta per la pace”, la cui idea era stata lanciata nelle scorse settimane da Michele Santoro durante una delle sue chiassose comparsate ai talk show televisivi.


Fausto Bertinotti, Moni Ovadia,
Fiorella Mannoia e
Massimiliano Smeriglio
alla staffetta a Roma

Non voglio qui addentrarmi nella tradizionale polemica se l’iniziativa abbia avuto un successo (20.000 partecipanti, secondo gli organizzatori) o sia stato un fiasco. Ma piuttosto cercare di concentrarmi sulla sua ispirazione politica.


Gli staffettisti chiedono la pace (e su questo siamo, credo, tutti d’accordo). Certamente è d’accordo la maggioranza schiacciante delle ucraine e degli ucraini (civili e militari), che stanno pagando sulla propria pelle e con le proprie vite i prezzi maggiori della guerra. Sarà d’accordo certamente anche la grande maggioranza dei soldati russi, mandati a combattere e a morire per una guerra che non è la loro.


E sarà d’accordo anche la maggioranza delle popolazioni delle nazionalità periferiche dell’impero russo presso le quali sono stati reclutati gran parte dei soldati dell’esercito di Putin, sfruttandone la povertà e la fame di lavoro.


Santoro e i suoi sostengono che per poter essere attori di pace occorre una visione non di parte. Ma poi fanno propria buona parte dell’analisi della leadership russa: la Russia sarebbe stata “minacciata dalla NATO”, l’Ucraina sarebbe “colpevole di genocidio nel Donbass”, Kiev sarebbe “infestata dai nazisti” e starebbe conducendo una “guerra contro la Russia per procura degli Stati uniti”, ecc., e mettono al centro della loro mobilitazione proprio due delle rivendicazioni di Putin: “basta con l’invio di armi all’Ucraina” e “basta con le sanzioni alla Russia”. Bella equidistanza…


Dunque denunciano fondatamente l’ipocrisia e il “doppiopesismo” dell’Occidente (“perché non sostenete anche la lotta per l’autodeterminazione dei palestinesi…”) ma lo ripagano con un’analoga ipocrisia e un altrettanto smaccato doppiopesismo, evitando ogni denuncia sulle stragi russe di civili ucraini, sugli stupri, sulle deportazioni di bambini. Loro non vogliono mica essere subalterni alla propaganda di guerra ucraina e occidentale…


E ignorano ogni spirito di solidarietà con la resistenza ucraina, anzi la indicano come strumento docile nelle mani dell’espansionismo occidentale.


Per gli staffettisti, dunque, Putin da carnefice diventa vittima e la Russia da paese aggressore diventa paese aggredito.


In una recente intervista rilasciata alla TV online “Servizio pubblico” di Santoro, il pacifista Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista, arriva a ridimensionare l’aggressività di Putin, sottolineando il fatto che il suo esercito “non è neanche riuscito ad arrivare a Kiev”, ma trascurando che questo non è accaduto non perché i russi non volessero arrivarci, ma perché gli ucraini glielo hanno impedito resistendo accanitamente all’invasione.


Quanto alle sanzioni, Acerbo ci rivela che sono “illegittime” perché decretate senza l’avallo della NATO, ma omette ogni denuncia del fatto che tutta l’azione russa è fatta in totale spregio del cosiddetto “diritto internazionale”.


Dunque l’Italia e l’Occidente, secondo Santoro, secondo i “pacifisti” staffettisti, secondo Acerbo e tutta Unione popolare (PRC + Potere al popolo) dovrebbero smettere di inviare aiuti militari e materiali all’Ucraina e dovrebbero revocare le sanzioni alla Russia.


Come tutto ciò possa “aiutare la pace” è completamente misterioso. La conseguenza più ovvia (e in fin dei conti auspicata da costoro che si inalberano se li si definisce “filoputiniani” ma che fanno di tutto per confermare di esserlo) sarebbe quella di agevolare il successo, finora molto incerto, dell’invasione russa, di consolidare il potere in patria dell’oligarchia putiniana, di decretare la sconfitta dell’eroica resistenza ucraina e dell’altrettanto eroica opposizione democratica russa (quella sì, pacifista davvero), di dare ulteriore fiato al nazionalismo neozarista, di reimbiancare quello che, dopo la tragedia afghana, sembrava il sepolcro della NATO e di spingere altri paesi a far quadrato attorno agli USA e alla loro alleanza, più di quanto non l’abbia già fatto l’operazione speciale di Putin.


La recente votazione dell’Assemblea generale dell’ONU (26 aprile), su di una risoluzione che riguardava altre questioni ma che nella premessa condannava solennemente “l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, e in precedenza contro la Georgia”, il non “rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi stato” e auspicava la “consegna alla giustizia di tutti i responsabili di violazioni del diritto internazionale”, com’è noto, ha visto il voto favorevole della Cina e del Vietnam (oltre che dell’India) e l’astensione di Cuba.

Non ci azzardiamo a fare speculazioni su questo fatto. Ma facciamo notare che i nostri staffettisti avrebbero facilmente bollato come “guerrafondaia” quella “premessa” approvata anche dalla Cina.

Sommovimenti internazionali, Taiwan e Ucraina

Nelle ultime settimane si sono verificati importanti spostamenti di forze a livello internazionale che riflettono la lotta per una nuova correlazione di forze tra i principali stati del mondo. Ho pensato perciò di dedicare questo articolo ad una per quanto sommaria analisi di quel che accade a livello delle relazioni internazionali.

La situazione Cina-Taiwan

Una settimana fa, ancora una volta si è intensificata la pressione cinese su Taiwan, con lo svolgimento di importanti esercitazioni militari durate tre giorni, che hanno simulato un assedio dell’isola. Stando alle valutazioni del ministero della Difesa di Taiwan, nella regione erano presenti una settantina di aerei cinesi, tra cui caccia Sukhoi Su-30 e bombardieri Xian H-6, oltre a 11 navi. Anche i movimenti di truppe sono stati intensi sul lato cinese dello Stretto di Taiwan, con il dispiegamento di unità missilistiche e di artiglieria a lungo raggio che hanno messo in atto azioni dimostrative contro l’isola dalla terraferma.

La reazione taiwanese e occidentale all’esercitazione cinese è stata immediata. Il governo degli Stati Uniti ha chiesto alla Cina di limitare le sue azioni e ha inviato sul teatro degli eventi il cacciatorpediniere USS Milius, che ha pattugliato un’importante regione del Mar cinese meridionale. Commentando il movimento generale delle forze, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha avvertito che “l’indipendenza di Taiwan (che, lo ricordiamo, dista non più di 150 chilometri dalle coste continentali) e la pace e la stabilità nello Stretto sono cose che si escludono a vicenda”.

L’esercitazione cinese fa seguito al ritorno della presidente taiwanese Tsai Ingwen da una breve visita negli Stati Uniti e in America Centrale, dove ha incontrato vari capi di stato centroamericani e il presidente della Camera dei rappresentanti USA, Kevin McCarthy.

Il governo taiwanese, infatti, è molto preoccupato per l’offensiva economica e diplomatica cinese in America Latina. Solo una decina di giorni fa, l’Honduras è diventato il quinto (dopo Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua) dei paesi latinoamericani che in soli sei anni hanno tagliato le relazioni diplomatiche con Taiwan e stabilito legami con Pechino. La situazione diplomatica per Taiwan è una delle peggiori della sua storia. Ad oggi sono solo 13 i paesi al mondo che mantengono ancora relazioni formali con l’isola: Paraguay, Guatemala, Haiti, Belize, Vaticano e piccole isole dei Caraibi e del Pacifico.
La visita di Tsai Ingwen in America Centrale non ha prodotto granché per la la “Cina nazionalista”. Ma non si può dire lo stesso quanto all’incontro con il presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti Kevin McCarthy, che fa seguito a quella a Taiwan dell’allora speaker dei deputati USA Nancy Pelosi nell’agosto 2022.

Stati Uniti e NATO su Taiwan

Fino ad allora gli Stati Uniti si erano mantenuti sulla linea diplomatica ultradecennale definita della “ambiguità strategica”, che combinava cioè il riconoscimento formale dell’esistenza di un’unica Cina con il mantenimento di forti legami economici, culturali, scientifici e persino militari con l’isola collocata dall’altra parte dello stretto.

Negli ultimi tempi, la retorica statunitense sulla questione di Taiwan è diventata sempre più veemente. Nel maggio 2022, ad esempio, Biden aveva affermato di essere disposto a usare la forza per difendere Taiwan in caso di attacco cinese. “È questo l’impegno che abbiamo preso”, ha dichiarato all’epoca, aggiungendo che gli Stati Uniti sono d’accordo con la visione di una sola Cina, ma che questa visione non dà a Pechino il diritto di prendere l’isola con la forza.
Biden sembra temere che la Cina approfitti del delicato momento internazionale segnato dalla guerra in Ucraina per concretizzare quello che in Cina è considerato una sorta di “diritto storico”: la riunificazione del paese, attraverso la presa di Taiwan. Lo stesso Biden ha dichiarato: “Sarebbe un’azione simile a quella che è avvenuta in Ucraina”.

In si tratta di un’ennesima dimostrazione del doppiopesismo degli USA, pronti a difendere l’autonomia dell’isola cinese mentre viene giustamente deprecato il pretesto della salvaguardia dell’autonomia delle regioni “russofone” dal “nazionalismo ucraino” addotto da Putin per la sua invasione.

Quanto alla NATO, sulla questione di Taiwan non esiste la stessa unità di intenti che sembra per il momento regnare sulla questione ucraina. Emmanuel Macron nel suo recente viaggio in Cina, ha dichiarato che l’Europa non può essere ostaggio della politica statunitense o cinese su Taiwan, ma deve cercare una propria posizione. Un discorso che è piaciuto molto a Pechino e che è stato molto apprezzato dalla stampa e dai funzionari cinesi.

Tutto ciò smentisce le ricostruzioni schematiche e di comodo piuttosto in voga in alcuni ambienti della sinistra e del pacifismo che vedono una situazione di larga e consolidata egemonia planetaria della potenza statunitense e che leggono la resistenza dell’Ucraina come una guerra ad oltranza per procura contro la Russia, oscurando o addirittura deplorando la soggettività propria di quella resistenza.

La ricerca di un compromesso

In queste ultime settimane, tutte le principali cancellerie sembrano impegnate a ricercare, come numerosi settori della sinistra e del pacifismo chiedono, una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina. Il presidente cinese Xi Jinping si è recato a Mosca qualche settimana fa, Macron e Ursula von der Leyen si sono recati a Pechino all’inizio di questo mese. Questo lavorio diplomatico non nasce certo dalla volontà di tutelare gli interessi e la sicurezza del popolo ucraino, da 14 mesi sottoposto ad una brutale aggressione che ha provocato e continua a provocare migliaia di morti e immani distruzioni. Il motore principale di questo attivismo è piuttosto la diffusissima preoccupazione che il prolungarsi della guerra arrechi al commercio internazionale e dunque alle varie economie nazionali delle principali potenze danni irreparabili.

Ma tutti questi incontri ai massimi livelli non possono evitare di affrontare il tema “Ucraina”, sia perché questo costituisce una grave preoccupazione agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, sia per le sue gravi implicazioni economiche e politiche.

E’ stata importante e significativa anche la visita ufficiale che il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva ha fatto in Cina qualche giorno fa, accompagnato da una folta delegazione di funzionari governativi e di uomini d’affari, durante la quale sono stati firmati una ventina di accordi di cooperazione economica e tecnologica. Ovviamente, negli incontri con i leader cinesi, Lula, come tutti gli altri leader, ha affrontato anche il tema della guerra in Ucraina, convenendo con il presidente cinese Xi Jinping che “il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi ucraina” e che “tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti”, che occorre invitare “più paesi a svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere la soluzione politica della crisi”. Lula e Xi hanno affermato di voler “mantenere aperte le loro comunicazioni sul merito” della questione. Concludendo la visita, il presidente Xi Jinping ha definito Lula un “vecchio amico”.

Com’è noto, il Brasile, a differenza della Cina che si è astenuta nelle principali votazioni dell’assemblea dell’ONU sulla questione, nell’ultima votazione ha contribuito ad approvare una risoluzione che condanna l’aggressione russa contro l’Ucraina.

Il “piano di pace” di Xi Jinping

Ancora più recentemente, c’è stato proprio due giorni fa nella capitale cinese l’incontro tra la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock del partito dei Verdi, e il suo omologo Qin Gang. Come spesso avviene in occasioni di questo tipo, il contenuto esatto della conversazione tra i due ministri degli Esteri non è stato divulgato, ma risulta chiaro che anche in questo incontro (oltre ai dossier tradizionali negli incontri Cina-UE, come diritti umani e Taiwan) è stato discusso il cosiddetto “piano di pace” cinese (che, lo ricordiamo evita accuratamente di richiedere alla Russia, in quanto paese aggressore, anche solo il cessate il fuoco, per non parlare del ritiro delle truppe d’invasione).

Sembra che Qin Gang abbia dichiarato che l’obiettivo cinese resta quello di far avanzare i negoziati di pace, ma avrebbe anche sottolineato la necessità di prendere in considerazione gli interessi e la sicurezza della Russia. E ha anche cercato di rassicurare la Baerbock respingendo le accuse secondo cui la Cina fornirebbe o avrebbe intenzione di fornire sostegno militare alla Russia contro l’Ucraina.

Tutti questi incontri si concludono con solenni dichiarazioni delle autorità delle principali potenze sulla possibilità di un cessate il fuoco in Ucraina e di un rapido rilancio dei negoziati. Tutti affermano “sinceramente” di voler fare tutto il possibile per ottenere una “de-escalation” in Ucraina, anche se tutto rimane in ambito puramente simbolico, mentre le discussioni serie e concrete tra i “grandi” riguardano gli accordi e i rapporti di forza economici tra loro.

Il famoso “piano di pace cinese” in dodici punti è stato lanciato subito dopo che la Cina, a fine febbraio, si era astenuta dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che, in coincidenza con il primo anniversario della guerra, “deplorava nella maniera più assoluta” l’invasione dell’Ucraina e che chiedeva il ritiro delle truppe russe. Naturalmente la risoluzione è stata bloccata dallo scontato veto della Russia. Ma non si può trascurare il fatto che in quel contesto il “non veto” cinese è stato interpretato come un messaggio di presa di distanza dall’oltranzismo del Cremlino.

Il piano si riduce però ad un compiaciuto gioco di equilibri: Xi Jinping nel documento afferma in generale che la sovranità degli stati deve essere rispettata all’interno dei rispettivi confini, ma mai condanna l’invasione russa dell’Ucraina né solleva la questione del ritiro delle truppe. Si invitano “le due parti” (Russia e Ucraina) a riprendere al più presto il dialogo e a prospettare il cessate il fuoco, e si enfatizza in maniera strumentale le responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati. Sulla Russia, l’unico elemento di pressione è una secca denuncia di qualsiasi deriva nucleare del tipo di quella che solo le autorità russe hanno più volte minacciato.

Dunque, il piano cinese è fatto di dichiarazioni di principio sulla necessaria protezione dei civili, sulla necessità di ridurre la logica della guerra fredda, sulle manovre dei blocchi militari e sulla lotta alla rimilitarizzazione… ma elude completamente ogni proposta concreta. Il suo scopo è solo quello di far apparire agli occhi dell’opinione pubblica mondiale la Cina come una potenza “ragionevole”, che, a differenza degli altri, non vuole aggiungere benzina sul fuoco, ma, all’osservatore attento, rivela come gli interessi dei popoli siano la sua ultima preoccupazione.

I messaggi criptici del capo della Wagner

Anche il miliardario Yevgeny Prigozhin, proprietario della milizia mercenaria Wagner, si è pronunciato sulla questione della “pace”. Le sue dichiarazioni sono state frettolosamente interpretate come un appello all’armistizio o addirittura alla fine della “operazione militare speciale”.

Prigozhin dichiara cinicamente che alcuni importanti obiettivi russi sarebbero stati raggiunti: l’eliminazione di gran parte della popolazione maschile attiva dell’Ucraina, la messa in fuga verso l’Europa di un’altra parte, l’isolamento del Mar d’Azov e di un grosso pezzo del Mar Nero, l’occupazione parti importanti di territorio ucraino e la creazione di un corridoio terrestre verso la Crimea. Ma il leader della Wagner teme che possa rafforzarsi all’interno del paese una pressione per fare concessioni, restituire all’Ucraina quei territori che ora sono sotto controllo russo. Proprio per questo Prigozhin dichiara che “la Russia non può accettare alcun accordo, solo una lotta leale… Le regioni fortificate della Russia rendono impossibile penetrare nelle sue profondità. E il popolo russo non crollerà mai”. Anzi arriva perfino ad auspicare che “le forze armate ucraine riprendano l’offensiva, tanto da rendere improponibili i negoziati”.

E il regime di Putin, con le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, respinge bruscamente ogni ipotesi di un rapido cessate il fuoco in Ucraina in nome degli interessi fondamentali della Russia.

Il “pacifismo” nella sua impasse

In questo contesto, il “popolo della pace” non può che restare muto o continuare a recitare vuote formule incapaci di cogliere le vere dinamiche del conflitto.

Naturalmente, nessuno può negare la validità di principio del rifiuto della Nato e la rivendicazione del suo scioglimento. Ma occorre essere capaci di “mettersi nei panni” dei popoli dell’intera regione, a partire da quelli ucraini e russi, che giustamente e in forza di una plurisecolare esperienza temono che si affermi la potenza russa nella sua versione putiniana, semifascista, imperialista e colonialista.

Nessun ucraino, kazako, cittadino dei paesi baltici, oppositore russo o bielorusso può auspicare che la guerra possa concludersi con un accordo che lasci parti del territorio ucraino sotto il controllo del regime di Putin, calpestando la volontà degli ucraini. Nessuno di loro può dimenticare che, all’inizio del 2022, Putin ha solennemente negato la legittimità stessa di uno stato ucraino indipendente e che, nell’autunno del 2022, ha formalmente proclamato l’annessione di quattro regioni dell’Ucraina (peraltro solo in parte e precariamente occupate), oltre alla Crimea dichiarata unilateralmente “russa” già nel 2014.

Perciò, quando un politico occidentale o un “pacifista” afferma che se gli ucraini vogliono la pace devono fare concessioni, dimenticare la Crimea e magari il Donbass, l’effetto (volontario o involontario che sia) è quello di far ricadere su di loro la responsabilità del proseguimento della guerra, in barba al diritto dei popoli all’autodeterminazione.

E così si elude o si dimentica (anche qui volutamente o inconsapevolmente) che la condizione certo necessaria pur se non sufficiente per una pace giusta e duratura nell’Europa orientale è quella dell’indebolimento e, possibilmente, della sconfitta del regime e del potere di Putin.

Dall'Ucraina: la crisi dell'egemonia, l'imperialismo e le sfide della sicurezza globale

di Maksym Shumakov, studente di Filosofia, ricercatore in Intelligenza artificiale, attivista del Movimento Sociale e leader della rete sindacale indipendente Direct Action, da commons.com.ua

La fine del XX secolo, segnata dalla caduta del Muro di Berlino, dalla fine della Guerra Fredda e dalla sconfitta del “socialismo reale”, ha spinto alcuni intellettuali a proclamare “la fine della storia”.

Per molti sembrava che il superamento della logica dei blocchi militari, politici ed economici fosse un punto di non ritorno che avrebbe impedito future crisi di proporzioni globali. La convinzione che fosse stato inventato un modello di sicurezza internazionale stabile era particolarmente dominante. Tuttavia, questa visione idilliaca del mondo non durò a lungo. L’inizio del XXI secolo è stato segnato dalla “guerra al terrorismo” globale, dall’ascesa di nuovi giganti economici come la Cina e dalla rinascita di forme radicali di nazionalismo e di fondamentalismo. Uno degli eventi chiave di questa sequenza è la guerra russo-ucraina e il suo culmine con l’invasione su larga scala del 24 febbraio 2022. La minaccia di un confronto nucleare, il disastro ecologico e umanitario e l’incapacità dei meccanismi internazionali esistenti di fermare la guerra: tutte queste sfide al sistema di sicurezza globale impongono la ricerca di un’alternativa. L’analisi della situazione attuale dal punto di vista della sinistra socialista e la discussione di nuove visioni hanno avuto luogo alla conferenza Feuerbach 11, organizzata dalla rivista Commons.

La riconfigurazione dell’economia mondiale e le sfide della sicurezza globale

Gli eventi iniziati dopo il 24 febbraio sono stati innescati da profondi cambiamenti strutturali. È quindi importante che alla fine della guerra il sistema di sicurezza globale non torni allo stato che ha preceduto l’invasione russa e che ha reso possibile l’escalation della guerra russo-ucraina. Ilya Matveev, politologo, ricercatore presso il Laboratorio di sociologia pubblica e caporedattore di Posle.Media, ha parlato dei cambiamenti geopolitici degli ultimi anni e delle loro conseguenze.

In questa prospettiva, il ricercatore evidenzia le recenti tendenze nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese. Il cambiamento complessivo delle politiche di questi paesi è illustrato da due recenti sviluppi senza precedenti. In primo luogo, quest’anno gli Stati Uniti hanno abbandonato la loro linea di “ambiguità strategica” su Taiwan, caratterizzata dalla dichiarazione dell’amministrazione americana secondo cui, in caso di guerra con Taiwan, gli Stati Uniti sarebbero dovuti intervenire.

In secondo luogo, a causa del potenziale rischio di pressioni politiche ed economiche da parte dell’Occidente, la Cina sta conducendo i cosiddetti stress test per verificare la propria stabilità in caso di sanzioni statunitensi come quelle applicate alla Russia dopo il 24 febbraio. Molti investitori statunitensi si stanno già ritirando dalla Cina, mentre sempre più aziende cinesi rifiutano gli investimenti e i beni statunitensi perché, in caso di sanzioni americane, saranno congelati. È quindi legittimo parlare di tendenza globale alla separazione economica, un processo contrario a quello di globalizzazione della fine del XX secolo.

Un altro esempio del processo di separazione proposto da Ilya Matveev è quello del Segretario al Tesoro statunitense Janet Yellen, che sostiene il friend-shoring: lo spostamento delle catene di approvvigionamento all’interno dello spazio geopolitico occidentale e la rottura delle relazioni economiche con la Cina. Questa idea è sempre più influente nei circoli intellettuali statunitensi, che ritengono che l’era della globalizzazione sia finita e che sia quindi necessario creare una sorta di blocco commerciale che includa i paesi politicamente amici e che preveda la riduzione dei legami economici con i paesi ostili, primo fra tutti la Cina.

Secondo Ilya Matveev, è chiaro che la formazione di blocchi economici – americano, cinese e forse russo – porterà a un’ulteriore pressione tra imperialismi e a minacce ridondanti per la sicurezza globale. Naturalmente, il commercio tra Cina e Stati Uniti vale ancora migliaia di miliardi di dollari, quindi è impossibile che scompaia all’istante. D’altra parte, alcuni politici influenti, come Olaf Scholz, sono critici nei confronti del nuovo paradigma di friendly-shoring. Matveev riassume la situazione come segue:

“Naturalmente questo processo ha dei limiti. Ma temo che, una volta avviata, la separazione economica si accelererebbe da sola. All’inizio potrebbe verificarsi in modo graduale, con un lento declino del volume degli scambi, poi l’isolamento aumenterebbe bruscamente, portando a un crollo totale di tutte le relazioni economiche. Allora nulla impedirà al mondo di sprofondare in un nuovo conflitto globale”.

Dibattiti nella sinistra internazionale e minacce per la regione dell’Europa orientale

Di fronte alle crescenti sfide, è importante sviluppare nuove visioni del sistema di sicurezza globale da una prospettiva di sinistra. Se da un lato l’invasione russa illustra le possibili conseguenze della frammentazione e della separazione economica, dall’altro è importante dare una valutazione politica adeguata, per approfondire la comprensione dei fallimenti degli attuali strumenti di prevenzione della guerra. Sebbene non esista una visione unitaria di questi sviluppi all’interno della sinistra, la maggior parte delle voci socialiste riconosce l’esistenza di principi fondamentali.
Una di queste è la distinzione tra guerre legittime, come le guerre di difesa nazionale o di liberazione nazionale, e guerre imperialiste o coloniali, cioè guerre di oppressione. Questa distinzione è fondamentale, afferma Gilbert Achcar, ricercatore su sviluppo e relazioni internazionali presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Questa classificazione non solo fornisce gli strumenti per riconoscere fermamente che la lotta ucraina contro la Russia è legittima – la retorica e le azioni di Putin sono chiaramente coloniali nei confronti dell’Ucraina – ma ci permette anche di affrontare meglio la questione del crescente nazionalismo ucraino. Nella situazione di una guerra di liberazione nazionale, il nazionalismo del popolo oppresso è giustificato, in contrapposizione al nazionalismo dell’oppressore, che è sempre essenzialmente sciovinista.

Questa classificazione delle guerre fornisce il quadro di riferimento per le discussioni, comprese le ragioni dell’invasione militare su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia. Alcune organizzazioni socialiste interpretano questi eventi come misure necessarie, che le autorità russe sono state costrette a prendere a causa delle minacce imperialiste occidentali alla loro sicurezza nazionale. I sostenitori di questa posizione paragonano le azioni della Russia a una situazione ipotetica: se immaginiamo che la Cina trasformi il Messico in una sua base militare, cosa farebbero gli Stati Uniti in questo caso? Ma Gilbert Achcar sottolinea l’incoerenza di questa posizione perché i suoi sostenitori, in caso di invasione preventiva del Messico da parte degli Stati Uniti, dovrebbero giustificare le azioni degli USA, il paese che per loro è l’incarnazione dell’imperialismo mondiale. L’essenza di questa argomentazione è la legittimazione dell’aggressione, lo spostamento dell’attenzione dall’imperialismo russo a quello statunitense e, infine, la spinta di tutte le parti ad avviare immediatamente negoziati in cui l’Ucraina non avrà alcuna soggettività o spazio politico.

La sinistra internazionale ha chiesto e continua a chiedere lo scioglimento della NATO perché, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, questa alleanza militare è cambiata non solo nella sua funzione ma anche nel suo modo di agire, ha sottolineato Gilbert Achcar. Dagli anni ’90, l’Alleanza è intervenuta nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq. Anche l’espansione del blocco militare non si è fermata. Il ricercatore riassume la questione come segue:

“Pertanto, dobbiamo riconoscere il fatto, che non giustifica in alcun modo le azioni della Russia, che V. Putin è in parte il risultato di circostanze storiche e politiche modellate dagli Stati Uniti. L’ascesa del nazionalismo è una reazione alla minaccia dell’Occidente che la propaganda di Putin utilizza per rafforzare i sentimenti nazionali”.

Pur riconoscendo il ruolo svolto dagli Stati Uniti nel creare le condizioni per l’ascesa della Russia di Putin, è importante non esonerare la Russia di Putin dalla responsabilità delle sue politiche. La Russia di Putin è un paese estremamente aggressivo che ha intrapreso o avviato diverse guerre: la guerra siriana, le due guerre cecene, la guerra in Ucraina. Ilya Matveev ha sottolineato che le autorità russe non hanno mai proposto un’architettura alternativa per la sicurezza globale senza la NATO, pur avendo sempre criticato l’Alleanza. Al contrario, i leader russi hanno un bisogno patologico di dimostrare che possono fare le stesse cose della NATO. A riprova di ciò, tra l’altro, il discorso di Putin dopo l’annessione della Crimea conteneva frammenti della dichiarazione di indipendenza del Kosovo.

Sebbene la retorica delle autorità russe utilizzi stereotipi sul multipolarismo e sulla lotta contro l’egemonia statunitense e per la pace, le azioni della leadership russa hanno deliberatamente aumentato le tensioni nello spazio post-sovietico. Zofia Malisz, membro del partito parlamentare polacco di sinistra Razem, sostiene che la NATO, dopo l’inclusione della Polonia e di altri paesi nell’Alleanza, ha adottato una tattica estremamente cauta nei confronti della Russia. Ad esempio, fino al 2014 non c’erano soldati statunitensi in Polonia e certamente non c’erano armi nucleari. L’escalation in Europa orientale è sempre stata guidata dalla Russia.

Secondo Zofia, le posizioni della sinistra globale sulla sicurezza internazionale e i meccanismi che propone sono molto astratti o estremamente ideologizzati, il che li rende praticamente inutili in situazioni di conflitto armato in corso. La posizione astratta della sinistra occidentale si riduce spesso a un pacifismo ingenuo e a una posizione ideologizzata, un discorso “no NATO”. Le sfide che le istituzioni internazionali si trovano ad affrontare oggi sono molto più complicate rispetto all’analisi offerta dai sostenitori dei punti di vista sopra citati. In genere non tengono conto della gamma di forme di resistenza immensamente rilevanti, come l’opposizione all’industria dei combustibili fossili e al complesso militare-industriale ad essa collegato.
“La pace, la smilitarizzazione e lo smantellamento di blocchi militari come la NATO o la CSTO (cioè l’accordo politico-militare, promosso principalmente dalla Russia, tra paesi dell’Europa e dell’Asia centrale: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) sono certamente obiettivi a lungo termine che la sinistra deve perseguire, ma non sono obiettivi tempestivi”.

I politici che hanno adottato la posizione “no NATO” non sono coerenti, almeno quando confondono le situazioni di tutti i paesi membri della NATO, i loro interessi e i problemi di sicurezza che devono affrontare. Pertanto, per raggiungere un accordo, è necessario prendere in considerazione ogni paese del Trattato Nord Atlantico, la sua situazione politica e proporre alternative al blocco militare. Zofia Malisz sostiene che finora non c’è stata una risposta coerente da parte della sinistra occidentale dove questo tipo di lavoro è stato svolto. Inoltre, il partito Razem ha sollevato queste questioni molto prima del febbraio 2022 e anche allora, quando la situazione mondiale era completamente diversa, non c’era una strategia coerente.

Data la minaccia attiva dell’imperialismo russo, paesi come Finlandia, Lettonia, Polonia e Romania hanno tutto il diritto di armarsi e di chiedere forniture di armi alla NATO, afferma Zofia Malisz. Chi adotta una posizione troppo ideologica e nega questo diritto ignora gli interessi di sicurezza dei paesi dell’Europa orientale. Poiché alcuni partiti di sinistra riconoscono la giustificazione dell’armamento dei paesi dell’Europa orientale, “ora c’è spazio per un dialogo su questo tema con i socialisti occidentali”.

Ma, come ha sottolineato l’attivista polacca, c’è ancora bisogno di un dibattito internazionale più ampio e di una ricerca comune di alternative. Questo rende impossibile una solidarietà efficace durante la guerra e frammenta il movimento della sinistra globale:

“In luoghi come l’Ucraina, la Polonia e i paesi scandinavi, la sinistra non può semplicemente permettersi di evitare l’analisi programmatica delle politiche di difesa e concentrarsi solo sull’opposizione all’imperialismo della NATO”.

Visioni socialiste per il sistema di sicurezza internazionale

Gilbert Achcar sottolinea che il programma socialista contemporaneo deve essere diviso in due categorie, utopica e tattica. Questo, secondo il ricercatore, eviterà discussioni improduttive all’interno della sinistra. Oggi è estremamente importante rinnovare il dialogo sulle visioni a breve e medio termine. La posizione pacifista della sinistra occidentale, causata dall’incapacità di formulare visioni a breve termine, è molto pericolosa e crea una mancanza di idee non solo nel campo della sicurezza e delle capacità di difesa, ma anche su altre questioni importanti, sottolinea Zofia Malisz. Ad esempio, poiché la sinistra occidentale etichetta il partito Razem come favorevole alla NATO, si rifiuta di discutere con esso altre questioni: economiche, ecologiche, culturali, ecc. Zofia ha parlato dei pericoli di questa situazione per l’Ucraina:

“Quando il dibattito internazionale non esiste all’interno della sinistra, quando la sinistra non partecipa alla discussione, si isola, permette al capitale di prevalere, che è quello che è successo in Polonia nei primi anni Novanta. Non avevamo alternative al processo di trasformazione da parte dei nostri compagni occidentali. E questo potrebbe accadere di nuovo in Ucraina se nel prossimo futuro non ci sarà dialogo e comprensione delle diverse realtà della sicurezza politica”.

Sono necessarie azioni e proposte urgenti per garantire la pace nella regione e creare un’alternativa socialista per l’Ucraina. Senza il pieno sostegno della sinistra ucraina e del movimento sindacale, le nuove dottrine d’urto neoliberiste saranno imposte al paese.

Il partito Razem lavora per un’alternativa di sinistra che superi la falsa dicotomia tra pacifismo ingenuo e militarismo. È importante, come sottolinea l’attivista e ricercatrice socialista francese Catherine Samary nei suoi lavori, creare una forma più democratica di gestione delle forze armate. Per raggiungere questo obiettivo, Razem propone un approccio alla costruzione delle forze armate come istituzione di servizio pubblico che risponde alle funzioni costituzionali dello stato, ovvero la difesa dei cittadini e la garanzia dell’integrità dei confini nazionali. Questo concetto riduce al minimo la capacità dei militari di raggiungere obiettivi politici ed economici. Prima di tutto, devono garantire la sicurezza dei cittadini e l’inviolabilità dei confini degli stati, e solo allora possono aiutare gli alleati. Zofia Malisz ha sottolineato che un altro punto del programma del partito polacco è la lotta contro la crescente militarizzazione della società e la prevenzione dell’uso dell’esercito per raggiungere gli obiettivi delle forze politiche di destra. A tal fine, propongono di limitare i bilanci militari al 2%. Ciò ridurrà anche la possibilità di utilizzare i fondi di bilancio per stimolare l’economia attraverso il complesso militare-industriale.

Gilbert Achcar ha proposto un approccio alternativo alla creazione di un sistema efficace per una pace stabile. Secondo il ricercatore, i socialisti dovrebbero difendere il modello concettuale di relazioni internazionali incarnato dall’ONU e dalla sua Carta. In particolare, la non ingerenza degli stati negli affari di altri stati, cioè il divieto per gli stati più potenti di intervenire negli affari degli stati meno potenti. La Carta stabilisce una certa uguaglianza tra i paesi, creando così uno spazio mondiale più democratico. Allo stesso tempo, il principio di non interferenza non si estende alle attività dei movimenti sociali e partigiani globali. Gilbert Achcar sottolinea che:

“L’ONU è un’importante realizzazione storica, un prodotto del movimento secolare della storia e di due orribili guerre mondiali. Tutto ciò ha permesso la creazione di questo tipo di organizzazione, che rappresenta senza dubbio un grande passo avanti nel campo delle relazioni internazionali, nonostante tutti i suoi limiti”.

Il disarmo mondiale, incluso anche nella Carta delle Nazioni Unite, deve essere una posizione fondamentale del programma socialista. Dovrebbe esserci una costante campagna internazionale su questo tema. Un esempio di tale iniziativa è il discorso di 50 premi Nobel, che hanno proposto che tutti i paesi del mondo riducano le spese per la difesa del 2% ogni anno sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Hanno calcolato che il denaro così “liberato” per un certo numero di anni potrebbe essere utilizzato per combattere efficacemente il cambiamento climatico e sconfiggere le pandemie. Il principio della smilitarizzazione è sempre stato parte del movimento operaio. Già alla fine del XIX secolo, Friedrich Engels si rivolse ai lavoratori in un pamphlet in cui invitava a lottare per il disarmo.

Oggi possiamo osservare una tendenza oggettiva alla frammentazione delle relazioni internazionali e dell’economia e alla divisione del mondo in sfere di influenza, che segna la fine della globalizzazione all’inizio del XXI secolo. I meccanismi noti della sicurezza globale si stanno rivelando inefficaci nelle nuove circostanze che consentono conflitti armati, guerre economiche, ecc. Nella dicotomia tra neo-mercantilismo ed economia globalizzata, il primo si è dimostrato storicamente distruttivo, mentre la seconda è fuori dalla realtà e sempre meno rilevante.

Oggi è estremamente importante proporre una nuova visione che si basi sui valori della sinistra e sia in grado di garantire una pace stabile. La creazione di tali politiche richiede dibattiti globali all’interno della sinistra internazionale, un dialogo sulle soluzioni a breve termine e un’analisi delle situazioni dei singoli paesi. Evitare la polemica e la ricerca comune di alternative, coltivare un vuoto di idee e ripetere luoghi comuni obsoleti è un modo per creare un terreno fertile per i politici neoliberisti, per l’aggressione diretta interimperialista e per l’ascesa delle forze di estrema destra.

Cina, un bilancio del 2022

di Pierre Rousset, da europe-solidaire.org


Il 2022 ha visto il trionfo di Xi Jinping nell’apparato centrale del Partito comunista cinese, seguito un mese dopo da una grave crisi politica. Un’inversione di tendenza che sembra essere un punto di svolta. Il tempo ci dirà se questo è il caso, ma le condizioni che hanno permesso al regime di consolidarsi internamente e al potere della Cina di espandersi a livello globale sembrano essere in discussione.

Questo rovesciamento di fortuna è particolarmente brutale nella gestione della pandemia Covid-19. Al 20° Congresso del PCC, a metà ottobre, Xi aveva alzato la bandiera della politica “Zero Covid”, ma poi l’ha abbandonata a metà novembre. L’elevata contagiosità delle varianti di Omicron rende impossibile bloccare la diffusione del virus. Il lockdown di città, quartieri e complessi industriali è stato così violento da contribuire a scatenare una rivolta popolare e a far precipitare il declino della produzione. È possibile che la decisione di invertire la politica sanitaria sia stata presa segretamente da Xi Jinping prima del congresso, poiché il costo economico è diventato proibitivo. Xi si è subito fatto da parte, sostenendo il “laissez faire” di fronte all’epidemia, disimpegnando il potere governativo e facendo appello alla responsabilità individuale.

Repressione eccessiva

A posteriori, la risposta della Cina a Covid non sembra così diversa da quelle che abbiamo visto in Europa. Negazione, menzogne e un ritardo decisivo nell’implementazione di misure efficaci, che hanno portato alla trasformazione dell’epidemia in pandemia, a un duro lockdown, a uscite poco controllate dal lockdown e, infine, all’incapacità di rivedere l’intero sistema sanitario per affrontare le nuove sfide sanitarie.

La Cina aveva un asset principale, che produceva tutto ciò di cui aveva bisogno. Le dimensioni di questo paese-continente potrebbero essere un handicap, ma è la natura dittatoriale del regime che spiega l’eccessiva repressione, le restrizioni, la rete di sorveglianza e, oggi, l’atteggiamento “laissez-faire”, mentre le cliniche sono private e l’accesso alla salute è molto costoso. Il paese rischia una crisi umanitaria nel 2023.

Resistenza alla ferocia del capitalismo cinese

La resistenza sociale alle ingiunzioni delle autorità era già evidente prima del XX Congresso, soprattutto tra i giovani. Oggi il regime si sta dimostrando incapace di rispettare il patto sociale che ha fondato la sua “accettabilità”: la certezza che i figli avrebbero vissuto meglio dei genitori. Sta perdendo il sostegno passivo delle classi medie, mentre i lavoratori costretti a produrre nonostante l’epidemia (gli operai del complesso industriale Foxconn sono stati rinchiusi giorno e notte) hanno sperimentato la ferocia del capitalismo cinese. La crisi è così lunga che grandi aziende nazionali e internazionali (Apple, ecc.) si stanno ritirando, mentre si intensifica il conflitto tra Pechino e Washington su Taiwan e non solo.

Gli attuali movimenti di resistenza hanno molteplici radici, ma la loro portata non ha precedenti dalla repressione del 1989. Le autorità faranno di tutto per impedire che assumano forme organizzate, coordinate e stabili. Tuttavia, sta emergendo un notevole spirito di solidarietà, con i manifestanti che in molti luoghi si identificano con la rivolta iniziata a Urumqi, la capitale della regione uigura dello Xinjiang. La crisi del Covid ha abbattuto le barriere etniche e sociali.

Russia, Ucraina, Europa

di Catherine Samary, da Les Possibles, rivista edita su iniziativa del Consiglio scientifico di Attac! Francia

Dagli effetti della guerra di aggressione della Russia all’urgenza di un’Europa radicalmente decoloniale

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin il 24 febbraio ha portato al contrario di tutti i suoi obiettivi. La resistenza a questa aggressione rivela ciò che sta accadendo in un’Ucraina che si supponeva appartenesse “all’unico popolo russo” e che, dalla crisi del 2013-2014, è considerata sottoposta a un “colpo di Stato nazista” sostenuto dall’Occidente che minaccia un genocidio contro la popolazione di lingua russa.

Condivido le critiche mosse a questa tesi da autori ucraini di sinistra, che sono criticamente indipendenti da tutti gli imperialismi e da tutta la propaganda pro-stato (compresa quella di Zelensky). Ovviamente, queste critiche non implicano che si trascuri l’importanza (in Ucraina come in Russia, in Francia e altrove nel mondo) delle forze di estrema destra, la loro evoluzione e differenziazione ideologica e il loro rapporto con le istituzioni e la violenza, i loro mezzi, … L’esito della guerra peserà anche su questi fattori. Dal punto di vista degli eccessi totalitari dell’apparato statale, l’Ucraina si confronta favorevolmente con la Federazione Russa e il suo controllo degli oligarchi, in contrapposizione al “pluralismo oligarchico” dell’Ucraina e ai suoi maggiori margini di libertà.

Una società mobilitata in difesa della propria dignità, sia in pace che in guerra.

Sono proprio questi margini, inesistenti in Russia, che hanno permesso agli autocrati al potere di essere sfidati alle urne e nelle strade in diverse occasioni. È il caso della Rivoluzione arancione del 2004, catalizzata dal rifiuto della corruzione e dei brogli elettorali e segnata dalla speranza popolare in nuovi partiti, presumibilmente democratici, che si dichiaravano europeisti. La delusione nei confronti di questi partiti, a loro volta afflitti dalla corruzione, spiega la successiva vittoria di Yanukovych (un cosiddetto filorusso) alle elezioni del 2010, con una politica che ha cercato di trovare un equilibrio tra Russia e UE. Ma il processo di verifica delle promesse, una volta al potere, è continuato di fronte alle pratiche del nuovo presidente oligarchico, alle sue decisioni dall’alto, all’arricchimento della sua famiglia e alla violenza delle sue forze repressive. Nel 2014, questa è la ragione profonda del suo discredito, anche nella sua stessa regione, e della sua fuga in Russia. Così, al di là degli episodi violenti e confusi, certamente segnati tanto dal sostegno occidentale quanto dalla muscolarità delle forze di sicurezza di estrema destra a protezione dei manifestanti nel 2014, la caduta di Yanukovich (ratificata dal Parlamento) è stata soprattutto dovuta a una nuova “liberazione” popolare, a prescindere dalla capitalizzazione dei vari partiti di destra.

Il carattere complesso di queste rivolte è simile a quello dei Gilet Gialli e di tanti altri movimenti di massa in contesti politici e sociali confusi. I limiti di questa rivoluzione erano altrettanto evidenti: il regime oligarchico non era affatto abolito. Ma l’etichetta rivoluzione esprime l’accumulo di esperienze che danno forza duratura e profonda alle mobilitazioni periodiche in una società alla ricerca di giustizia sociale.

La rivolta di massa del 2014 è stata definita come una rivoluzione della dignità, evocando le centinaia di migliaia di manifestanti che si sono organizzati per occupare Piazza Indipendenza (Maidan) esprimendo molteplici richieste. È stato anche chiamato in modo meno convincente Euromaidan, cercando di ridurre il movimento a una rivolta pro-europea. Ma a Mosca e da una parte della sinistra è stata assimilata alla rivoluzione colorata (come nel 2004), vedendola come una pedina strumentalizzata dalle potenze della NATO. Questo approccio (o meglio la sua ignoranza) si ritrova anche nella società in relazione alla guerra in corso.  Un’altra parte della sinistra ha scelto di unirsi a Maidan per combattere su vari fronti.

Tuttavia, le aspirazioni popolari e l’autonomia critica della società nei confronti dei partiti istituzionali hanno continuato a manifestarsi dopo il presunto golpe nazista, durante il mandato quinquennale del nuovo presidente e oligarca Petro Poroshenko eletto nel 2014: la mancata stabilizzazione del nuovo potere e il suo crollo finale nel 2019 lo testimoniano. Dopo l’annessione della Crimea e lo scoppio della guerra ibrida nel Donbass (in cui sono morte circa 15.000 persone), il paese ha sofferto di crisi di governo e scandali finanziari che hanno colpito questo presidente. Poroshenko non ha adottato quasi nessuna misura sociale per aiutare le migliaia di persone in fuga dai conflitti nel Donbass e non è riuscito a superare lo stallo degli accordi di Minsk. Cinque anni dopo il cosiddetto colpo di stato, presuntamente controllato dall’Occidente, la capacità autonoma della popolazione nei confronti del potere si è manifestata nuovamente con l’elezione a sorpresa di un attore ebreo esterno ai partiti politici esistenti e la cui lingua madre era il russo (Zelensky). Ha fatto una campagna elettorale con la promessa di risolvere pacificamente il conflitto del Donbass e di affrontare la corruzione, che gli ha fatto ottenere una maggioranza schiacciante senza precedenti in tutto il Paese (ben lontana dai temi di estrema destra che Poroshenko aveva in parte assunto).

La mobilitazione popolare contro l’invasione e la mobilitazione del governo di Zelensky alla sua testa – anch’essa imprevista dalle forze NATO – hanno consolidato la popolarità di Zelensky, in tutto lo spettro politico e in tutta l’Ucraina. In pratica, questa mobilitazione è stata la scelta popolare in difesa della sovranità ucraina. Questo vale soprattutto per la grande massa di popolazione russofona dell’est e del sud del Paese, che si diceva di voler “salvare dal genocidio nazista”. Le forze russe sono ben lontane dal controllare il territorio delle regioni annesse dopo i recenti pseudo-referendum e hanno difficoltà a trovare sindaci disposti a gestire le città.

Contrariamente alle interpretazioni (e alle molteplici citazioni) secondo cui la NATO starebbe spingendo l’Ucraina in una guerra infinita per finire la Russia, la situazione è piuttosto l’opposto: pressioni per temperare l’offensiva ucraina, come abbiamo visto all’inizio di novembre. È stato il personale della NATO a mitigare le accuse di Zelensky, attribuendo alla Russia gli attacchi che hanno ucciso due persone in Polonia. In realtà, se è vero che senza le armi e l’ovvia assistenza logistica fornita all’esercito ucraino, quest’ultimo si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che lo avrebbe costretto ad arrendersi rapidamente, la forza della resistenza e le vittorie ottenute sono dovute – dietro le armi – alla determinazione di una popolazione che resiste a un’aggressione vissuta per quello che è: neocoloniale e imperiale.

Quale sinistra chiese ai vietnamiti di negoziare invece di vincere?

In Francia, la sinistra dubiterebbe della realtà della resistenza come lotta di liberazione nazionale se l’operazione militare fosse stata lanciata dalla Francia contro l’Algeria francese? Storicamente la forma assunta dalla colonizzazione russa, e poi dalla politica stalinista, pesa molto. Lo sottolinea la scrittrice e ricercatrice indiana Rohini Hensman:

Mentre le colonie delle potenze imperialiste dell’Europa occidentale si trovavano principalmente oltremare, gli imperi Moghul, dell’Europa orientale e ottomano condividevano paesi limitrofi, per cui era facile commettere l’errore di confondere la distinzione tra impero e stato. Mentre nessuno penserebbe all’India come parte dello Stato britannico, quando Putin considera l’Ucraina come parte dello stato russo, non è solo, e non è la prima volta [da Russie et Ukraine, l’internationalisme socialiste et la guerre en Ukraine, di Rohini Hensman].

Ma mette anche in evidenza, come fa molto chiaramente Bernard Dréano (che accosta anche Ucraina e Irlanda), i disaccordi che dividono i marxisti (e i bolscevichi) soprattutto sulle questioni nazionali.

L’ignoranza, l’occultamento o la denigrazione dell’Ucraina come attore determinante sia negli obiettivi di Putin sia nella resistenza alla sua aggressione sono alla base dell’errata assimilazione della guerra attuale a una guerra mondiale inter-imperialista, come lo fu la Prima guerra mondiale. Ovviamente, presentarlo come tale giustifica la ripresa dei grandi slogan del pacifismo e del disfattismo rivoluzionario dell’epoca e l’invito a rivoltarsi ovunque contro il nemico che abbiamo nel nostro proprio paese. Mi sono dissociata da questa interpretazione della guerra in corso non appena ho rifiutato di firmare l’appello internazionale delle femministe pacifiste che – giustamente – esprimeva solidarietà alle femministe pacifiste russe ma non riconosceva il diritto delle femministe ucraine a resistere. Numerosi testi (di donne e uomini ucraini di sinistra che difendono questo diritto – e il diritto di proteggersi, ora e in futuro, soprattutto con le armi) rendono esplicito questo dibattito in una raccolta di testi che vale la pena di leggere e discutere.

Questo diritto a resistere alla dominazione russa ha ovviamente effetti globalizzanti. Torneremo su questo punto. È importante sottolineare l’impatto specifico, essenziale per il futuro e l’esito di questa guerra, sulle ex repubbliche sovietiche nelle immediate vicinanze della Russia. Questo è ciò che stiamo semplicemente menzionando per richiamare l’attenzione su di esso. Si tratta della Bielorussia – associata a diversi progetti russi, tra cui l’Unione economica eurasiatica (UEE) – e del Kazakistan, essenziale per l’alleanza militare tra la Russia e diversi altri Stati (CSTO) che ha avuto luogo all’inizio del 2022 dopo i disordini senza precedenti del 2021.

Questioni geopolitiche in Eurasia. Bielorussia, tra l’unione organica con la Russia e l’UEE

La decisione di Putin non è stata segnata solo da un’errata valutazione della società ucraina. Si basava anche sull’esito dell’annessione della Crimea. Mentre l’annessione della Crimea è stata accolta con entusiasmo patriottico popolare in Russia, tra gli autocrati delle repubbliche alleate post-sovietiche ha prodotto una reazione completamente diversa.

Ma Putin ha sottovalutato questo fattore a causa dei recenti sviluppi in Bielorussia e Kazakistan.

In primo luogo, va ricordato che l’annessione della Crimea ha infranto il Memorandum di Budapest del 1994, firmato dalla Russia con l’Ucraina (e analogamente con Bielorussia e Kazakistan) con il sostegno degli Stati Uniti: l’accordo stabiliva che la Russia avrebbe ritirato tutte le armi nucleari di epoca sovietica, ma in cambio avrebbe rispettato i confini dei nuovi Stati indipendenti. Mentre questa annessione era popolare in Russia, gli oligarchi della Bielorussia e del Kazakistan, attaccati alla loro sovranità statale, la vedevano con sospetto.

Per questo motivo, l’orientamento di Putin ha giocato pragmaticamente con vari scenari e tipi di unioni.  Da un lato, sperava che l’Ucraina e la Bielorussia si avvicinassero alla Russia per consolidare un polo russo nella costruzione dell’Unione economica eurasiatica (UEE). Si ispira all’idea di un’Unione Europea con la sua dimensione di comunità condivisa e separata (nel rispetto della sovranità degli stati). Il progetto mirava a integrare tutti i Paesi ex sovietici situati tra la Russia e l’UE (tra cui la Georgia e l’Armenia, nonché la Bielorussia e l’Ucraina), esattamente gli stessi che sono stati selezionati per partecipare al progetto di partenariato orientale lanciato dall’UE nel 2009. È stata l’esitazione di Yanukovych e infine la sua decisione di non firmare l’accordo di associazione con l’UE a scatenare la crisi del 2013.

Dopo l’annessione della Crimea, il presidente Lukashenko, leader della Bielorussia per circa 25 anni, ha preso le distanze da Putin, avvicinandosi all’UE per diversificare le sue dipendenze e sfuggire alle sanzioni. L’autocrate ha preferito negoziare con una potenza russa indebolita da Eltsin piuttosto che con un Putin che aveva ristabilito il controllo sui propri oligarchi ed era chiaro sulle sue ambizioni. Ma non ha esitato a rivolgersi a lui quando il suo stesso potere è stato minacciato nel 2020-2021 dalla rivolta popolare contro i brogli elettorali.

I due leader hanno quindi avviato un processo di negoziazione tra loro per raggiungere una stretta unione che ha comportato modifiche costituzionali in Bielorussia per consentire la presenza di basi militari russe (anche nucleari), ma che ha riaffermato la neutralità del paese e quindi escluso (per ora) qualsiasi entrata diretta in guerra. Lukashenko è stato costretto a precisare che il Paese non è stato inghiottito.

Ma questo sviluppo sottolinea – lungi da interpretazioni fatalistiche dell’espansionismo russo – che questo recente riavvicinamento è andato controcorrente rispetto alle tensioni visibili tra il 2014 e il 2022. Questo è stato quindi un contesto chiave per comprendere l’ottimismo di Putin nel dispiegare truppe ai confini dell’Ucraina in Bielorussia all’inizio del 2022. Ma è stata anche l’instabilità del potere di Lukashenko nel suo paese a rendere evidente la ricerca di un tale avvicinamento ai vertici e alle forze armate. E questo sottolinea che è anche una potenziale fonte di debolezza per l’avventura bellica di Putin.

La resistenza incontrata in Ucraina e quindi la durata e la violenza della guerra implicano senza dubbio un corso repressivo interno più radicale in Russia e Bielorussia. Ma è tutt’altro che impeccabile. E questi difetti sono essenziali per il futuro. Nei primi giorni di guerra ci furono espressioni di solidarietà sindacale contro questa invasione. Sono stati rapidamente accolti con una repressione radicale (come in Russia), in particolare contro i leader del Congresso bielorusso dei sindacati democratici (BKDP) e dei sindacati metalmeccanici (SPM) e radiotelevisivi (REP). Questa repressione ha provocato proteste sindacali di solidarietà, soprattutto in Russia (da parte della KTR – Confederazione del Lavoro della Russia fondata nel 1995, a sua volta minacciata), e in Ucraina – da parte della Confederazione dei Sindacati Liberi dell’Ucraina KVPU. Infatti, i ferrovieri bielorussi hanno intrapreso azioni di tipo partigiano che sicuramente giocheranno un ruolo chiave in questa guerra: rendere difficile alle truppe russe l’ingresso di rinforzi e rifornimenti in Ucraina.

Nessuna nazione al mondo vuole la guerra. I popoli russo, ucraino e bielorusso non fanno eccezione. Pochi popoli al mondo hanno subito nella loro storia perdite così terribili e sacrificato la vita di decine di milioni di loro cittadini come i nostri tre popoli, popoli così vicini tra loro. E il fatto che oggi il governo russo abbia lanciato una guerra contro l’Ucraina non può essere compreso, giustificato o perdonato. Il fatto che l’aggressore abbia invaso l’Ucraina dal territorio della Bielorussia con il consenso delle autorità bielorusse non può essere giustificato o perdonato.

Sono accadute cose irreparabili, le cui conseguenze a lungo termine sulla vita di diverse generazioni avveleneranno le relazioni tra russi, ucraini e bielorussi. A nome dei membri dei sindacati indipendenti della Bielorussia, i lavoratori del nostro Paese si inchinano davanti a voi, nostri fratelli e sorelle ucraini. Ci scusiamo con voi per la vergogna che il governo bielorusso ha imposto a tutti i bielorussi diventando alleato dell’aggressore e aprendo il confine con l’Ucraina.

Tuttavia, vogliamo assicurarvi, cari ucraini, che la grande maggioranza dei bielorussi, compresi i lavoratori, condanna le azioni sconsiderate dell’attuale regime bielorusso che tollera l’aggressione russa contro l’Ucraina. Chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina e dalla Bielorussia [“Dichiarazione del Comitato esecutivo del Congresso dei Sindacati democratici di Bielorussia“].

I progressi della resistenza ucraina avranno un impatto diretto specifico su tutte le società post-sovietiche, in particolare su quelle (aperte alle relazioni con Mosca, ma anche con la Cina e l’Occidente) con cui Mosca vuole stabilizzare ed espandere l’Unione economica eurasiatica (UEE). Quest’ultima è tenuta a rispettare la sovranità degli stati. La capacità di Mosca di sfruttare i conflitti interni di ciascuna società nel suo particolare ambiente (come l’Armenia nei suoi conflitti con l’Azerbaigian) non è una relazione puramente basata sul potere. Che si tratti dei poteri autocratici delle società post-sovietiche o di società che aspirano a una maggiore democrazia e giustizia sociale, l’indipendenza dei nuovi stati è una caratteristica importante della nuova fase storica post-sovietica.

Le dimensioni neocoloniali e brutali dell’intervento russo in Ucraina sono e saranno fattori destabilizzanti e di tensione nelle relazioni di Mosca con i suoi vicini. Lo stesso si può dire di ciò che accadrà oltre la Bielorussia con l’UEE e la sua controparte militare, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).

La CSTO e il test del Kazakistan prima e dopo l’invasione russa.

Questa alleanza militare comprende cinque ex repubbliche sovietiche (Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Tagikistan e Kirghizistan) e la Russia. È nata dal fallimento di progetti precedenti, molto più grandi.

Copiando la NATO e mirando a controbilanciare il suo peso o a negoziare le sfere di influenza, il suo articolo 4 è l’equivalente dell’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica: in caso di aggressione contro uno degli stati membri, tutti gli altri devono fornire l’assistenza necessaria, compresa quella militare. In pratica, però, questa alleanza militare non è intervenuta come tale fino all’inizio del 2022. Nel 2019 ha istituito una forza di reazione rapida di 20.000 uomini e una forza di pace riconosciuta dalle Nazioni Unite di 3.600 uomini.  Lotte di potere opache si sono intrecciate con disordini sociali senza precedenti per protestare contro gli aumenti dei prezzi del gas naturale liquefatto (che coinvolgono le multinazionali).

Alla fine del 2021, il presidente del Kazakistan ha chiesto l’intervento della CSTO dichiarando lo “stato di emergenza”, presuntamente causato da un “intervento straniero”. Il ritorno alla calma è stato facilitato da misure sociali. Ma le forze della CSTO sono intervenute all’inizio del gennaio 2022 e si sono ritirate dopo una settimana. Mosca contava senza dubbio di sfruttare quello che sembra un successo per il futuro di fronte al disordine globale e alla debacle della NATO in Afghanistan.

In effetti, è stato proprio il timore di interventi talebani dall’Afghanistan che, al termine dell’operazione CSTO in Kazakistan – e quindi poco prima dell’invasione dell’Ucraina – ha dato origine a proposte di consolidamento ed espansione degli interventi militari dell’Alleanza CSTO: il rappresentante russo presso l’Alleanza ha così evocato l’obiettivo di “creare una cintura di sicurezza non solo intorno all’Afghanistan, ma anche intorno alla CSTO”.

Tale scenario, senza dubbio auspicato da Putin, si inserisce molto bene nello scenario di una ricomposizione delle sfere di influenza negoziata sulla base di rapporti di forza consolidati per Mosca dall’unione con la Bielorussia e dal successo attribuito alla CSTO in Kazakistan di fronte alla crisi della NATO. È addirittura possibile ipotizzare che Putin si aspettasse che la sua operazione politica in Ucraina fosse, come quella della CSTO in Kazakistan, estremamente effimera ed efficace.

La resistenza ucraina ha fatto deragliare questo scenario. D’altra parte, il Kazakistan, che ha un ruolo centrale nella CSTO e nel suo futuro, non sostiene apertamente quella che è diventata una guerra. E, come il suo alleato cinese, non vuole bruciare tutte le sue carte nel rapporto con l’Occidente, né sostenere un perdente, tanto meno accettare una violazione ancora più grave di quella del 2014 del Protocollo di Budapest, secondo il quale Mosca rispettava i confini dei nuovi stati indipendenti ritirando le sue armi nucleari. Significativamente, in Kazakistan ci furono proteste popolari contro la guerra (senza repressione…), e il governo al potere mostrò neutralità piuttosto che un chiaro sostegno alla Russia.

Per illustrare la stessa questione (che potrebbe sollevare le stesse preoccupazioni per Putin), il leader cinese, che viene ritenuto suo alleato, ha visitato il Kazakistan a settembre. Xi Jinping ha persino sottolineato esplicitamente, nel primo giorno della sua visita nel paese centroasiatico, che aiuterà il Kazakistan a “salvaguardare la sua indipendenza nazionale, la sua sicurezza e la sua integrità territoriale”, prima di recarsi in Uzbekistan…

Così, la guerra in Ucraina incide profondamente sul peso della Russia nel suo vicinato, ben oltre il Kazakistan, come analizza Vicken Cheterian: “Dopo l’invasione russa dell’Ucraina” stiamo assistendo a “un’ondata di destabilizzazione dal Caucaso all’Asia centrale”.

La guerra in Ucraina continua a essere definita un’operazione militare orwelliana per minimizzare il suo reale significato e la sua evoluzione. Una dichiarazione di guerra esplicita (richiesta dai falchi dell’estrema destra russa) sarebbe pericolosa per la stabilità interna della Russia (come ha dimostrato la recente mobilitazione limitata); ma, come si è notato qui, sarebbe problematica anche per gli alleati più stretti della Russia.

Dal mantenimento della NATO alla costruzione dell’UE

Il fatto è che per tutte le correnti o i paesi lontani dalla Russia – e spesso ignari della lunga storia delle sue relazioni con l’Ucraina – i discorsi contro l’estensione della NATO alle porte della Russia e contro il suprematismo statunitense hanno un peso. Questo è vero anche quando viene denunciata l’invasione dell’Ucraina: spesso viene presentata come reattiva o difensiva di fronte a un’Alleanza Atlantica costruita contro la Russia e nel contesto dell’evidente superiorità economica e militare del regime imperialista statunitense. È qui che emerge il neocampismo (sostenere la parte di qualsiasi nemico del nemico principale).

Senza sfiorare l’aggressione russa, Tony Wood ha cercato di evidenziare la “matrice di guerra” su tre assi interagenti: Stati Uniti, NATO e Ucraina. Nella sua introduzione, cita una “responsabilità immediata” della Russia di Putin in questa guerra, che condanna, e quella che definisce una “responsabilità storica”: quella della NATO. Ma questa responsabilità è mal definita. O ci si riduce a un contesto che non spiega una vera e propria guerra, o si indicano le “armi” (della NATO) che combattono contro la Russia, omettendo di sottolineare che dietro le armi – e che le rendono più efficaci di quelle delle forze russe – ci sono le scelte e le motivazioni del popolo ucraino. Avrebbe dovuto rinunciare a resistere a quella che è ben descritta come un’aggressione; e se no, con quali armi [per difendersi]?

Inoltre, molte altre aree grigie e punti ciechi nelle analisi devono essere discusse se vogliamo comprendere la posta in gioco in una situazione senza precedenti storici.

Da un lato, dobbiamo parlare di una guerra concreta in una situazione concreta. Ed è piuttosto la crisi aperta e reale della NATO nel 2021 – e non la minaccia della NATO contro la Russia – a spiegare l’avventurismo dell’offensiva bellica di Putin. A ciò si aggiungono le cause dell’ottimismo di Putin, già menzionate in precedenza, relative alla fragilità di Zelensky, all’unione con la Bielorussia e al successo della CSTO in Kazakistan. La Russia non era minacciata.

Inoltre, l’obiettivo e la vittima di questa offensiva – e la resistenza che ha incontrato – possono essere compresi solo in termini di contenuto imperiale neocoloniale della Russia che nega il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina. Il passaggio a un’offensiva che concretizza tale rapporto è consentito dal contesto a breve termine percepito come favorevole da Putin, ma si tratta (come egli stesso ha spiegato) di una legittimazione che pretende di essere storica includendo la contestazione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina da parte di Lenin (Putin dice la “creazione”); a ciò si aggiunge l’argomento antinazista che mobilita la memoria della Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, si tratta di una questione indipendente dalla NATO.

Ma bisogna anche tenere conto dell’analisi specifica dell’Alleanza Atlantica e della sua evoluzione. Putin, come tutti, sapeva che i suoi membri dominanti non avrebbero votato a favore dell’adesione dell’Ucraina, proprio per proteggere gli interessi condivisi con Putin. Questo punto non è un dettaglio da poco. La sua omissione fa parte di una visione obsoleta ed essenzializzata di una NATO antirussa che fonde e oscura diversi contesti che qui possiamo solo accennare brevemente. Innanzitutto, la Russia non è né l’URSS (l’asse del male comunista) né la sua continuità. E proprio la Federazione Russa, guidata da Eltsin, è stata protagonista (insieme ai rappresentanti di Ucraina e Bielorussia) della dissoluzione dell’URSS e dello smantellamento del sistema di orientamento capitalistico, accolto a braccia aperte dagli Stati Uniti e dal FMI. Non si è trattato di un’aggressione esterna, ma di una decisione presa da una parte essenziale dell’ex nomenklatura comunista. Gli scenari di inserimento nella globalizzazione capitalistica non erano gli stessi per l’opaca unificazione tedesca, per la Russia di Eltsin o per la Cina, né per i diversi Paesi dell’ex URSS o dell’Europa orientale. La nuova Russia è stata accolta a braccia aperte dagli Stati Uniti – comprese le sue sporche guerre contro la Cecenia, compresa quella guidata da Putin che fa parte dell’ideologia di partnership con la NATO e le sue nuove “guerre di civiltà” contro il terrorismo islamico come sostituto del comunismo.

In effetti, la (nuova) Russia non è stata l’obiettivo della continuazione della NATO nel 1991 e, successivamente, dei primi cambiamenti nelle sue funzioni (con la prima guerra offensiva della NATO sul Kosovo nel 1999). In entrambi i contesti, è più credibile sottolineare quale fosse la motivazione principale di Washington: l’unificazione tedesca e la (contemporanea) costruzione di una nuova Unione Europea che incorporasse la Germania unificata. Fu una contingenza catalizzata dalla decisione di unificazione monetaria dopo la caduta del Muro di Berlino; una caduta storica, senza repressione da parte della DDR, perché sostenuta da Gorbaciov, che venne a negoziare i crediti con la Germania Ovest. Il leader dell’URSS sperava di costruire una “Casa comune europea”, non senza la simpatia di Mitterrand.  E mentre gli Stati Uniti (e il Regno Unito) volevano controllare una Germania unificata incorporandola nella NATO, la Francia stava negoziando con la nuova Germania la fine del marco tedesco e la costruzione di una nuova Unione Europea.

Ed è proprio contro il desiderio di autonomia politica dell’UE e la sua estensione all’Europa orientale che gli Stati Uniti hanno stabilito la propria agenda NATO. Quest’ultima era sull’orlo del collasso durante i primi attacchi contro la Jugoslavia di Slobodan Milosevic. Lo scenario della guerra di tre mesi in Kosovo è molto diverso da quello dell’Ucraina. L’intervento offensivo della NATO (senza un mandato delle Nazioni Unite) doveva essere limitato a pochi colpi. E per evitare la rottura dell’Alleanza e il peggiore dei fiaschi, è stato necessario inserire rapidamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e quindi la Russia) nel processo di negoziazione della fine della guerra. La risoluzione 1244 – regolarmente richiesta da Milosevic (ma non dagli albanesi del Kosovo) – ha istituito un protettorato internazionale provvisorio profondamente instabile e corrotto.

Era possibile sostenere il diritto all’autodeterminazione degli albanesi kosovari – contro la regola che Milosevic voleva imporre – e allo stesso tempo criticare radicalmente la prosecuzione e i vicoli ciechi delle nuove funzioni che gli Stati Uniti stavano assegnando alla NATO, accompagnate da fake news per legittimarle. Nulla di tutto ciò costituiva una minaccia per la Russia. Le timide opzioni di alleanza di una parte degli albanesi del Kosovo (l’UCK) con gli Stati Uniti e la NATO non hanno messo in discussione la radice profonda del conflitto (storico e concreto recente) con Belgrado e quindi la questione dell’autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Questo si è espresso in contesti mutevoli, fino alla proclamazione dell’indipendenza da parte del parlamento del paese nel 2008, non ancora riconosciuta da Belgrado e quindi dall’ONU e dall’UE.

Come in Ucraina, la popolazione del Kosovo ha giudicato la profonda corruzione e il disastro economico del paese ai margini della posta in gioco geopolitica globale. Nel 2021, un voto popolare di massa senza precedenti ha emarginato gli storici partiti alleati degli Stati Uniti in questa ex provincia della Serbia, a favore del giovane partito di sinistra Autodeterminazione: esso ha condotto una campagna elettorale sulla base di una critica radicale della corruzione e in difesa di un programma sociale sostanziale, orientando al contempo le sue speranze verso l’UE. Così come l’Ucraina ha sollevato la questione dell’adesione all’UE… Come dovrebbe reagire la sinistra (critica nei confronti dell’UE) a questa richiesta?

Assi di solidarietà antiglobalizzazione

La richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE, la militarizzazione dei bilanci associata alla NATO e le sfide della transizione ecologica associate alla guerra sono i tre dossier che devono essere aperti e gestiti con urgenza, ma in modo stabile, a livello europeo e non solo, in una prospettiva di alter-globalizzazione. L’ampiezza delle crisi combinate che la guerra aggrava con effetti globalizzati, colpendo in primo luogo le popolazioni più povere, richiede risposte della stessa portata.

Dobbiamo affrontare le reali divergenze e la complessità della posta in gioco in queste diverse questioni in una prospettiva volutamente pluralista, per cercare di allargare gli orizzonti (e le diverse percezioni della posta in gioco a seconda delle regioni, dei paesi di cui si parla, delle storie vissute), la conoscenza necessariamente disomogenea di un passato e di un presente complessi, per far convergere i punti di vista e gli obiettivi prioritari, cercando di individuare ciò che ci permette di agire in comune.

Credo che sia possibile e necessario integrare le tre questioni sopra menzionate in un approccio generale verso/contro l’UE, che potrebbe trovare il suo posto nella rivitalizzazione di uno spazio pubblico e attivista di dibattiti europei come potrebbe essere stato l’Altersummit.

Approcci decolonizzanti all’Europa

Innanzitutto, bisogna essere consapevoli del danno che comporta ignorare un intero continente: L’Europa orientale, in senso lato, verso l’Eurasia. Decolonizzare le analisi e le risposte richiede una lotta semantica. Si tratta di rifiutare sistematicamente l’assimilazione dell’Europa all’UE, proprio come gli Stati Uniti si sono autoproclamati America, al punto che alle popolazioni dell’Europa orientale è stato proposto di entrare in Europa e i primi commenti radiofonici sulla guerra in Ucraina sono stati “alle porte dell’Europa”. Questo vocabolario ha diverse dimensioni: come si può criticare l’Europa senza diventare nazionalisti? Si trattava dello stigma e della scelta generalmente associati agli sconvolgimenti politici dell’Europa orientale. L’adesione all’Europa potrebbe essere solo una prova di progresso e di civiltà nei confronti della non-Europa (orientale, o comunista, o balcanica…). Ho criticato tale vocabolario nell’ambito del Forum sovversivo di Zagabria del 2012, a cui Attac ha partecipato, investendo la luce necessaria dalla periferia balcanizzata per criticare le “pratiche e il vocabolario civilizzanti” dell’UE nei confronti dei Balcani e dell’Europa orientale: “Il Forum sociale balcanico: un’opportunità per un’altra Europa”.

È nostra responsabilità – che dobbiamo condividere con i nostri colleghi e compagni di questi paesi – fare il punto sulle condizioni in cui questi paesi sono stati sfruttati (nel contesto dello smantellamento del loro sistema e della dittatura monopartitica), attraverso un radicale dumping sociale e fiscale che si supponeva mirasse a modernizzarli e democratizzarli.

Il fatto che Volodymyr Zelensky usi un vocabolario così apologetico nei suoi discorsi al Parlamento europeo non aiuta a convincere le sinistre, già inclini a mettere tra parentesi l’Ucraina, nel loro approccio alla guerra. Ma, a questo proposito, dobbiamo distinguere due aspetti: denunciare la guerra neocoloniale della Russia e riconoscere il diritto di autodifesa del paese attaccato non dipende dalla natura dei leader di quel paese (e non richiede un paese ideale); ma, ovviamente, siamo politicamente liberi di decidere come esprimere la nostra solidarietà.

Da questo punto di vista sottoscrivo e propongo di aderire alla Rete Europea di Solidarietà Ucraina che sostiene la seguente piattaforma:

Noi, collettivi di movimenti sociali, sindacati, organizzazioni e partiti, dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, contrari (…) alla guerra e a tutti i neocolonialismi del mondo, vogliamo costruire una rete dal basso, indipendente da qualsiasi governo per:

  • La difesa di un’Ucraina indipendente e democratica
  • Il ritiro immediato delle truppe russe da tutto il territorio ucraino; la fine della minaccia nucleare rappresentata dall’allarme sulle armi nucleari russe e il bombardamento delle centrali elettriche ucraine!
  • Sostegno alla resistenza (armata e non) del popolo ucraino nella sua diversità, in difesa del suo diritto all’autodeterminazione.
  • La cancellazione del debito estero dell’Ucraina
  • Accogliere senza discriminazioni tutti i rifugiati provenienti dall’Ucraina e da altri paesi!
  • Sostegno al movimento contro la guerra e la democrazia in Russia e garanzia dello status di rifugiato politico per gli oppositori di Putin e i soldati russi che disertano.
  • La confisca dei beni dei membri del governo russo, dei funzionari e degli oligarchi in Europa e nel mondo; l’applicazione di sanzioni finanziarie ed economiche che proteggano i più svantaggiati dai loro effetti.

Oltre a questo, ci battiamo anche, insieme a correnti affini in Ucraina e in Russia, per

  • Disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
  • Lo smantellamento dei blocchi militari.
  • Tutti gli aiuti all’Ucraina devono essere liberi dal controllo del FMI o dell’UE e dalle condizioni di austerità.
  • Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.

Come indicato all’inizio della piattaforma, la rete integra organicamente (nelle sue riunioni, campagne, dibattiti) componenti (associazioni, sindacalisti, partiti) dell’Europa orientale. In pratica, sono stati privilegiati i legami con l’ONG socialista Sotsianly Rukh (Movimento sociale), con i sindacalisti bielorussi e con le componenti della sinistra russa (con campagne di solidarietà con chi si oppone alla guerra in Russia o ne fugge).

Ciò significa che la lotta contro la guerra si combina con diverse campagne che possono essere unite: la richiesta di cancellazione del debito ucraino, un debito che perdona gli oligarchi e permette al FMI di spingere per lo smantellamento dei servizi pubblici e l’aumento delle tariffe energetiche; ma anche le campagne sindacali contro le leggi che sono state proposte e infine approvate, approfittando del contesto bellico, per smantellare i diritti sociali. Qui si può leggere (in inglese) anche l’analisi radicalmente critica del progetto di ricostruzione dell’Ucraina elaborato alla conferenza di Lugano del luglio 2022, che è orientato a uno sfruttamento socialmente ed ecologicamente disastroso dell’Ucraina subordinato alla logica del profitto (qui si può leggere in italiano il volantino distribuito a Lugano, durante il vertice, dalle/dai compagne/i svizzere/i del Movimento per il socialismo).

“La sinistra europea dovrebbe sostenere la richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE?”, chiede un attivista di Sotsialny Rukh (SR), rispondendo positivamente – anche dal punto di vista collettivo della sua organizzazione – a questa domanda.  Non senza un’analisi lucida di cosa sia l’UE e di quali siano stati i suoi effetti sulla sua periferia orientale e meridionale. Scrive a questo proposito:

Possiamo imparare dall’esperienza di altri paesi dell’Europa orientale e meridionale. Polonia, Slovacchia e altri Paesi dell’UE hanno sperimentato la liberalizzazione in vari settori, direttamente incoraggiata o tollerata dall’UE. In molti paesi dell’Europa orientale, negli anni 2000 è aumentata la quota di contratti a tempo determinato, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diventati più rari. Allo stesso tempo, sono state attuate riforme per rendere più facile il licenziamento dei lavoratori, ad esempio, con la motivazione che ciò avrebbe creato nuovi posti di lavoro. Questi sviluppi si sono verificati, anche se in modo non uniforme, in tutti i paesi dell’Europa orientale e sono stati accelerati da crisi come quella finanziaria del 2008, che ha portato a un approfondimento delle politiche neoliberali nell’UE e a livello globale. Vale la pena menzionare anche il ruolo della Banca Centrale Europea nel promuovere il conservatorismo fiscale e le sue conseguenze sul benessere della popolazione, come abbiamo visto nell’esempio della Grecia.

Allora perché sostenere l’adesione all’UE? In realtà la domanda è superata, ma è interessante discuterne. È obsoleta, perché la domanda ufficiale di adesione era già stata presentata e quattro mesi dopo – lo scorso giugno – i 27 hanno accettato l’Ucraina e la Moldavia come candidati ufficiali. Ma la questione rimane interessante perché lo status di candidato non implica l’effettiva appartenenza al gruppo. Si apre un lungo processo negoziale, dal quale alcuni paesi balcanici sono rimasti bloccati per anni: dell’ex Jugoslavia, solo Slovenia e Croazia hanno aderito. Tutte le altre repubbliche sono in attesa della conclusione del processo (in parte sospeso nel caso della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo). I rappresentanti dei Balcani occidentali non vedrebbero di buon occhio che l’Ucraina si integri più velocemente di loro.

La vera questione è quindi quella delle condizioni per l’integrazione: cosa si sta negoziando e la sinistra ha qualche campagna di solidarietà da condurre su questo fronte?

Cosa ne pensa il nostro compagno ucraino? Da un lato, sottolinea che è possibile sfruttare la solidarietà espressa nei confronti dell’Ucraina di fronte alla guerra per legittimare con la forza condizioni specifiche per il Paese:

L’UE deve ammettere l’Ucraina a condizioni che garantiscano la possibilità di una ricostruzione sociale ed egualitaria e non creino ostacoli ad essa (…) Il diritto europeo della concorrenza e la restrizione radicale delle politiche protezionistiche creano grandi ostacoli ad una ricostruzione sociale e progressista dell’Ucraina. Pertanto, per l’Ucraina dovrebbero essere previste eccezioni a queste leggi. Non sarebbe il primo caso di questo tipo. Paesi come la Danimarca hanno addirittura aderito all’Unione con condizioni speciali che hanno creato eccezioni ad altre leggi.

Inoltre, sottolinea che le politiche neoliberali sono state promosse in Ucraina anche senza l’adesione all’UE, soprattutto nel quadro del “Partenariato orientale”. L’adesione conferirebbe almeno dei diritti e non sarebbe peggiore della periferizzazione assoluta senza diritti.

Inoltre, afferma, per il popolo ucraino:

L’adesione all’UE ha una grande importanza simbolica: è il principale obiettivo di politica estera del paese dal 2014. Opporsi sarebbe molto impopolare e richiederebbe chiare alternative equivalenti che attualmente non esistono.

Ritiene che i diritti europei siano per certi versi più progressisti di quelli ucraini e che quindi l’integrazione nell’UE favorisca la lotta per il progresso sociale.  Ancora più importante,

L’integrazione può facilitare il collegamento in rete di organizzazioni locali come Sotsialnyi Rukh con altri attori di sinistra e favorire lo sviluppo di relazioni a lungo termine, che a loro volta possono garantire che l’attenzione ai problemi dell’Ucraina non rimanga legata agli eventi della crisi.

In effetti, è proprio questo che la sinistra europea dovrebbe costruire: legami euro-europei con i paesi dell’Europa orientale e dei Balcani, per lottare a favore di diritti e obiettivi comuni. E per una revisione delle condizioni di adesione.  Per questo, è necessario mettere in discussione i trattati esistenti, le loro modifiche in corso (senza un processo costituente) e le politiche attuate di fronte alle grandi crisi intrecciate: ambientale, finanziaria (dal 2008 – quali trasformazioni e fragilità bancarie) e politica (effetti della guerra in corso).

Gli aiuti all’Ucraina non implicano la militarizzazione dei bilanci: le politiche di bilancio e militari di ogni paese devono essere soggette al controllo delle società.

È essenziale essere in grado di difendere una politica di solidarietà con la resistenza (armata e non armata) dell’Ucraina contro un’aggressione neocoloniale assassina e di mantenere un giudizio indipendente e critico sulle politiche dei nostri governi. Ho citato esplicitamente la piattaforma della Rete europea di solidarietà Ucraina (ESN/ENSU).  Ripeto gli ultimi punti:

  • Per il disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
  • Per lo smantellamento dei blocchi militari.
  • Che tutti gli aiuti all’Ucraina siano liberi dal controllo del FMI/UE e dalle condizioni di austerità.
  • Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto, che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.

Ma per lottare per questi obiettivi è necessario abbandonare un approccio generico ed essenzialista alla NATO e agli aiuti, e distinguere tra le varie questioni che devono essere discusse per costruire un’iniziativa globale per una pace giusta e duratura:

  • La NATO avrebbe dovuto essere sciolta con il Patto di Varsavia nel 1991. Il suo mantenimento e l’evoluzione delle sue funzioni (da alleanza difensiva ad alleanza offensiva che interviene ovunque) non sono stati processi trasparenti o democratici. La valutazione dei suoi interventi deve essere fatta in ogni paese coinvolto. Ma lo stesso vale per tutti i patti militari: bisogna opporsi alla logica della spartizione delle sfere di influenza basata su patti permanenti che mascherano malamente rapporti di dominio.
  • Tutti gli eserciti devono essere restituiti al loro territorio di origine e posti sotto il controllo dei paesi interessati. Questo aprirebbe un processo concreto di smilitarizzazione e un’analisi caso per caso degli aiuti militari per cause considerate giuste. In questo quadro, le forze armate di un paese possono anche partecipare, in base a un accordo internazionale, ad azioni di mantenimento della pace al di fuori del proprio territorio, sotto il controllo delle Nazioni Unite o dei paesi interessati.
  • La guerra in Ucraina è stata lanciata dalla Russia. Gli aiuti all’Ucraina non trasformano la guerra in una guerra inter-imperialista. Gli aiuti alla difesa dell’Ucraina sono legittimi e devono rimanere sotto il controllo del popolo ucraino e del suo giudizio sui termini del negoziato.
  • Ogni popolazione in ogni paese dovrebbe essere in grado di controllare quali bilanci vengono effettivamente spesi per l’Ucraina e per altri obiettivi e conflitti: un movimento globale progressista contro la guerra non può equiparare la guerra di aggressione di un paese dominante con la guerra difensiva di un paese attaccato. La lotta giusta – con le armi in pugno contro l’aggressione armata – deve essere difesa, riconoscendo anche l’obiezione di coscienza e la possibile opzione della resistenza non violenta. Questa opzione appartiene alle persone e ai popoli sotto attacco.

La ricostituzione di uno stato e di un regime autocratico in Russia, con dimensioni militari e di interventismo imperiale, pone evidenti problemi di sicurezza per i paesi vicini alla Russia e per le popolazioni della federazione suscettibili di ribellarsi alle relazioni di dominio. Questo è il caso della Cecenia. Il fatto che i paesi interessati percepiscano la NATO (a torto o a ragione) come un quadro protettivo rende impossibile per la sinistra mobilitarsi per lo scioglimento della NATO finché la minaccia della Russia continuerà. Ma questo non significa che non sia necessario criticare i piani della NATO e l’espansione dei suoi bilanci.

Dalle sanzioni contro il regime di Putin alle politiche ambientali dell’UE

L’emergenza climatica e la solidarietà contro questa guerra devono essere combinate con la nostra critica all’UE: il regime di Putin alimenta le sue politiche aggressive con i proventi dei combustibili fossili. Le sanzioni contro le importazioni russe devono allo stesso tempo accelerare il processo di transizione energetica e quindi respingere ovviamente l’aumento della produzione di combustibili fossili altrove e in particolare la diffusione della produzione e della distribuzione di gas naturale liquefatto.

Allo stesso tempo, questa politica richiede la tutela dei diritti sociali e dell’occupazione, il che implica un vasto progetto paneuropeo di pianificazione della conversione e di investimento nelle energie rinnovabili. Questo potrebbe rivolgersi alle popolazioni di tutti i paesi europei, compresa la Russia, a condizione che la guerra cessi.

Utopia? Trasformiamola in un’utopia concreta – e “se non ci lasciano sognare, restiamo svegli”…

Ucraina, di quale pace stiamo parlando?

Intervista di Stephen R. Shalom (“New Politics”) a Gilbert Achcar

da newpol.org, 10 dicembre 2022

Gilbert Achcar è da molti anni uno dei principali commentatori di sinistra degli affari internazionali. Cresciuto in Libano, ha vissuto e insegnato a Parigi, Berlino e Londra. Attualmente è professore di Studi sullo sviluppo e Relazioni internazionali presso la SOAS, Università di Londra. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo The Clash of Barbarisms (2002, 2006); Perilous Power: The Middle East and US Foreign Policy, scritto insieme a Noam Chomsky (2007); The Arabs and the Holocaust: The Arab-Israeli War of Narratives (2010); Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism (2013); e The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013, 2022). Il suo prossimo libro, The New Cold War: The United States, Russia and China from Kosovo to Ukraine, uscirà all’inizio del 2023. È stato intervistato dal 7 al 9 dicembre via e-mail da Stephen R. Shalom del comitato editoriale di New Politics e curatore di Perilous Power: The Middle East and U.S. Foreign Policy, una serie di dialoghi tra Noam Chomsky e Gilbert Achcar (Paradigm, 2009).

New Politics: Gilbert, il 30 novembre hai pubblicato un breve articolo intitolato “Per una posizione democratica contro la guerra sull’invasione dell’Ucraina” (qui in inglese). Inizi l’articolo distinguendo due posizioni comuni alla sinistra riguardo all’Ucraina. Una di queste posizioni si oppone alle forniture di armi da parte dei paesi della NATO all’Ucraina, sostenendo che come movimento pacifista dovremmo chiedere la diplomazia e la de-escalation piuttosto che le spedizioni di armi. Potresti spiegare cosa trovi di sbagliato in questa posizione?

Gilbert Achcar: La posizione principale che mi preoccupa a questo proposito riguarda la richiesta di un cessate il fuoco incondizionato. È spesso associata alla posizione che lei ha descritto. All’apparenza, è motivata dal desiderio di pace, un obiettivo davvero molto nobile. E non dubito che tra i sostenitori di questa posizione ci siano veri pacifisti e persone che sospettano legittimamente che i governi occidentali, in primo luogo quello statunitense, utilizzino gli ucraini come carne da macello in una guerra per procura contro la Russia, loro rivale imperialista. Naturalmente, sono meno ottimista nei confronti di coloro che hanno iniziato a sostenere un cessate il fuoco incondizionato solo quando le forze russe hanno proclamato di aver raggiunto il loro obiettivo principale o quando hanno iniziato a perdere terreno nel Donbas stesso.

Ci sono diverse questioni in gioco. La prima è che non ha molto senso chiedere la pace in astratto. Ciò pone la domanda: di quale pace stiamo parlando? La dominazione imperiale si è spesso definita “pace”, dai tempi della Pax Romana all’inizio dell’era volgare, se non molto prima, fino alla sinistra “pacificazione” attuata dalle truppe coloniali francesi in Algeria o statunitensi in Vietnam. La pace deve sempre essere qualificata: contro le guerre di conquista, la posizione corretta cerca una pace giusta e duratura, che può essere solo una pace senza annessioni. La richiesta di un cessate il fuoco incondizionato non è conforme a questo standard quando può significare il perpetuarsi della conquista e dell’acquisizione di territori con la forza. Diventa palesemente sospetta quando viene sollevata proprio nel momento in cui l’invaso inizia a respingere l’invasore, come se cercasse di preservare la maggior parte possibile del territorio conquistato sotto il controllo dell’invasore.

Se si guarda alle cose dal punto di vista di una pace giusta, l’unica posizione conforme a questo obiettivo è la richiesta di un cessate il fuoco accompagnata dal ritiro delle truppe d’invasione nelle loro posizioni prebelliche. Tutto il resto deriva da lì: chi è per una pace giusta, chi è contro le guerre di conquista e sostiene le guerre di liberazione come legittima autodifesa, non può opporsi alla consegna di armi difensive alle vittime di aggressioni e invasioni. Non dovrebbero opporsi a tali consegne fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco associato alla condizione che ho menzionato, e fino a quando le vittime non avranno i mezzi per scoraggiare ulteriori aggressioni al loro territorio.

Questo non contraddice minimamente l’invito ai governi occidentali a impegnarsi in sforzi genuini per portare la Russia al tavolo dei negoziati. Mi sembra evidente che l’amministrazione Biden non ha perseguito questo obiettivo in modo genuino e attivo, a differenza dei governi di Parigi o Berlino. Ma la verità è che è la Russia ad aver assunto la posizione più bellicosa, bloccando la prospettiva di pace. La migliore illustrazione di questo e di tutto ciò che ho spiegato sulla richiesta di un cessate il fuoco è il discorso di Vladimir Putin alla cerimonia che ha concluso l’annessione dei quattro oblast’ ucraini di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia alla fine di settembre. Putin ha detto:

Chiediamo al regime di Kiev di cessare immediatamente il fuoco e tutte le ostilità; di porre fine alla guerra che ha scatenato nel 2014 e di tornare al tavolo dei negoziati. Siamo pronti a questo, come abbiamo detto più di una volta. Ma la scelta dei cittadini di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson non sarà discussa. La decisione è stata presa e la Russia non la tradirà. Le attuali autorità di Kiev dovrebbero rispettare questa libera espressione della volontà popolare; non c’è altro modo. Questa è l’unica via per la pace.

È ovvio che se chiedete un cessate il fuoco affermando che l’unica pace a vostro avviso è quella che include il riconoscimento della vostra acquisizione forzata di terra, e che questa annessione – che dipingete come il risultato della “libera espressione della volontà del popolo” – non può nemmeno essere discussa, state sbattendo la porta in faccia a qualsiasi prospettiva di negoziati di pace. Spetta al governo russo dimostrare di essere veramente aperto ai negoziati per una soluzione pacifica, il che richiede la sua disponibilità a rimettere tutto sul tavolo, non a chiedere il riconoscimento della sua conquista come un fatto compiuto.

NP: Tu affermi che chi crede nel diritto di autodifesa in una guerra giusta non può opporsi alla consegna di armi “difensive” alle vittime di aggressioni e invasioni. Cosa intendi con il termine “difensivo”? L’artiglieria rientra in questa definizione? Cosa è escluso?

GA: La mia posizione è stata fin dall’inizio quella di porre l’accento sullo scopo difensivo delle forniture di armi all’Ucraina. È vero che non esistono confini netti tra armi difensive e offensive, ma le distinzioni più chiare sono di due tipi: una si riferisce all’intera gamma di armi “anti”: antiaeree, anticarro, antimissile, che sono difensive per definizione. Sono pienamente favorevole alla fornitura di tali armi. L’altra distinzione si riferisce alla portata delle armi. Non sono favorevole a che la NATO fornisca all’Ucraina armi di una portata tale da permettere alle sue forze armate di colpire in profondità il territorio russo. Non perché sarebbe ingiusto: L’Ucraina ha in realtà il pieno diritto morale di colpire in profondità la Russia, dal momento che quest’ultima sta bombardando il territorio ucraino, commettendo così palesemente crimini di guerra nel distruggere deliberatamente le infrastrutture civili dell’Ucraina. Mosca sta ovviamente cercando di costringere la popolazione ucraina al freddo, all’oscurità e ad altre difficoltà, con conseguenze omicide, per costringerla alla capitolazione. I recenti attacchi ucraini alla Russia per mezzo di vecchi droni riconvertiti sono tanto più legittimi in quanto non hanno preso di mira civili russi, ma basi militari da cui decollano gli aerei che bombardano l’Ucraina.

Non sarei favorevole a che la NATO fornisse all’Ucraina missili e aerei a lungo raggio, piuttosto che solo armi antimissile e antiaeree. Non appoggerei nemmeno l’imposizione da parte della NATO di una no-fly zone sull’Ucraina. Tali misure rappresenterebbero una pericolosa escalation del coinvolgimento della NATO in questa guerra, e nessun territorio al mondo vale la pena di rischiare una grande guerra globale e un confronto nucleare per il suo bene. Si noti che Washington stessa vuole evitare questa escalation qualitativa, ed è per questo che si è astenuta dal consegnare armi a lungo raggio all’Ucraina. Coloro che incolpano Washington per questo e chiedono che non ci siano limitazioni sul tipo di armi consegnate si trovano principalmente tra gli ultranazionalisti ucraini e nei paesi vicini dove il risentimento anti-russo è massimo per ragioni storiche. A questi si aggiungono i guerrafondai della NATO, che sono l’immagine speculare di quelli russi. Un esempio è l’ex Comandante supremo delle forze alleate della NATO, il generale statunitense in pensione Philip Breedlove, che ha chiesto fin dall’inizio un coinvolgimento diretto della NATO nella guerra e l’imposizione di una no-fly zone sull’Ucraina. Questo generale Breedlove mi sembra molto simile al dottor Stranamore. È assolutamente irresponsabile.

NP: Nel tuo articolo del 30 novembre hai criticato non solo coloro che chiedono un cessate il fuoco incondizionato, ma anche coloro che “pongono la barra della pace troppo in alto”. Puoi descrivere questo punto di vista e cosa ci trovi di sbagliato?

GA: Mi riferivo a dichiarazioni del tipo che non menzionano nemmeno il cessate il fuoco e le sue condizioni, mentre affermano che non ci può essere pace senza un ritiro completo delle truppe russe da tutti i territori occupati dal 2014, Crimea compresa. Ciò equivale a una richiesta di una guerra totale contro la Russia, che non può essere condotta, e tanto meno vinta, senza un grado molto più elevato di coinvolgimento della NATO, sia militare che economico. Ci sono tre problemi principali con queste posizioni.

Il primo, il più ovvio, è che ciò che sostengono non è approvato dalla maggior parte degli stati occidentali, compresi i più potenti, e dalle maggioranze dell’opinione pubblica di quegli stati. I sostenitori di tale posizione dovrebbero unirsi a personaggi come il Generale Breedlove/Dottor Stranamore nella campagna per un salto di qualità nel coinvolgimento della NATO, che è una posizione guerrafondaia a prescindere dai principi legittimi che può invocare. La strada per l’inferno, come tutti sanno, è lastricata di buone intenzioni.

Il secondo problema è che, definendo condizioni massimaliste per la pace senza nemmeno menzionare un cessate il fuoco, tale posizione fa il gioco di quella opposta, quella di cui ho parlato in risposta alla tua prima domanda. I suoi sostenitori rischiano di apparire agli occhi dell’opinione pubblica come guerrafondai senza cervello in sintonia con gli integralisti nazionalisti ucraini, mentre la posizione opposta apparirebbe come l’unica preoccupata di salvare vite umane, poiché sarebbe l’unica a chiedere un cessate il fuoco – anche se il cessate il fuoco che chiede potrebbe essere in realtà simile al cessate il fuoco annessionista chiesto da Putin.

Il terzo problema è che come progressisti anti-guerra, o internazionalisti, crediamo che quando ci sono dispute legittime sullo status di un territorio, la questione dovrebbe essere decisa democraticamente dalla genuina “libera espressione della volontà del popolo” – non da un finto esercizio messo in scena sotto occupazione dagli invasori. Quindi, ovviamente, i “referendum” svolti sotto il controllo russo in Crimea e in alcune parti del Donbas nel 2014 e nel 2022 non hanno alcuna validità morale o giuridica, per non parlare di quelli svolti anche quest’anno in alcune parti degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia. Tuttavia, da una prospettiva internazionalista, mi sembra ovvio che ci siano questioni legittime riguardanti lo status della Crimea e anche di quelle parti del Donbas identificate dall’accordo di Minsk II del 2015. Sono contrario a qualsiasi “soluzione” di questi problemi attraverso la guerra, e a favore di una soluzione democratica pacifica sulla base dell’autodeterminazione dei popoli. Ovviamente, la volontà da esprimere deve essere quella della popolazione originaria di questi territori così come era composta prima del cambiamento forzato del loro status, cioè prima del 2014.

È su queste basi che ho definito quello che ritengo essere il tipo di posizione che gli internazionalisti anti-guerra dovrebbero adottare sulla questione del cessate il fuoco e dei negoziati di pace. Ecco di nuovo i tre punti che ho presentato per una piattaforma democratica contro la guerra:

  • Cessate il fuoco con il ritiro delle truppe russe sulle posizioni del 23 febbraio 2022.
  • Riaffermazione del principio dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza.
  • Negoziati sotto l’egida dell’ONU per una soluzione pacifica e duratura basata sul diritto dei popoli all’autodeterminazione: dispiegamento di caschi blu in tutti i territori contesi, sia nel Donbas che in Crimea, e organizzazione da parte dell’ONU di referendum liberi e democratici che includano il voto dei rifugiati e degli sfollati di questi territori.
Ora, ci vuole un serio errore di lettura della situazione reale per vedere in questo un’inversione della mia posizione anti-invasione, per non parlare di un tradimento della causa ucraina. Il fatto è che porre come condizione per un cessate il fuoco il ritiro delle truppe russe dalle loro posizioni del 23 febbraio significa già porre l’asticella molto in alto. Infatti, come ho spiegato nel mio testo di novembre, ciò richiede un’importante amplificazione della controffensiva ucraina, con un sostegno sostanzialmente maggiore da parte dei paesi della NATO e un aumento della loro pressione economica sulla Russia. Tuttavia, è l’unica condizione accettabile per un cessate il fuoco in una prospettiva che ripudia l’acquisizione del territorio con la forza. Solo la parte ucraina ha il diritto di accettare un cessate il fuoco inferiore, se le condizioni effettive la portano a questo. Per quanto riguarda la guerra fino alla riconquista dell’intero Donbas e della Crimea, se l’Ucraina avesse lanciato un’offensiva del genere prima dell’invasione russa del 24 febbraio, l’avrei certamente considerata un avventurismo nazionalista sconsiderato, per quanto legittimo potesse essere. È per lo stesso motivo che non condivido l’invito a proseguire la guerra finché l’Ucraina non avrà recuperato tutti questi territori.

NP: Il tuo terzo punto si basa sulle Nazioni Unite. Ma dato il potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza, non staresti di fatto permettendo a Mosca di fare la sua strada nelle aree contese?

GA: Permettimi di chiederti innanzitutto: Quale alternativa c’è alle Nazioni Unite per supervisionare una soluzione democratica e pacifica del conflitto? Potrebbe essere la NATO questa alternativa? Porre la domanda significa rispondere. Per quanto riguarda il cosiddetto “Formato Normandia” (il gruppo di rappresentanti di Germania, Russia, Ucraina e Francia che si sono incontrati informalmente durante la celebrazione del D-Day nel 2014 appunto in Normandia, ndt), è fallito irrimediabilmente. A meno di un crollo del regime di Putin che cambierebbe radicalmente la situazione, l’unico modo per convincere la Russia a rispettare le condizioni di un accordo pacifico è quello di farlo passare attraverso le Nazioni Unite, dove sarebbe necessaria l’approvazione della Russia e della Cina. Naturalmente, la Russia non accetterà tale accordo a meno che non sia costretta dalla situazione militare sul campo e dalla sua situazione economica. Ma obiettare che procedere attraverso le Nazioni Unite darebbe a Mosca un potere di veto equivale a dire che un accordo può essere imposto alla Russia contro la sua volontà. Questo ci riporterebbe allo scenario apocalittico dei guerrafondai.

La questione va vista in modo diverso: una soluzione controllata dalle Nazioni Unite è quella che prevede un accordo tra le principali potenze della NATO da un lato, la Russia dall’altro e la Cina. Ovviamente, non ci può essere una soluzione pacifica che ponga fine alla guerra senza un tale accordo. Il dispiegamento di truppe ONU nei territori contesi – idealmente insieme al ritiro delle forze russe, ma anche se ciò si rivelasse impossibile da ottenere prima della procedura di autodeterminazione ed esse dovessero rimanere fino al suo completamento, a condizione di essere confinate nelle loro basi e caserme – è l’unico mezzo per ottenere veri referendum di autodeterminazione organizzati da un organismo incaricato dalle Nazioni Unite. Solo una soluzione di questo tipo può essere sostenuta dalla legalità internazionale e dal consenso delle grandi potenze. È difficile immaginare un altro scenario per una soluzione democratica pacifica.

NP: Nel tuo articolo del 30 novembre affermi che il movimento contro la guerra dovrebbe cercare di fare pressione sulla Cina per un sostegno alla conclusione positiva della guerra. Come si potrebbe esercitare questa pressione e perché pensi che la Cina potrebbe giocare un ruolo del genere?

GA: La via più breve, e meno costosa in termini di vite umane e distruzione, per arrivare a un cessate il fuoco nelle condizioni sopra descritte è che le potenze della NATO convincano la Cina ad aggiungere alle loro pressioni militari ed economiche quelle “amichevoli” su Mosca. Berlino e Parigi hanno fatto dei tentativi in tal senso, ma sono ostacolati dall’atteggiamento provocatorio di Washington nei confronti di Pechino, che Donald Trump ha portato all’apice e che Joe Biden ha proseguito. La Cina è chiaramente insoddisfatta della guerra in corso, che va contro i suoi interessi economici e ha già rafforzato notevolmente il fronte geopolitico occidentale che gli Stati Uniti si sforzano di costruire contro Pechino e la sua “eterna amicizia” con Mosca. Ciò significa che la Cina potrebbe rendersi conto che Putin sta rendendo un pessimo servizio alla loro opposizione congiunta all'”egemonismo” statunitense e che lasciarlo continuare a portare avanti la sua invasione malriuscita può solo aumentare il danno. Inoltre, il silenzio di Pechino su questa invasione contraddice palesemente il suo dichiarato impegno nei confronti del diritto internazionale e dei principi di sovranità e integrità degli Stati.

Tutti i documenti di politica estera cinese sottolineano il ruolo centrale che le Nazioni Unite dovrebbero svolgere nella politica mondiale, eppure la Cina finora non ha fatto alcuno sforzo presso le Nazioni Unite per farle svolgere un ruolo chiave nel fermare la guerra, che è ciò per cui le Nazioni Unite sono state principalmente concepite. Al contrario, Pechino si è rifugiata nell’astensione di fronte alla più grave minaccia alla pace globale della storia recente, un atteggiamento che non è certo degno della seconda potenza del pianeta. In questo contesto, credo che il movimento contro la guerra dovrebbe fare pressione non solo su Mosca e Washington, come fa, o più precisamente come fanno diversi settori di esso, su una o l’altra di queste due capitali, ma anche su Pechino, che ha una parte importante di responsabilità per la continuazione della guerra con la sua scelta di non agire per fermarla. Il movimento contro la guerra dovrebbe rendersi conto che anche la Cina – sempre più spesso – è una delle potenze globali responsabili dello stato del mondo.