Il multipolarismo è una delle caratteristiche del “caos globale” che regna sul pianeta da alcuni anni a questa parte e che la crisi multidimensionale che attraversa il capitalismo globale sembra aggravare in maniera esponenziale. In questo contesto giocano un ruolo importante i BRICS e l’allargamento del loro club definito nel vertice dello scorso anno. Si vanno costituendo un nuovo contesto geopolitico globale e un nuovo protagonismo di numerosi paesi del Sud del mondo. Con istituzionali deboli e interessi spesso contrastanti tra i loro membri, i BRICS sembrano più un sintomo dei cambiamenti sulla scena internazionale che la loro causa. Ma questo multipolarismo – lo si è visto con l’invasione russa dell’Ucraina – lungi dall’essere un rimedio al predominio delle tradizionali potenze imperialistiche occidentali, lo sta sostituendo con una multipolarità nella quale tutte le regole del diritto internazionale vengono cancellate.
Come documentazione sulla dinamica dei BRICS, pubblichiamo questo saggio della European progressive political foundation
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Cina-Israele, una lunga storia di cooperazione nella repressione
di Promise Li, attivista di Hong Kong e Los Angeles, membro di Tempest, da jacobin.com
Continua a leggere Cina-Israele, una lunga storia di cooperazione nella repressioneMesso in ombra dal rapporto con gli Stati Uniti, Israele ha da tempo intrattenuto legami proficui con la Cina, che oggi è il suo secondo partner commerciale, tra cui uno scambio di tecnologia militare che ha aiutato lo stato cinese a reprimere la propria popolazione.
Il mondo nel caos e di fronte ai pericoli di una violenta dissoluzione
di Fabrizio Burattini
L’offensiva dell’esercito israeliano, prima con aerei e missili, ora anche con i carri armati e le forze di terra, prende di mira deliberatamente e consapevolmente la popolazione civile di Gaza.
Continua a leggere Il mondo nel caos e di fronte ai pericoli di una violenta dissoluzioneChe succede ai vertici della Cina?
La scelta di Xi Jinping di non prendere le distanze dell’avventura ucraina di Putin e di minacciare di voler risolvere manu militari la “questione Taiwan” ha avuto significative ripercussioni sulla politica e sull’economia cinese, ripercussioni particolarmente sgradite a settori rilevanti dell’élite dominante.
Potrebbe esserci questo alla base dei bruschi sommovimenti che proprio in queste settimane si stanno manifestando ai vertici politico e militari del paese.
Si tratta di una serie di misteriose scomparse dalla scena e di sostituzioni di personaggi di primo piano che legittima l’ipotesi una vera e propria crisi, per il momento strisciante.
Tutto è iniziato con la vicenda dei generali Li Yuchao e Liu Guangbin, rispettivamente comandante e vicecomandante delle forze missilistiche dell’esercito cinese, massimi responsabili di tutto ciò che riguarda l’arsenale nucleare e missilistico della Cina, prima scomparsi e poi sostituiti, senza spiegazioni.
Questi generali erano stati nominati dallo stesso Xi Jinping, in qualità di capo della Commissione Militare Centrale.
A giugno, il ministro degli esteri Qin Gang è sparito dalla circolazione per diverse settimane, dopo avere incontrato il segretario di stato statunitense Anthony Blinken. Dopo oltre un mese di “vacanza”, a fine luglio è stato sostituito, senza alcuna spiegazione, da Wang Yi, già in precedenza titolare degli esteri.
Eppure Qin era stato nominato ministro solo nel dicembre 2022, dopo il congresso del Pcc che aveva “santificato” la leadership di Xi Jinping, ed era perfino stato nominato consigliere di stato, in quanto fedelissimo del “capo”.
All’inizio di settembre è stato rimosso dall’incarico, sempre senza spiegazioni, Cheng Dongfang, presidente del tribunale militare nominato a gennaio.
Dal 29 agosto risulta misteriosamente scomparso un altro ministro, quello della Difesa, anch’egli consigliere di stato, Li Shangfu, colpito dalle sanzioni statunitensi per i suoi traffici con la Russia. Anche Li è considerato un fedelissimo di Xi ed era stato nominato appena nel marzo scorso. Le indiscrezioni più recenti fanno sempre più pensare che il ministro della difesa Li Shangfu verrà non solo dimissionato, ma anche messo sotto inchiesta per corruzione.
Vale la pena di approfondire la situazione del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, una sorta di super governo di cinque componenti di cui appunto facevano parte i due ministri spariti e sostituiti. Ora in quel delicato e potente organismo, come fedelissimo di Xi, resterebbe solo Wang Xiaohong, capo della polizia e del ministero della Pubblica sicurezza, al pari di Wu Zhenglong, unico rappresentante della fazione dei “Giovani comunisti” capeggiata dall’ex premier Li Keqiang, uscita sconfitta al XX Congresso del novembre 2022.
La sparizione o l’estromissione di uomini legatissimi a Xi sono in contraddizione stridente con la conferma di quest’ultimo come segretario del Pc e come “presidente a vita”, cosa che avrebbe dovuto portare invece a una stabilizzazione dei vertici politici e miliari.
Ad acuire gli interrogativi c’è stata anche la misteriosa e rilevante assenza di Xi Jinping dal vertice dei G20 in India di qualche giorno fa.
La scelta di Xidi non allontanarsi dalla Cina potrebbe essere stata motivata dal timore di assentarsi in un momento di lotte intestine nel paese. O, addirittura, perché “sotto tutela” per i ripetuti insuccessi delle sue politiche (gravissimi segni di crisi economica, gravose sanzioni Usa, problemi con l’Ue, rafforzamento del blocco Usa-Giappone-Corea del Sud-Filippine, ecc.) e per la cattiva gestione politica della pandemia (problemi economici, milioni di vittime, proteste in tutto il paese).
Sintetizzo qui sotto i commenti su questi eventi fatti dal sinologo russo (e putinista) Nikolay Varlamov (tratti da un post di Andrea Ferrario che li ha tradotti in italiano).
Per Varlamov, gli scenari possibili sono solo due: “Xi Jinping non è riuscito ad acquisire nei fatti tutto il potere che il XX Congresso gli aveva formalmente attribuito, e gli oppositori di un’operazione contro Taiwan e della rottura con gli Stati Uniti stanno estromettendo i suoi sostenitori con un pretesto o con l’altro (o anche con motivazioni reali); il secondo scenario è una cospirazione interna”.
Che poi continua: una parte del regime di Xi Jinping “non è pronta ad accettare una guerra totale con gli Stati Uniti, anche se in realtà la Cina è a un passo da questa scelta […] Una parte dei generali, rendendosi conto che invece sta facendo sul serio e che le sue intenzioni non sono solo di facciata, sta dicendo alle proprie unità e ai propri reparti di non pensare nemmeno a tali ipotesi di guerra totale, ritenendo che Xi Jinping stia francamente guidando il paese nella direzione sbagliata […] Questo gruppo sta cercando di scaricare Xi”.
Varlamov enumera anche una serie di esponenti della fazione “sconfitta” dei “Giovani comunisti” che dopo mesi di oscuramento sono ritornati in auge.
E poi, esplicitando il proprio putinismo, Varlanov fornisce un suggerimento a Xi, che invece “avrebbe voluto portare avanti il lavoro di ripilitura con calma fino al Congresso del Partito Comunista nel 2027”: per affrontare un “contesto così difficile”, nel quale “i tempi si stanno accelerando”, occorre usare il “modello russo”, lo “stile russo”: cioè “usare le sue truppe e rompere, rompere, rompere questo vecchio ordine con tutti quei ‘sabotatori ucraini’ rintanati in uffici importanti”.
Alle sparizioni e alle inspiegate inspiegabili sostituzioni occorre aggiungere altri fatti: la cessazione della pubblicazione di statistiche sugli aspetti fondamentali dell’economia, un orientamento politico criptico sia sull’economia sia sulla situazione internazionale, che non può essere sostituito da slogan vacui e altisonanti come la “prosperità comune” o la “circolazione duale”.
Non va dimenticato che la stessa ambizione cinese di svolgere un ruolo diplomatico primario nella risoluzione della guerra in Ucraina sembra essersi arenata nel nulla.
Tutto fa pensare che la dirigenza cinese si stia rivelando sempre più inadeguata, sempre più simile all’ultimo esausto Stalin, in preda alla paranoia e a un definitivo offuscamento di identità e di prospettive.
Ucraina, la staffetta e la pace
di Fabrizio Burattini
Si è svolta qualche giorno fa la “staffetta per la pace”, la cui idea era stata lanciata nelle scorse settimane da Michele Santoro durante una delle sue chiassose comparsate ai talk show televisivi.
Fausto Bertinotti, Moni Ovadia, Fiorella Mannoia e Massimiliano Smeriglio alla staffetta a Roma |
Non voglio qui addentrarmi nella tradizionale polemica se l’iniziativa abbia avuto un successo (20.000 partecipanti, secondo gli organizzatori) o sia stato un fiasco. Ma piuttosto cercare di concentrarmi sulla sua ispirazione politica.
Gli staffettisti chiedono la pace (e su questo siamo, credo, tutti d’accordo). Certamente è d’accordo la maggioranza schiacciante delle ucraine e degli ucraini (civili e militari), che stanno pagando sulla propria pelle e con le proprie vite i prezzi maggiori della guerra. Sarà d’accordo certamente anche la grande maggioranza dei soldati russi, mandati a combattere e a morire per una guerra che non è la loro.
E sarà d’accordo anche la maggioranza delle popolazioni delle nazionalità periferiche dell’impero russo presso le quali sono stati reclutati gran parte dei soldati dell’esercito di Putin, sfruttandone la povertà e la fame di lavoro.
Santoro e i suoi sostengono che per poter essere attori di pace occorre una visione non di parte. Ma poi fanno propria buona parte dell’analisi della leadership russa: la Russia sarebbe stata “minacciata dalla NATO”, l’Ucraina sarebbe “colpevole di genocidio nel Donbass”, Kiev sarebbe “infestata dai nazisti” e starebbe conducendo una “guerra contro la Russia per procura degli Stati uniti”, ecc., e mettono al centro della loro mobilitazione proprio due delle rivendicazioni di Putin: “basta con l’invio di armi all’Ucraina” e “basta con le sanzioni alla Russia”. Bella equidistanza…
Dunque denunciano fondatamente l’ipocrisia e il “doppiopesismo” dell’Occidente (“perché non sostenete anche la lotta per l’autodeterminazione dei palestinesi…”) ma lo ripagano con un’analoga ipocrisia e un altrettanto smaccato doppiopesismo, evitando ogni denuncia sulle stragi russe di civili ucraini, sugli stupri, sulle deportazioni di bambini. Loro non vogliono mica essere subalterni alla propaganda di guerra ucraina e occidentale…
E ignorano ogni spirito di solidarietà con la resistenza ucraina, anzi la indicano come strumento docile nelle mani dell’espansionismo occidentale.
Per gli staffettisti, dunque, Putin da carnefice diventa vittima e la Russia da paese aggressore diventa paese aggredito.
In una recente intervista rilasciata alla TV online “Servizio pubblico” di Santoro, il pacifista Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista, arriva a ridimensionare l’aggressività di Putin, sottolineando il fatto che il suo esercito “non è neanche riuscito ad arrivare a Kiev”, ma trascurando che questo non è accaduto non perché i russi non volessero arrivarci, ma perché gli ucraini glielo hanno impedito resistendo accanitamente all’invasione.
Quanto alle sanzioni, Acerbo ci rivela che sono “illegittime” perché decretate senza l’avallo della NATO, ma omette ogni denuncia del fatto che tutta l’azione russa è fatta in totale spregio del cosiddetto “diritto internazionale”.
Dunque l’Italia e l’Occidente, secondo Santoro, secondo i “pacifisti” staffettisti, secondo Acerbo e tutta Unione popolare (PRC + Potere al popolo) dovrebbero smettere di inviare aiuti militari e materiali all’Ucraina e dovrebbero revocare le sanzioni alla Russia.
Come tutto ciò possa “aiutare la pace” è completamente misterioso. La conseguenza più ovvia (e in fin dei conti auspicata da costoro che si inalberano se li si definisce “filoputiniani” ma che fanno di tutto per confermare di esserlo) sarebbe quella di agevolare il successo, finora molto incerto, dell’invasione russa, di consolidare il potere in patria dell’oligarchia putiniana, di decretare la sconfitta dell’eroica resistenza ucraina e dell’altrettanto eroica opposizione democratica russa (quella sì, pacifista davvero), di dare ulteriore fiato al nazionalismo neozarista, di reimbiancare quello che, dopo la tragedia afghana, sembrava il sepolcro della NATO e di spingere altri paesi a far quadrato attorno agli USA e alla loro alleanza, più di quanto non l’abbia già fatto l’operazione speciale di Putin.
La recente votazione dell’Assemblea generale dell’ONU (26 aprile), su di una risoluzione che riguardava altre questioni ma che nella premessa condannava solennemente “l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, e in precedenza contro la Georgia”, il non “rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi stato” e auspicava la “consegna alla giustizia di tutti i responsabili di violazioni del diritto internazionale”, com’è noto, ha visto il voto favorevole della Cina e del Vietnam (oltre che dell’India) e l’astensione di Cuba.
Non ci azzardiamo a fare speculazioni su questo fatto. Ma facciamo notare che i nostri staffettisti avrebbero facilmente bollato come “guerrafondaia” quella “premessa” approvata anche dalla Cina.
Sommovimenti internazionali, Taiwan e Ucraina
Nelle ultime settimane si sono verificati importanti spostamenti di forze a livello internazionale che riflettono la lotta per una nuova correlazione di forze tra i principali stati del mondo. Ho pensato perciò di dedicare questo articolo ad una per quanto sommaria analisi di quel che accade a livello delle relazioni internazionali.
La situazione Cina-Taiwan
Una settimana fa, ancora una volta si è intensificata la pressione cinese su Taiwan, con lo svolgimento di importanti esercitazioni militari durate tre giorni, che hanno simulato un assedio dell’isola. Stando alle valutazioni del ministero della Difesa di Taiwan, nella regione erano presenti una settantina di aerei cinesi, tra cui caccia Sukhoi Su-30 e bombardieri Xian H-6, oltre a 11 navi. Anche i movimenti di truppe sono stati intensi sul lato cinese dello Stretto di Taiwan, con il dispiegamento di unità missilistiche e di artiglieria a lungo raggio che hanno messo in atto azioni dimostrative contro l’isola dalla terraferma.
La reazione taiwanese e occidentale all’esercitazione cinese è stata immediata. Il governo degli Stati Uniti ha chiesto alla Cina di limitare le sue azioni e ha inviato sul teatro degli eventi il cacciatorpediniere USS Milius, che ha pattugliato un’importante regione del Mar cinese meridionale. Commentando il movimento generale delle forze, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha avvertito che “l’indipendenza di Taiwan (che, lo ricordiamo, dista non più di 150 chilometri dalle coste continentali) e la pace e la stabilità nello Stretto sono cose che si escludono a vicenda”.
L’esercitazione cinese fa seguito al ritorno della presidente taiwanese Tsai Ingwen da una breve visita negli Stati Uniti e in America Centrale, dove ha incontrato vari capi di stato centroamericani e il presidente della Camera dei rappresentanti USA, Kevin McCarthy.
Il governo taiwanese, infatti, è molto preoccupato per l’offensiva economica e diplomatica cinese in America Latina. Solo una decina di giorni fa, l’Honduras è diventato il quinto (dopo Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua) dei paesi latinoamericani che in soli sei anni hanno tagliato le relazioni diplomatiche con Taiwan e stabilito legami con Pechino. La situazione diplomatica per Taiwan è una delle peggiori della sua storia. Ad oggi sono solo 13 i paesi al mondo che mantengono ancora relazioni formali con l’isola: Paraguay, Guatemala, Haiti, Belize, Vaticano e piccole isole dei Caraibi e del Pacifico.
La visita di Tsai Ingwen in America Centrale non ha prodotto granché per la la “Cina nazionalista”. Ma non si può dire lo stesso quanto all’incontro con il presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti Kevin McCarthy, che fa seguito a quella a Taiwan dell’allora speaker dei deputati USA Nancy Pelosi nell’agosto 2022.
Stati Uniti e NATO su Taiwan
Fino ad allora gli Stati Uniti si erano mantenuti sulla linea diplomatica ultradecennale definita della “ambiguità strategica”, che combinava cioè il riconoscimento formale dell’esistenza di un’unica Cina con il mantenimento di forti legami economici, culturali, scientifici e persino militari con l’isola collocata dall’altra parte dello stretto.
Negli ultimi tempi, la retorica statunitense sulla questione di Taiwan è diventata sempre più veemente. Nel maggio 2022, ad esempio, Biden aveva affermato di essere disposto a usare la forza per difendere Taiwan in caso di attacco cinese. “È questo l’impegno che abbiamo preso”, ha dichiarato all’epoca, aggiungendo che gli Stati Uniti sono d’accordo con la visione di una sola Cina, ma che questa visione non dà a Pechino il diritto di prendere l’isola con la forza.
Biden sembra temere che la Cina approfitti del delicato momento internazionale segnato dalla guerra in Ucraina per concretizzare quello che in Cina è considerato una sorta di “diritto storico”: la riunificazione del paese, attraverso la presa di Taiwan. Lo stesso Biden ha dichiarato: “Sarebbe un’azione simile a quella che è avvenuta in Ucraina”.
In si tratta di un’ennesima dimostrazione del doppiopesismo degli USA, pronti a difendere l’autonomia dell’isola cinese mentre viene giustamente deprecato il pretesto della salvaguardia dell’autonomia delle regioni “russofone” dal “nazionalismo ucraino” addotto da Putin per la sua invasione.
Quanto alla NATO, sulla questione di Taiwan non esiste la stessa unità di intenti che sembra per il momento regnare sulla questione ucraina. Emmanuel Macron nel suo recente viaggio in Cina, ha dichiarato che l’Europa non può essere ostaggio della politica statunitense o cinese su Taiwan, ma deve cercare una propria posizione. Un discorso che è piaciuto molto a Pechino e che è stato molto apprezzato dalla stampa e dai funzionari cinesi.
Tutto ciò smentisce le ricostruzioni schematiche e di comodo piuttosto in voga in alcuni ambienti della sinistra e del pacifismo che vedono una situazione di larga e consolidata egemonia planetaria della potenza statunitense e che leggono la resistenza dell’Ucraina come una guerra ad oltranza per procura contro la Russia, oscurando o addirittura deplorando la soggettività propria di quella resistenza.
La ricerca di un compromesso
In queste ultime settimane, tutte le principali cancellerie sembrano impegnate a ricercare, come numerosi settori della sinistra e del pacifismo chiedono, una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina. Il presidente cinese Xi Jinping si è recato a Mosca qualche settimana fa, Macron e Ursula von der Leyen si sono recati a Pechino all’inizio di questo mese. Questo lavorio diplomatico non nasce certo dalla volontà di tutelare gli interessi e la sicurezza del popolo ucraino, da 14 mesi sottoposto ad una brutale aggressione che ha provocato e continua a provocare migliaia di morti e immani distruzioni. Il motore principale di questo attivismo è piuttosto la diffusissima preoccupazione che il prolungarsi della guerra arrechi al commercio internazionale e dunque alle varie economie nazionali delle principali potenze danni irreparabili.
Ma tutti questi incontri ai massimi livelli non possono evitare di affrontare il tema “Ucraina”, sia perché questo costituisce una grave preoccupazione agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, sia per le sue gravi implicazioni economiche e politiche.
E’ stata importante e significativa anche la visita ufficiale che il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva ha fatto in Cina qualche giorno fa, accompagnato da una folta delegazione di funzionari governativi e di uomini d’affari, durante la quale sono stati firmati una ventina di accordi di cooperazione economica e tecnologica. Ovviamente, negli incontri con i leader cinesi, Lula, come tutti gli altri leader, ha affrontato anche il tema della guerra in Ucraina, convenendo con il presidente cinese Xi Jinping che “il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi ucraina” e che “tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti”, che occorre invitare “più paesi a svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere la soluzione politica della crisi”. Lula e Xi hanno affermato di voler “mantenere aperte le loro comunicazioni sul merito” della questione. Concludendo la visita, il presidente Xi Jinping ha definito Lula un “vecchio amico”.
Com’è noto, il Brasile, a differenza della Cina che si è astenuta nelle principali votazioni dell’assemblea dell’ONU sulla questione, nell’ultima votazione ha contribuito ad approvare una risoluzione che condanna l’aggressione russa contro l’Ucraina.
Il “piano di pace” di Xi Jinping
Ancora più recentemente, c’è stato proprio due giorni fa nella capitale cinese l’incontro tra la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock del partito dei Verdi, e il suo omologo Qin Gang. Come spesso avviene in occasioni di questo tipo, il contenuto esatto della conversazione tra i due ministri degli Esteri non è stato divulgato, ma risulta chiaro che anche in questo incontro (oltre ai dossier tradizionali negli incontri Cina-UE, come diritti umani e Taiwan) è stato discusso il cosiddetto “piano di pace” cinese (che, lo ricordiamo evita accuratamente di richiedere alla Russia, in quanto paese aggressore, anche solo il cessate il fuoco, per non parlare del ritiro delle truppe d’invasione).
Sembra che Qin Gang abbia dichiarato che l’obiettivo cinese resta quello di far avanzare i negoziati di pace, ma avrebbe anche sottolineato la necessità di prendere in considerazione gli interessi e la sicurezza della Russia. E ha anche cercato di rassicurare la Baerbock respingendo le accuse secondo cui la Cina fornirebbe o avrebbe intenzione di fornire sostegno militare alla Russia contro l’Ucraina.
Tutti questi incontri si concludono con solenni dichiarazioni delle autorità delle principali potenze sulla possibilità di un cessate il fuoco in Ucraina e di un rapido rilancio dei negoziati. Tutti affermano “sinceramente” di voler fare tutto il possibile per ottenere una “de-escalation” in Ucraina, anche se tutto rimane in ambito puramente simbolico, mentre le discussioni serie e concrete tra i “grandi” riguardano gli accordi e i rapporti di forza economici tra loro.
Il famoso “piano di pace cinese” in dodici punti è stato lanciato subito dopo che la Cina, a fine febbraio, si era astenuta dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che, in coincidenza con il primo anniversario della guerra, “deplorava nella maniera più assoluta” l’invasione dell’Ucraina e che chiedeva il ritiro delle truppe russe. Naturalmente la risoluzione è stata bloccata dallo scontato veto della Russia. Ma non si può trascurare il fatto che in quel contesto il “non veto” cinese è stato interpretato come un messaggio di presa di distanza dall’oltranzismo del Cremlino.
Il piano si riduce però ad un compiaciuto gioco di equilibri: Xi Jinping nel documento afferma in generale che la sovranità degli stati deve essere rispettata all’interno dei rispettivi confini, ma mai condanna l’invasione russa dell’Ucraina né solleva la questione del ritiro delle truppe. Si invitano “le due parti” (Russia e Ucraina) a riprendere al più presto il dialogo e a prospettare il cessate il fuoco, e si enfatizza in maniera strumentale le responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati. Sulla Russia, l’unico elemento di pressione è una secca denuncia di qualsiasi deriva nucleare del tipo di quella che solo le autorità russe hanno più volte minacciato.
Dunque, il piano cinese è fatto di dichiarazioni di principio sulla necessaria protezione dei civili, sulla necessità di ridurre la logica della guerra fredda, sulle manovre dei blocchi militari e sulla lotta alla rimilitarizzazione… ma elude completamente ogni proposta concreta. Il suo scopo è solo quello di far apparire agli occhi dell’opinione pubblica mondiale la Cina come una potenza “ragionevole”, che, a differenza degli altri, non vuole aggiungere benzina sul fuoco, ma, all’osservatore attento, rivela come gli interessi dei popoli siano la sua ultima preoccupazione.
I messaggi criptici del capo della Wagner
Anche il miliardario Yevgeny Prigozhin, proprietario della milizia mercenaria Wagner, si è pronunciato sulla questione della “pace”. Le sue dichiarazioni sono state frettolosamente interpretate come un appello all’armistizio o addirittura alla fine della “operazione militare speciale”.
Prigozhin dichiara cinicamente che alcuni importanti obiettivi russi sarebbero stati raggiunti: l’eliminazione di gran parte della popolazione maschile attiva dell’Ucraina, la messa in fuga verso l’Europa di un’altra parte, l’isolamento del Mar d’Azov e di un grosso pezzo del Mar Nero, l’occupazione parti importanti di territorio ucraino e la creazione di un corridoio terrestre verso la Crimea. Ma il leader della Wagner teme che possa rafforzarsi all’interno del paese una pressione per fare concessioni, restituire all’Ucraina quei territori che ora sono sotto controllo russo. Proprio per questo Prigozhin dichiara che “la Russia non può accettare alcun accordo, solo una lotta leale… Le regioni fortificate della Russia rendono impossibile penetrare nelle sue profondità. E il popolo russo non crollerà mai”. Anzi arriva perfino ad auspicare che “le forze armate ucraine riprendano l’offensiva, tanto da rendere improponibili i negoziati”.
E il regime di Putin, con le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, respinge bruscamente ogni ipotesi di un rapido cessate il fuoco in Ucraina in nome degli interessi fondamentali della Russia.
Il “pacifismo” nella sua impasse
In questo contesto, il “popolo della pace” non può che restare muto o continuare a recitare vuote formule incapaci di cogliere le vere dinamiche del conflitto.
Naturalmente, nessuno può negare la validità di principio del rifiuto della Nato e la rivendicazione del suo scioglimento. Ma occorre essere capaci di “mettersi nei panni” dei popoli dell’intera regione, a partire da quelli ucraini e russi, che giustamente e in forza di una plurisecolare esperienza temono che si affermi la potenza russa nella sua versione putiniana, semifascista, imperialista e colonialista.
Nessun ucraino, kazako, cittadino dei paesi baltici, oppositore russo o bielorusso può auspicare che la guerra possa concludersi con un accordo che lasci parti del territorio ucraino sotto il controllo del regime di Putin, calpestando la volontà degli ucraini. Nessuno di loro può dimenticare che, all’inizio del 2022, Putin ha solennemente negato la legittimità stessa di uno stato ucraino indipendente e che, nell’autunno del 2022, ha formalmente proclamato l’annessione di quattro regioni dell’Ucraina (peraltro solo in parte e precariamente occupate), oltre alla Crimea dichiarata unilateralmente “russa” già nel 2014.
Perciò, quando un politico occidentale o un “pacifista” afferma che se gli ucraini vogliono la pace devono fare concessioni, dimenticare la Crimea e magari il Donbass, l’effetto (volontario o involontario che sia) è quello di far ricadere su di loro la responsabilità del proseguimento della guerra, in barba al diritto dei popoli all’autodeterminazione.
E così si elude o si dimentica (anche qui volutamente o inconsapevolmente) che la condizione certo necessaria pur se non sufficiente per una pace giusta e duratura nell’Europa orientale è quella dell’indebolimento e, possibilmente, della sconfitta del regime e del potere di Putin.
Dall'Ucraina: la crisi dell'egemonia, l'imperialismo e le sfide della sicurezza globale
di Maksym Shumakov, studente di Filosofia, ricercatore in Intelligenza artificiale, attivista del Movimento Sociale e leader della rete sindacale indipendente Direct Action, da commons.com.ua
La riconfigurazione dell’economia mondiale e le sfide della sicurezza globale
“Naturalmente questo processo ha dei limiti. Ma temo che, una volta avviata, la separazione economica si accelererebbe da sola. All’inizio potrebbe verificarsi in modo graduale, con un lento declino del volume degli scambi, poi l’isolamento aumenterebbe bruscamente, portando a un crollo totale di tutte le relazioni economiche. Allora nulla impedirà al mondo di sprofondare in un nuovo conflitto globale”.
Dibattiti nella sinistra internazionale e minacce per la regione dell’Europa orientale
“Pertanto, dobbiamo riconoscere il fatto, che non giustifica in alcun modo le azioni della Russia, che V. Putin è in parte il risultato di circostanze storiche e politiche modellate dagli Stati Uniti. L’ascesa del nazionalismo è una reazione alla minaccia dell’Occidente che la propaganda di Putin utilizza per rafforzare i sentimenti nazionali”.
“La pace, la smilitarizzazione e lo smantellamento di blocchi militari come la NATO o la CSTO (cioè l’accordo politico-militare, promosso principalmente dalla Russia, tra paesi dell’Europa e dell’Asia centrale: Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) sono certamente obiettivi a lungo termine che la sinistra deve perseguire, ma non sono obiettivi tempestivi”.
“In luoghi come l’Ucraina, la Polonia e i paesi scandinavi, la sinistra non può semplicemente permettersi di evitare l’analisi programmatica delle politiche di difesa e concentrarsi solo sull’opposizione all’imperialismo della NATO”.
Visioni socialiste per il sistema di sicurezza internazionale
“Quando il dibattito internazionale non esiste all’interno della sinistra, quando la sinistra non partecipa alla discussione, si isola, permette al capitale di prevalere, che è quello che è successo in Polonia nei primi anni Novanta. Non avevamo alternative al processo di trasformazione da parte dei nostri compagni occidentali. E questo potrebbe accadere di nuovo in Ucraina se nel prossimo futuro non ci sarà dialogo e comprensione delle diverse realtà della sicurezza politica”.
“L’ONU è un’importante realizzazione storica, un prodotto del movimento secolare della storia e di due orribili guerre mondiali. Tutto ciò ha permesso la creazione di questo tipo di organizzazione, che rappresenta senza dubbio un grande passo avanti nel campo delle relazioni internazionali, nonostante tutti i suoi limiti”.
Cina, un bilancio del 2022
di Pierre Rousset, da
europe-solidaire.orgRepressione eccessiva
Resistenza alla ferocia del capitalismo cinese
Russia, Ucraina, Europa
Dagli effetti della guerra di aggressione della Russia all’urgenza di un’Europa radicalmente decoloniale
L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin il 24 febbraio ha portato al contrario di tutti i suoi obiettivi. La resistenza a questa aggressione rivela ciò che sta accadendo in un’Ucraina che si supponeva appartenesse “all’unico popolo russo” e che, dalla crisi del 2013-2014, è considerata sottoposta a un “colpo di Stato nazista” sostenuto dall’Occidente che minaccia un genocidio contro la popolazione di lingua russa.
Condivido le critiche mosse a questa tesi da autori ucraini di sinistra, che sono criticamente indipendenti da tutti gli imperialismi e da tutta la propaganda pro-stato (compresa quella di Zelensky). Ovviamente, queste critiche non implicano che si trascuri l’importanza (in Ucraina come in Russia, in Francia e altrove nel mondo) delle forze di estrema destra, la loro evoluzione e differenziazione ideologica e il loro rapporto con le istituzioni e la violenza, i loro mezzi, … L’esito della guerra peserà anche su questi fattori. Dal punto di vista degli eccessi totalitari dell’apparato statale, l’Ucraina si confronta favorevolmente con la Federazione Russa e il suo controllo degli oligarchi, in contrapposizione al “pluralismo oligarchico” dell’Ucraina e ai suoi maggiori margini di libertà.
Una società mobilitata in difesa della propria dignità, sia in pace che in guerra.
Sono proprio questi margini, inesistenti in Russia, che hanno permesso agli autocrati al potere di essere sfidati alle urne e nelle strade in diverse occasioni. È il caso della Rivoluzione arancione del 2004, catalizzata dal rifiuto della corruzione e dei brogli elettorali e segnata dalla speranza popolare in nuovi partiti, presumibilmente democratici, che si dichiaravano europeisti. La delusione nei confronti di questi partiti, a loro volta afflitti dalla corruzione, spiega la successiva vittoria di Yanukovych (un cosiddetto filorusso) alle elezioni del 2010, con una politica che ha cercato di trovare un equilibrio tra Russia e UE. Ma il processo di verifica delle promesse, una volta al potere, è continuato di fronte alle pratiche del nuovo presidente oligarchico, alle sue decisioni dall’alto, all’arricchimento della sua famiglia e alla violenza delle sue forze repressive. Nel 2014, questa è la ragione profonda del suo discredito, anche nella sua stessa regione, e della sua fuga in Russia. Così, al di là degli episodi violenti e confusi, certamente segnati tanto dal sostegno occidentale quanto dalla muscolarità delle forze di sicurezza di estrema destra a protezione dei manifestanti nel 2014, la caduta di Yanukovich (ratificata dal Parlamento) è stata soprattutto dovuta a una nuova “liberazione” popolare, a prescindere dalla capitalizzazione dei vari partiti di destra.
Il carattere complesso di queste rivolte è simile a quello dei Gilet Gialli e di tanti altri movimenti di massa in contesti politici e sociali confusi. I limiti di questa rivoluzione erano altrettanto evidenti: il regime oligarchico non era affatto abolito. Ma l’etichetta rivoluzione esprime l’accumulo di esperienze che danno forza duratura e profonda alle mobilitazioni periodiche in una società alla ricerca di giustizia sociale.
La rivolta di massa del 2014 è stata definita come una rivoluzione della dignità, evocando le centinaia di migliaia di manifestanti che si sono organizzati per occupare Piazza Indipendenza (Maidan) esprimendo molteplici richieste. È stato anche chiamato in modo meno convincente Euromaidan, cercando di ridurre il movimento a una rivolta pro-europea. Ma a Mosca e da una parte della sinistra è stata assimilata alla rivoluzione colorata (come nel 2004), vedendola come una pedina strumentalizzata dalle potenze della NATO. Questo approccio (o meglio la sua ignoranza) si ritrova anche nella società in relazione alla guerra in corso. Un’altra parte della sinistra ha scelto di unirsi a Maidan per combattere su vari fronti.
Tuttavia, le aspirazioni popolari e l’autonomia critica della società nei confronti dei partiti istituzionali hanno continuato a manifestarsi dopo il presunto golpe nazista, durante il mandato quinquennale del nuovo presidente e oligarca Petro Poroshenko eletto nel 2014: la mancata stabilizzazione del nuovo potere e il suo crollo finale nel 2019 lo testimoniano. Dopo l’annessione della Crimea e lo scoppio della guerra ibrida nel Donbass (in cui sono morte circa 15.000 persone), il paese ha sofferto di crisi di governo e scandali finanziari che hanno colpito questo presidente. Poroshenko non ha adottato quasi nessuna misura sociale per aiutare le migliaia di persone in fuga dai conflitti nel Donbass e non è riuscito a superare lo stallo degli accordi di Minsk. Cinque anni dopo il cosiddetto colpo di stato, presuntamente controllato dall’Occidente, la capacità autonoma della popolazione nei confronti del potere si è manifestata nuovamente con l’elezione a sorpresa di un attore ebreo esterno ai partiti politici esistenti e la cui lingua madre era il russo (Zelensky). Ha fatto una campagna elettorale con la promessa di risolvere pacificamente il conflitto del Donbass e di affrontare la corruzione, che gli ha fatto ottenere una maggioranza schiacciante senza precedenti in tutto il Paese (ben lontana dai temi di estrema destra che Poroshenko aveva in parte assunto).
La mobilitazione popolare contro l’invasione e la mobilitazione del governo di Zelensky alla sua testa – anch’essa imprevista dalle forze NATO – hanno consolidato la popolarità di Zelensky, in tutto lo spettro politico e in tutta l’Ucraina. In pratica, questa mobilitazione è stata la scelta popolare in difesa della sovranità ucraina. Questo vale soprattutto per la grande massa di popolazione russofona dell’est e del sud del Paese, che si diceva di voler “salvare dal genocidio nazista”. Le forze russe sono ben lontane dal controllare il territorio delle regioni annesse dopo i recenti pseudo-referendum e hanno difficoltà a trovare sindaci disposti a gestire le città.
Contrariamente alle interpretazioni (e alle molteplici citazioni) secondo cui la NATO starebbe spingendo l’Ucraina in una guerra infinita per finire la Russia, la situazione è piuttosto l’opposto: pressioni per temperare l’offensiva ucraina, come abbiamo visto all’inizio di novembre. È stato il personale della NATO a mitigare le accuse di Zelensky, attribuendo alla Russia gli attacchi che hanno ucciso due persone in Polonia. In realtà, se è vero che senza le armi e l’ovvia assistenza logistica fornita all’esercito ucraino, quest’ultimo si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che lo avrebbe costretto ad arrendersi rapidamente, la forza della resistenza e le vittorie ottenute sono dovute – dietro le armi – alla determinazione di una popolazione che resiste a un’aggressione vissuta per quello che è: neocoloniale e imperiale.
Quale sinistra chiese ai vietnamiti di negoziare invece di vincere?
In Francia, la sinistra dubiterebbe della realtà della resistenza come lotta di liberazione nazionale se l’operazione militare fosse stata lanciata dalla Francia contro l’Algeria francese? Storicamente la forma assunta dalla colonizzazione russa, e poi dalla politica stalinista, pesa molto. Lo sottolinea la scrittrice e ricercatrice indiana Rohini Hensman:
Mentre le colonie delle potenze imperialiste dell’Europa occidentale si trovavano principalmente oltremare, gli imperi Moghul, dell’Europa orientale e ottomano condividevano paesi limitrofi, per cui era facile commettere l’errore di confondere la distinzione tra impero e stato. Mentre nessuno penserebbe all’India come parte dello Stato britannico, quando Putin considera l’Ucraina come parte dello stato russo, non è solo, e non è la prima volta [da Russie et Ukraine, l’internationalisme socialiste et la guerre en Ukraine, di Rohini Hensman].
Ma mette anche in evidenza, come fa molto chiaramente Bernard Dréano (che accosta anche Ucraina e Irlanda), i disaccordi che dividono i marxisti (e i bolscevichi) soprattutto sulle questioni nazionali.
L’ignoranza, l’occultamento o la denigrazione dell’Ucraina come attore determinante sia negli obiettivi di Putin sia nella resistenza alla sua aggressione sono alla base dell’errata assimilazione della guerra attuale a una guerra mondiale inter-imperialista, come lo fu la Prima guerra mondiale. Ovviamente, presentarlo come tale giustifica la ripresa dei grandi slogan del pacifismo e del disfattismo rivoluzionario dell’epoca e l’invito a rivoltarsi ovunque contro il nemico che abbiamo nel nostro proprio paese. Mi sono dissociata da questa interpretazione della guerra in corso non appena ho rifiutato di firmare l’appello internazionale delle femministe pacifiste che – giustamente – esprimeva solidarietà alle femministe pacifiste russe ma non riconosceva il diritto delle femministe ucraine a resistere. Numerosi testi (di donne e uomini ucraini di sinistra che difendono questo diritto – e il diritto di proteggersi, ora e in futuro, soprattutto con le armi) rendono esplicito questo dibattito in una raccolta di testi che vale la pena di leggere e discutere.
Questo diritto a resistere alla dominazione russa ha ovviamente effetti globalizzanti. Torneremo su questo punto. È importante sottolineare l’impatto specifico, essenziale per il futuro e l’esito di questa guerra, sulle ex repubbliche sovietiche nelle immediate vicinanze della Russia. Questo è ciò che stiamo semplicemente menzionando per richiamare l’attenzione su di esso. Si tratta della Bielorussia – associata a diversi progetti russi, tra cui l’Unione economica eurasiatica (UEE) – e del Kazakistan, essenziale per l’alleanza militare tra la Russia e diversi altri Stati (CSTO) che ha avuto luogo all’inizio del 2022 dopo i disordini senza precedenti del 2021.
Questioni geopolitiche in Eurasia. Bielorussia, tra l’unione organica con la Russia e l’UEE
La decisione di Putin non è stata segnata solo da un’errata valutazione della società ucraina. Si basava anche sull’esito dell’annessione della Crimea. Mentre l’annessione della Crimea è stata accolta con entusiasmo patriottico popolare in Russia, tra gli autocrati delle repubbliche alleate post-sovietiche ha prodotto una reazione completamente diversa.
Ma Putin ha sottovalutato questo fattore a causa dei recenti sviluppi in Bielorussia e Kazakistan.
In primo luogo, va ricordato che l’annessione della Crimea ha infranto il Memorandum di Budapest del 1994, firmato dalla Russia con l’Ucraina (e analogamente con Bielorussia e Kazakistan) con il sostegno degli Stati Uniti: l’accordo stabiliva che la Russia avrebbe ritirato tutte le armi nucleari di epoca sovietica, ma in cambio avrebbe rispettato i confini dei nuovi Stati indipendenti. Mentre questa annessione era popolare in Russia, gli oligarchi della Bielorussia e del Kazakistan, attaccati alla loro sovranità statale, la vedevano con sospetto.
Per questo motivo, l’orientamento di Putin ha giocato pragmaticamente con vari scenari e tipi di unioni. Da un lato, sperava che l’Ucraina e la Bielorussia si avvicinassero alla Russia per consolidare un polo russo nella costruzione dell’Unione economica eurasiatica (UEE). Si ispira all’idea di un’Unione Europea con la sua dimensione di comunità condivisa e separata (nel rispetto della sovranità degli stati). Il progetto mirava a integrare tutti i Paesi ex sovietici situati tra la Russia e l’UE (tra cui la Georgia e l’Armenia, nonché la Bielorussia e l’Ucraina), esattamente gli stessi che sono stati selezionati per partecipare al progetto di partenariato orientale lanciato dall’UE nel 2009. È stata l’esitazione di Yanukovych e infine la sua decisione di non firmare l’accordo di associazione con l’UE a scatenare la crisi del 2013.
Dopo l’annessione della Crimea, il presidente Lukashenko, leader della Bielorussia per circa 25 anni, ha preso le distanze da Putin, avvicinandosi all’UE per diversificare le sue dipendenze e sfuggire alle sanzioni. L’autocrate ha preferito negoziare con una potenza russa indebolita da Eltsin piuttosto che con un Putin che aveva ristabilito il controllo sui propri oligarchi ed era chiaro sulle sue ambizioni. Ma non ha esitato a rivolgersi a lui quando il suo stesso potere è stato minacciato nel 2020-2021 dalla rivolta popolare contro i brogli elettorali.
I due leader hanno quindi avviato un processo di negoziazione tra loro per raggiungere una stretta unione che ha comportato modifiche costituzionali in Bielorussia per consentire la presenza di basi militari russe (anche nucleari), ma che ha riaffermato la neutralità del paese e quindi escluso (per ora) qualsiasi entrata diretta in guerra. Lukashenko è stato costretto a precisare che il Paese non è stato inghiottito.
Ma questo sviluppo sottolinea – lungi da interpretazioni fatalistiche dell’espansionismo russo – che questo recente riavvicinamento è andato controcorrente rispetto alle tensioni visibili tra il 2014 e il 2022. Questo è stato quindi un contesto chiave per comprendere l’ottimismo di Putin nel dispiegare truppe ai confini dell’Ucraina in Bielorussia all’inizio del 2022. Ma è stata anche l’instabilità del potere di Lukashenko nel suo paese a rendere evidente la ricerca di un tale avvicinamento ai vertici e alle forze armate. E questo sottolinea che è anche una potenziale fonte di debolezza per l’avventura bellica di Putin.
La resistenza incontrata in Ucraina e quindi la durata e la violenza della guerra implicano senza dubbio un corso repressivo interno più radicale in Russia e Bielorussia. Ma è tutt’altro che impeccabile. E questi difetti sono essenziali per il futuro. Nei primi giorni di guerra ci furono espressioni di solidarietà sindacale contro questa invasione. Sono stati rapidamente accolti con una repressione radicale (come in Russia), in particolare contro i leader del Congresso bielorusso dei sindacati democratici (BKDP) e dei sindacati metalmeccanici (SPM) e radiotelevisivi (REP). Questa repressione ha provocato proteste sindacali di solidarietà, soprattutto in Russia (da parte della KTR – Confederazione del Lavoro della Russia fondata nel 1995, a sua volta minacciata), e in Ucraina – da parte della Confederazione dei Sindacati Liberi dell’Ucraina KVPU. Infatti, i ferrovieri bielorussi hanno intrapreso azioni di tipo partigiano che sicuramente giocheranno un ruolo chiave in questa guerra: rendere difficile alle truppe russe l’ingresso di rinforzi e rifornimenti in Ucraina.
Nessuna nazione al mondo vuole la guerra. I popoli russo, ucraino e bielorusso non fanno eccezione. Pochi popoli al mondo hanno subito nella loro storia perdite così terribili e sacrificato la vita di decine di milioni di loro cittadini come i nostri tre popoli, popoli così vicini tra loro. E il fatto che oggi il governo russo abbia lanciato una guerra contro l’Ucraina non può essere compreso, giustificato o perdonato. Il fatto che l’aggressore abbia invaso l’Ucraina dal territorio della Bielorussia con il consenso delle autorità bielorusse non può essere giustificato o perdonato.
Sono accadute cose irreparabili, le cui conseguenze a lungo termine sulla vita di diverse generazioni avveleneranno le relazioni tra russi, ucraini e bielorussi. A nome dei membri dei sindacati indipendenti della Bielorussia, i lavoratori del nostro Paese si inchinano davanti a voi, nostri fratelli e sorelle ucraini. Ci scusiamo con voi per la vergogna che il governo bielorusso ha imposto a tutti i bielorussi diventando alleato dell’aggressore e aprendo il confine con l’Ucraina.
Tuttavia, vogliamo assicurarvi, cari ucraini, che la grande maggioranza dei bielorussi, compresi i lavoratori, condanna le azioni sconsiderate dell’attuale regime bielorusso che tollera l’aggressione russa contro l’Ucraina. Chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina e dalla Bielorussia [“Dichiarazione del Comitato esecutivo del Congresso dei Sindacati democratici di Bielorussia“].
I progressi della resistenza ucraina avranno un impatto diretto specifico su tutte le società post-sovietiche, in particolare su quelle (aperte alle relazioni con Mosca, ma anche con la Cina e l’Occidente) con cui Mosca vuole stabilizzare ed espandere l’Unione economica eurasiatica (UEE). Quest’ultima è tenuta a rispettare la sovranità degli stati. La capacità di Mosca di sfruttare i conflitti interni di ciascuna società nel suo particolare ambiente (come l’Armenia nei suoi conflitti con l’Azerbaigian) non è una relazione puramente basata sul potere. Che si tratti dei poteri autocratici delle società post-sovietiche o di società che aspirano a una maggiore democrazia e giustizia sociale, l’indipendenza dei nuovi stati è una caratteristica importante della nuova fase storica post-sovietica.
Le dimensioni neocoloniali e brutali dell’intervento russo in Ucraina sono e saranno fattori destabilizzanti e di tensione nelle relazioni di Mosca con i suoi vicini. Lo stesso si può dire di ciò che accadrà oltre la Bielorussia con l’UEE e la sua controparte militare, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).
La CSTO e il test del Kazakistan prima e dopo l’invasione russa.
Questa alleanza militare comprende cinque ex repubbliche sovietiche (Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Tagikistan e Kirghizistan) e la Russia. È nata dal fallimento di progetti precedenti, molto più grandi.
Copiando la NATO e mirando a controbilanciare il suo peso o a negoziare le sfere di influenza, il suo articolo 4 è l’equivalente dell’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica: in caso di aggressione contro uno degli stati membri, tutti gli altri devono fornire l’assistenza necessaria, compresa quella militare. In pratica, però, questa alleanza militare non è intervenuta come tale fino all’inizio del 2022. Nel 2019 ha istituito una forza di reazione rapida di 20.000 uomini e una forza di pace riconosciuta dalle Nazioni Unite di 3.600 uomini. Lotte di potere opache si sono intrecciate con disordini sociali senza precedenti per protestare contro gli aumenti dei prezzi del gas naturale liquefatto (che coinvolgono le multinazionali).
Alla fine del 2021, il presidente del Kazakistan ha chiesto l’intervento della CSTO dichiarando lo “stato di emergenza”, presuntamente causato da un “intervento straniero”. Il ritorno alla calma è stato facilitato da misure sociali. Ma le forze della CSTO sono intervenute all’inizio del gennaio 2022 e si sono ritirate dopo una settimana. Mosca contava senza dubbio di sfruttare quello che sembra un successo per il futuro di fronte al disordine globale e alla debacle della NATO in Afghanistan.
In effetti, è stato proprio il timore di interventi talebani dall’Afghanistan che, al termine dell’operazione CSTO in Kazakistan – e quindi poco prima dell’invasione dell’Ucraina – ha dato origine a proposte di consolidamento ed espansione degli interventi militari dell’Alleanza CSTO: il rappresentante russo presso l’Alleanza ha così evocato l’obiettivo di “creare una cintura di sicurezza non solo intorno all’Afghanistan, ma anche intorno alla CSTO”.
Tale scenario, senza dubbio auspicato da Putin, si inserisce molto bene nello scenario di una ricomposizione delle sfere di influenza negoziata sulla base di rapporti di forza consolidati per Mosca dall’unione con la Bielorussia e dal successo attribuito alla CSTO in Kazakistan di fronte alla crisi della NATO. È addirittura possibile ipotizzare che Putin si aspettasse che la sua operazione politica in Ucraina fosse, come quella della CSTO in Kazakistan, estremamente effimera ed efficace.
La resistenza ucraina ha fatto deragliare questo scenario. D’altra parte, il Kazakistan, che ha un ruolo centrale nella CSTO e nel suo futuro, non sostiene apertamente quella che è diventata una guerra. E, come il suo alleato cinese, non vuole bruciare tutte le sue carte nel rapporto con l’Occidente, né sostenere un perdente, tanto meno accettare una violazione ancora più grave di quella del 2014 del Protocollo di Budapest, secondo il quale Mosca rispettava i confini dei nuovi stati indipendenti ritirando le sue armi nucleari. Significativamente, in Kazakistan ci furono proteste popolari contro la guerra (senza repressione…), e il governo al potere mostrò neutralità piuttosto che un chiaro sostegno alla Russia.
Per illustrare la stessa questione (che potrebbe sollevare le stesse preoccupazioni per Putin), il leader cinese, che viene ritenuto suo alleato, ha visitato il Kazakistan a settembre. Xi Jinping ha persino sottolineato esplicitamente, nel primo giorno della sua visita nel paese centroasiatico, che aiuterà il Kazakistan a “salvaguardare la sua indipendenza nazionale, la sua sicurezza e la sua integrità territoriale”, prima di recarsi in Uzbekistan…
Così, la guerra in Ucraina incide profondamente sul peso della Russia nel suo vicinato, ben oltre il Kazakistan, come analizza Vicken Cheterian: “Dopo l’invasione russa dell’Ucraina” stiamo assistendo a “un’ondata di destabilizzazione dal Caucaso all’Asia centrale”.
La guerra in Ucraina continua a essere definita un’operazione militare orwelliana per minimizzare il suo reale significato e la sua evoluzione. Una dichiarazione di guerra esplicita (richiesta dai falchi dell’estrema destra russa) sarebbe pericolosa per la stabilità interna della Russia (come ha dimostrato la recente mobilitazione limitata); ma, come si è notato qui, sarebbe problematica anche per gli alleati più stretti della Russia.
Dal mantenimento della NATO alla costruzione dell’UE
Il fatto è che per tutte le correnti o i paesi lontani dalla Russia – e spesso ignari della lunga storia delle sue relazioni con l’Ucraina – i discorsi contro l’estensione della NATO alle porte della Russia e contro il suprematismo statunitense hanno un peso. Questo è vero anche quando viene denunciata l’invasione dell’Ucraina: spesso viene presentata come reattiva o difensiva di fronte a un’Alleanza Atlantica costruita contro la Russia e nel contesto dell’evidente superiorità economica e militare del regime imperialista statunitense. È qui che emerge il neocampismo (sostenere la parte di qualsiasi nemico del nemico principale).
Senza sfiorare l’aggressione russa, Tony Wood ha cercato di evidenziare la “matrice di guerra” su tre assi interagenti: Stati Uniti, NATO e Ucraina. Nella sua introduzione, cita una “responsabilità immediata” della Russia di Putin in questa guerra, che condanna, e quella che definisce una “responsabilità storica”: quella della NATO. Ma questa responsabilità è mal definita. O ci si riduce a un contesto che non spiega una vera e propria guerra, o si indicano le “armi” (della NATO) che combattono contro la Russia, omettendo di sottolineare che dietro le armi – e che le rendono più efficaci di quelle delle forze russe – ci sono le scelte e le motivazioni del popolo ucraino. Avrebbe dovuto rinunciare a resistere a quella che è ben descritta come un’aggressione; e se no, con quali armi [per difendersi]?
Inoltre, molte altre aree grigie e punti ciechi nelle analisi devono essere discusse se vogliamo comprendere la posta in gioco in una situazione senza precedenti storici.
Da un lato, dobbiamo parlare di una guerra concreta in una situazione concreta. Ed è piuttosto la crisi aperta e reale della NATO nel 2021 – e non la minaccia della NATO contro la Russia – a spiegare l’avventurismo dell’offensiva bellica di Putin. A ciò si aggiungono le cause dell’ottimismo di Putin, già menzionate in precedenza, relative alla fragilità di Zelensky, all’unione con la Bielorussia e al successo della CSTO in Kazakistan. La Russia non era minacciata.
Inoltre, l’obiettivo e la vittima di questa offensiva – e la resistenza che ha incontrato – possono essere compresi solo in termini di contenuto imperiale neocoloniale della Russia che nega il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina. Il passaggio a un’offensiva che concretizza tale rapporto è consentito dal contesto a breve termine percepito come favorevole da Putin, ma si tratta (come egli stesso ha spiegato) di una legittimazione che pretende di essere storica includendo la contestazione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina da parte di Lenin (Putin dice la “creazione”); a ciò si aggiunge l’argomento antinazista che mobilita la memoria della Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, si tratta di una questione indipendente dalla NATO.
Ma bisogna anche tenere conto dell’analisi specifica dell’Alleanza Atlantica e della sua evoluzione. Putin, come tutti, sapeva che i suoi membri dominanti non avrebbero votato a favore dell’adesione dell’Ucraina, proprio per proteggere gli interessi condivisi con Putin. Questo punto non è un dettaglio da poco. La sua omissione fa parte di una visione obsoleta ed essenzializzata di una NATO antirussa che fonde e oscura diversi contesti che qui possiamo solo accennare brevemente. Innanzitutto, la Russia non è né l’URSS (l’asse del male comunista) né la sua continuità. E proprio la Federazione Russa, guidata da Eltsin, è stata protagonista (insieme ai rappresentanti di Ucraina e Bielorussia) della dissoluzione dell’URSS e dello smantellamento del sistema di orientamento capitalistico, accolto a braccia aperte dagli Stati Uniti e dal FMI. Non si è trattato di un’aggressione esterna, ma di una decisione presa da una parte essenziale dell’ex nomenklatura comunista. Gli scenari di inserimento nella globalizzazione capitalistica non erano gli stessi per l’opaca unificazione tedesca, per la Russia di Eltsin o per la Cina, né per i diversi Paesi dell’ex URSS o dell’Europa orientale. La nuova Russia è stata accolta a braccia aperte dagli Stati Uniti – comprese le sue sporche guerre contro la Cecenia, compresa quella guidata da Putin che fa parte dell’ideologia di partnership con la NATO e le sue nuove “guerre di civiltà” contro il terrorismo islamico come sostituto del comunismo.
In effetti, la (nuova) Russia non è stata l’obiettivo della continuazione della NATO nel 1991 e, successivamente, dei primi cambiamenti nelle sue funzioni (con la prima guerra offensiva della NATO sul Kosovo nel 1999). In entrambi i contesti, è più credibile sottolineare quale fosse la motivazione principale di Washington: l’unificazione tedesca e la (contemporanea) costruzione di una nuova Unione Europea che incorporasse la Germania unificata. Fu una contingenza catalizzata dalla decisione di unificazione monetaria dopo la caduta del Muro di Berlino; una caduta storica, senza repressione da parte della DDR, perché sostenuta da Gorbaciov, che venne a negoziare i crediti con la Germania Ovest. Il leader dell’URSS sperava di costruire una “Casa comune europea”, non senza la simpatia di Mitterrand. E mentre gli Stati Uniti (e il Regno Unito) volevano controllare una Germania unificata incorporandola nella NATO, la Francia stava negoziando con la nuova Germania la fine del marco tedesco e la costruzione di una nuova Unione Europea.
Ed è proprio contro il desiderio di autonomia politica dell’UE e la sua estensione all’Europa orientale che gli Stati Uniti hanno stabilito la propria agenda NATO. Quest’ultima era sull’orlo del collasso durante i primi attacchi contro la Jugoslavia di Slobodan Milosevic. Lo scenario della guerra di tre mesi in Kosovo è molto diverso da quello dell’Ucraina. L’intervento offensivo della NATO (senza un mandato delle Nazioni Unite) doveva essere limitato a pochi colpi. E per evitare la rottura dell’Alleanza e il peggiore dei fiaschi, è stato necessario inserire rapidamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e quindi la Russia) nel processo di negoziazione della fine della guerra. La risoluzione 1244 – regolarmente richiesta da Milosevic (ma non dagli albanesi del Kosovo) – ha istituito un protettorato internazionale provvisorio profondamente instabile e corrotto.
Era possibile sostenere il diritto all’autodeterminazione degli albanesi kosovari – contro la regola che Milosevic voleva imporre – e allo stesso tempo criticare radicalmente la prosecuzione e i vicoli ciechi delle nuove funzioni che gli Stati Uniti stavano assegnando alla NATO, accompagnate da fake news per legittimarle. Nulla di tutto ciò costituiva una minaccia per la Russia. Le timide opzioni di alleanza di una parte degli albanesi del Kosovo (l’UCK) con gli Stati Uniti e la NATO non hanno messo in discussione la radice profonda del conflitto (storico e concreto recente) con Belgrado e quindi la questione dell’autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Questo si è espresso in contesti mutevoli, fino alla proclamazione dell’indipendenza da parte del parlamento del paese nel 2008, non ancora riconosciuta da Belgrado e quindi dall’ONU e dall’UE.
Come in Ucraina, la popolazione del Kosovo ha giudicato la profonda corruzione e il disastro economico del paese ai margini della posta in gioco geopolitica globale. Nel 2021, un voto popolare di massa senza precedenti ha emarginato gli storici partiti alleati degli Stati Uniti in questa ex provincia della Serbia, a favore del giovane partito di sinistra Autodeterminazione: esso ha condotto una campagna elettorale sulla base di una critica radicale della corruzione e in difesa di un programma sociale sostanziale, orientando al contempo le sue speranze verso l’UE. Così come l’Ucraina ha sollevato la questione dell’adesione all’UE… Come dovrebbe reagire la sinistra (critica nei confronti dell’UE) a questa richiesta?
Assi di solidarietà antiglobalizzazione
La richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE, la militarizzazione dei bilanci associata alla NATO e le sfide della transizione ecologica associate alla guerra sono i tre dossier che devono essere aperti e gestiti con urgenza, ma in modo stabile, a livello europeo e non solo, in una prospettiva di alter-globalizzazione. L’ampiezza delle crisi combinate che la guerra aggrava con effetti globalizzati, colpendo in primo luogo le popolazioni più povere, richiede risposte della stessa portata.
Dobbiamo affrontare le reali divergenze e la complessità della posta in gioco in queste diverse questioni in una prospettiva volutamente pluralista, per cercare di allargare gli orizzonti (e le diverse percezioni della posta in gioco a seconda delle regioni, dei paesi di cui si parla, delle storie vissute), la conoscenza necessariamente disomogenea di un passato e di un presente complessi, per far convergere i punti di vista e gli obiettivi prioritari, cercando di individuare ciò che ci permette di agire in comune.
Credo che sia possibile e necessario integrare le tre questioni sopra menzionate in un approccio generale verso/contro l’UE, che potrebbe trovare il suo posto nella rivitalizzazione di uno spazio pubblico e attivista di dibattiti europei come potrebbe essere stato l’Altersummit.
Approcci decolonizzanti all’Europa
Innanzitutto, bisogna essere consapevoli del danno che comporta ignorare un intero continente: L’Europa orientale, in senso lato, verso l’Eurasia. Decolonizzare le analisi e le risposte richiede una lotta semantica. Si tratta di rifiutare sistematicamente l’assimilazione dell’Europa all’UE, proprio come gli Stati Uniti si sono autoproclamati America, al punto che alle popolazioni dell’Europa orientale è stato proposto di entrare in Europa e i primi commenti radiofonici sulla guerra in Ucraina sono stati “alle porte dell’Europa”. Questo vocabolario ha diverse dimensioni: come si può criticare l’Europa senza diventare nazionalisti? Si trattava dello stigma e della scelta generalmente associati agli sconvolgimenti politici dell’Europa orientale. L’adesione all’Europa potrebbe essere solo una prova di progresso e di civiltà nei confronti della non-Europa (orientale, o comunista, o balcanica…). Ho criticato tale vocabolario nell’ambito del Forum sovversivo di Zagabria del 2012, a cui Attac ha partecipato, investendo la luce necessaria dalla periferia balcanizzata per criticare le “pratiche e il vocabolario civilizzanti” dell’UE nei confronti dei Balcani e dell’Europa orientale: “Il Forum sociale balcanico: un’opportunità per un’altra Europa”.
È nostra responsabilità – che dobbiamo condividere con i nostri colleghi e compagni di questi paesi – fare il punto sulle condizioni in cui questi paesi sono stati sfruttati (nel contesto dello smantellamento del loro sistema e della dittatura monopartitica), attraverso un radicale dumping sociale e fiscale che si supponeva mirasse a modernizzarli e democratizzarli.
Il fatto che Volodymyr Zelensky usi un vocabolario così apologetico nei suoi discorsi al Parlamento europeo non aiuta a convincere le sinistre, già inclini a mettere tra parentesi l’Ucraina, nel loro approccio alla guerra. Ma, a questo proposito, dobbiamo distinguere due aspetti: denunciare la guerra neocoloniale della Russia e riconoscere il diritto di autodifesa del paese attaccato non dipende dalla natura dei leader di quel paese (e non richiede un paese ideale); ma, ovviamente, siamo politicamente liberi di decidere come esprimere la nostra solidarietà.
Da questo punto di vista sottoscrivo e propongo di aderire alla Rete Europea di Solidarietà Ucraina che sostiene la seguente piattaforma:
Noi, collettivi di movimenti sociali, sindacati, organizzazioni e partiti, dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, contrari (…) alla guerra e a tutti i neocolonialismi del mondo, vogliamo costruire una rete dal basso, indipendente da qualsiasi governo per:
- La difesa di un’Ucraina indipendente e democratica
- Il ritiro immediato delle truppe russe da tutto il territorio ucraino; la fine della minaccia nucleare rappresentata dall’allarme sulle armi nucleari russe e il bombardamento delle centrali elettriche ucraine!
- Sostegno alla resistenza (armata e non) del popolo ucraino nella sua diversità, in difesa del suo diritto all’autodeterminazione.
- La cancellazione del debito estero dell’Ucraina
- Accogliere senza discriminazioni tutti i rifugiati provenienti dall’Ucraina e da altri paesi!
- Sostegno al movimento contro la guerra e la democrazia in Russia e garanzia dello status di rifugiato politico per gli oppositori di Putin e i soldati russi che disertano.
- La confisca dei beni dei membri del governo russo, dei funzionari e degli oligarchi in Europa e nel mondo; l’applicazione di sanzioni finanziarie ed economiche che proteggano i più svantaggiati dai loro effetti.
Oltre a questo, ci battiamo anche, insieme a correnti affini in Ucraina e in Russia, per
- Disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
- Lo smantellamento dei blocchi militari.
- Tutti gli aiuti all’Ucraina devono essere liberi dal controllo del FMI o dell’UE e dalle condizioni di austerità.
- Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.
Come indicato all’inizio della piattaforma, la rete integra organicamente (nelle sue riunioni, campagne, dibattiti) componenti (associazioni, sindacalisti, partiti) dell’Europa orientale. In pratica, sono stati privilegiati i legami con l’ONG socialista Sotsianly Rukh (Movimento sociale), con i sindacalisti bielorussi e con le componenti della sinistra russa (con campagne di solidarietà con chi si oppone alla guerra in Russia o ne fugge).
Ciò significa che la lotta contro la guerra si combina con diverse campagne che possono essere unite: la richiesta di cancellazione del debito ucraino, un debito che perdona gli oligarchi e permette al FMI di spingere per lo smantellamento dei servizi pubblici e l’aumento delle tariffe energetiche; ma anche le campagne sindacali contro le leggi che sono state proposte e infine approvate, approfittando del contesto bellico, per smantellare i diritti sociali. Qui si può leggere (in inglese) anche l’analisi radicalmente critica del progetto di ricostruzione dell’Ucraina elaborato alla conferenza di Lugano del luglio 2022, che è orientato a uno sfruttamento socialmente ed ecologicamente disastroso dell’Ucraina subordinato alla logica del profitto (qui si può leggere in italiano il volantino distribuito a Lugano, durante il vertice, dalle/dai compagne/i svizzere/i del Movimento per il socialismo).
“La sinistra europea dovrebbe sostenere la richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE?”, chiede un attivista di Sotsialny Rukh (SR), rispondendo positivamente – anche dal punto di vista collettivo della sua organizzazione – a questa domanda. Non senza un’analisi lucida di cosa sia l’UE e di quali siano stati i suoi effetti sulla sua periferia orientale e meridionale. Scrive a questo proposito:
Possiamo imparare dall’esperienza di altri paesi dell’Europa orientale e meridionale. Polonia, Slovacchia e altri Paesi dell’UE hanno sperimentato la liberalizzazione in vari settori, direttamente incoraggiata o tollerata dall’UE. In molti paesi dell’Europa orientale, negli anni 2000 è aumentata la quota di contratti a tempo determinato, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diventati più rari. Allo stesso tempo, sono state attuate riforme per rendere più facile il licenziamento dei lavoratori, ad esempio, con la motivazione che ciò avrebbe creato nuovi posti di lavoro. Questi sviluppi si sono verificati, anche se in modo non uniforme, in tutti i paesi dell’Europa orientale e sono stati accelerati da crisi come quella finanziaria del 2008, che ha portato a un approfondimento delle politiche neoliberali nell’UE e a livello globale. Vale la pena menzionare anche il ruolo della Banca Centrale Europea nel promuovere il conservatorismo fiscale e le sue conseguenze sul benessere della popolazione, come abbiamo visto nell’esempio della Grecia.
Allora perché sostenere l’adesione all’UE? In realtà la domanda è superata, ma è interessante discuterne. È obsoleta, perché la domanda ufficiale di adesione era già stata presentata e quattro mesi dopo – lo scorso giugno – i 27 hanno accettato l’Ucraina e la Moldavia come candidati ufficiali. Ma la questione rimane interessante perché lo status di candidato non implica l’effettiva appartenenza al gruppo. Si apre un lungo processo negoziale, dal quale alcuni paesi balcanici sono rimasti bloccati per anni: dell’ex Jugoslavia, solo Slovenia e Croazia hanno aderito. Tutte le altre repubbliche sono in attesa della conclusione del processo (in parte sospeso nel caso della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo). I rappresentanti dei Balcani occidentali non vedrebbero di buon occhio che l’Ucraina si integri più velocemente di loro.
La vera questione è quindi quella delle condizioni per l’integrazione: cosa si sta negoziando e la sinistra ha qualche campagna di solidarietà da condurre su questo fronte?
Cosa ne pensa il nostro compagno ucraino? Da un lato, sottolinea che è possibile sfruttare la solidarietà espressa nei confronti dell’Ucraina di fronte alla guerra per legittimare con la forza condizioni specifiche per il Paese:
L’UE deve ammettere l’Ucraina a condizioni che garantiscano la possibilità di una ricostruzione sociale ed egualitaria e non creino ostacoli ad essa (…) Il diritto europeo della concorrenza e la restrizione radicale delle politiche protezionistiche creano grandi ostacoli ad una ricostruzione sociale e progressista dell’Ucraina. Pertanto, per l’Ucraina dovrebbero essere previste eccezioni a queste leggi. Non sarebbe il primo caso di questo tipo. Paesi come la Danimarca hanno addirittura aderito all’Unione con condizioni speciali che hanno creato eccezioni ad altre leggi.
Inoltre, sottolinea che le politiche neoliberali sono state promosse in Ucraina anche senza l’adesione all’UE, soprattutto nel quadro del “Partenariato orientale”. L’adesione conferirebbe almeno dei diritti e non sarebbe peggiore della periferizzazione assoluta senza diritti.
Inoltre, afferma, per il popolo ucraino:
L’adesione all’UE ha una grande importanza simbolica: è il principale obiettivo di politica estera del paese dal 2014. Opporsi sarebbe molto impopolare e richiederebbe chiare alternative equivalenti che attualmente non esistono.
Ritiene che i diritti europei siano per certi versi più progressisti di quelli ucraini e che quindi l’integrazione nell’UE favorisca la lotta per il progresso sociale. Ancora più importante,
L’integrazione può facilitare il collegamento in rete di organizzazioni locali come Sotsialnyi Rukh con altri attori di sinistra e favorire lo sviluppo di relazioni a lungo termine, che a loro volta possono garantire che l’attenzione ai problemi dell’Ucraina non rimanga legata agli eventi della crisi.
In effetti, è proprio questo che la sinistra europea dovrebbe costruire: legami euro-europei con i paesi dell’Europa orientale e dei Balcani, per lottare a favore di diritti e obiettivi comuni. E per una revisione delle condizioni di adesione. Per questo, è necessario mettere in discussione i trattati esistenti, le loro modifiche in corso (senza un processo costituente) e le politiche attuate di fronte alle grandi crisi intrecciate: ambientale, finanziaria (dal 2008 – quali trasformazioni e fragilità bancarie) e politica (effetti della guerra in corso).
Gli aiuti all’Ucraina non implicano la militarizzazione dei bilanci: le politiche di bilancio e militari di ogni paese devono essere soggette al controllo delle società.
È essenziale essere in grado di difendere una politica di solidarietà con la resistenza (armata e non armata) dell’Ucraina contro un’aggressione neocoloniale assassina e di mantenere un giudizio indipendente e critico sulle politiche dei nostri governi. Ho citato esplicitamente la piattaforma della Rete europea di solidarietà Ucraina (ESN/ENSU). Ripeto gli ultimi punti:
- Per il disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
- Per lo smantellamento dei blocchi militari.
- Che tutti gli aiuti all’Ucraina siano liberi dal controllo del FMI/UE e dalle condizioni di austerità.
- Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto, che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.
Ma per lottare per questi obiettivi è necessario abbandonare un approccio generico ed essenzialista alla NATO e agli aiuti, e distinguere tra le varie questioni che devono essere discusse per costruire un’iniziativa globale per una pace giusta e duratura:
- La NATO avrebbe dovuto essere sciolta con il Patto di Varsavia nel 1991. Il suo mantenimento e l’evoluzione delle sue funzioni (da alleanza difensiva ad alleanza offensiva che interviene ovunque) non sono stati processi trasparenti o democratici. La valutazione dei suoi interventi deve essere fatta in ogni paese coinvolto. Ma lo stesso vale per tutti i patti militari: bisogna opporsi alla logica della spartizione delle sfere di influenza basata su patti permanenti che mascherano malamente rapporti di dominio.
- Tutti gli eserciti devono essere restituiti al loro territorio di origine e posti sotto il controllo dei paesi interessati. Questo aprirebbe un processo concreto di smilitarizzazione e un’analisi caso per caso degli aiuti militari per cause considerate giuste. In questo quadro, le forze armate di un paese possono anche partecipare, in base a un accordo internazionale, ad azioni di mantenimento della pace al di fuori del proprio territorio, sotto il controllo delle Nazioni Unite o dei paesi interessati.
- La guerra in Ucraina è stata lanciata dalla Russia. Gli aiuti all’Ucraina non trasformano la guerra in una guerra inter-imperialista. Gli aiuti alla difesa dell’Ucraina sono legittimi e devono rimanere sotto il controllo del popolo ucraino e del suo giudizio sui termini del negoziato.
- Ogni popolazione in ogni paese dovrebbe essere in grado di controllare quali bilanci vengono effettivamente spesi per l’Ucraina e per altri obiettivi e conflitti: un movimento globale progressista contro la guerra non può equiparare la guerra di aggressione di un paese dominante con la guerra difensiva di un paese attaccato. La lotta giusta – con le armi in pugno contro l’aggressione armata – deve essere difesa, riconoscendo anche l’obiezione di coscienza e la possibile opzione della resistenza non violenta. Questa opzione appartiene alle persone e ai popoli sotto attacco.
La ricostituzione di uno stato e di un regime autocratico in Russia, con dimensioni militari e di interventismo imperiale, pone evidenti problemi di sicurezza per i paesi vicini alla Russia e per le popolazioni della federazione suscettibili di ribellarsi alle relazioni di dominio. Questo è il caso della Cecenia. Il fatto che i paesi interessati percepiscano la NATO (a torto o a ragione) come un quadro protettivo rende impossibile per la sinistra mobilitarsi per lo scioglimento della NATO finché la minaccia della Russia continuerà. Ma questo non significa che non sia necessario criticare i piani della NATO e l’espansione dei suoi bilanci.
Dalle sanzioni contro il regime di Putin alle politiche ambientali dell’UE
L’emergenza climatica e la solidarietà contro questa guerra devono essere combinate con la nostra critica all’UE: il regime di Putin alimenta le sue politiche aggressive con i proventi dei combustibili fossili. Le sanzioni contro le importazioni russe devono allo stesso tempo accelerare il processo di transizione energetica e quindi respingere ovviamente l’aumento della produzione di combustibili fossili altrove e in particolare la diffusione della produzione e della distribuzione di gas naturale liquefatto.
Allo stesso tempo, questa politica richiede la tutela dei diritti sociali e dell’occupazione, il che implica un vasto progetto paneuropeo di pianificazione della conversione e di investimento nelle energie rinnovabili. Questo potrebbe rivolgersi alle popolazioni di tutti i paesi europei, compresa la Russia, a condizione che la guerra cessi.
Utopia? Trasformiamola in un’utopia concreta – e “se non ci lasciano sognare, restiamo svegli”…
Ucraina, di quale pace stiamo parlando?
Intervista di
Stephen R. Shalom (“New Politics”) a Gilbert Achcar
New Politics: Gilbert, il 30 novembre hai pubblicato un breve articolo intitolato “Per una posizione democratica contro la guerra sull’invasione dell’Ucraina” (qui in inglese). Inizi l’articolo distinguendo due posizioni comuni alla sinistra riguardo all’Ucraina. Una di queste posizioni si oppone alle forniture di armi da parte dei paesi della NATO all’Ucraina, sostenendo che come movimento pacifista dovremmo chiedere la diplomazia e la de-escalation piuttosto che le spedizioni di armi. Potresti spiegare cosa trovi di sbagliato in questa posizione?
NP: Tu affermi che chi crede nel diritto di autodifesa in una guerra giusta non può opporsi alla consegna di armi “difensive” alle vittime di aggressioni e invasioni. Cosa intendi con il termine “difensivo”? L’artiglieria rientra in questa definizione? Cosa è escluso?
NP: Nel tuo articolo del 30 novembre hai criticato non solo coloro che chiedono un cessate il fuoco incondizionato, ma anche coloro che “pongono la barra della pace troppo in alto”. Puoi descrivere questo punto di vista e cosa ci trovi di sbagliato?
- Cessate il fuoco con il ritiro delle truppe russe sulle posizioni del 23 febbraio 2022.
- Riaffermazione del principio dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza.
- Negoziati sotto l’egida dell’ONU per una soluzione pacifica e duratura basata sul diritto dei popoli all’autodeterminazione: dispiegamento di caschi blu in tutti i territori contesi, sia nel Donbas che in Crimea, e organizzazione da parte dell’ONU di referendum liberi e democratici che includano il voto dei rifugiati e degli sfollati di questi territori.
NP: Il tuo terzo punto si basa sulle Nazioni Unite. Ma dato il potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza, non staresti di fatto permettendo a Mosca di fare la sua strada nelle aree contese?
NP: Nel tuo articolo del 30 novembre affermi che il movimento contro la guerra dovrebbe cercare di fare pressione sulla Cina per un sostegno alla conclusione positiva della guerra. Come si potrebbe esercitare questa pressione e perché pensi che la Cina potrebbe giocare un ruolo del genere?