Lenin e la questione nazionale

Autodeterminazione, secessione e federalismo

di Jaime Pastor, da Viento Sur

  1. Dalla Seconda Internazionale alla lotta contro la minaccia della guerra
  2. Dalla Grande Guerra alla Rivoluzione russa del 1917
  3. Dalla Rivoluzione russa alla fondazione dell’URSS
  4. Alcune conclusioni

1. Dalla Seconda Internazionale alla lotta contro la minaccia della guerra

Ovviamente, partiamo dal fatto che Lenin affronta la questione nel quadro generale stabilito dalle riflessioni di Marx ed Engels su di essa, nonché dai vivaci dibattiti che si svolgono nella Seconda Internazionale e, in particolare, da frasi che diventano riferimenti di principio, come quelle di Engels nel 1847 (“una nazione non può conquistare la propria libertà se continua a opprimere gli altri”) e, soprattutto, nel 1882 quando sosteneva che “il proletariato trionfante non può imporre alcuna felicità a nessun altro popolo senza minare con questo atto la propria vittoria”

Una visione inizialmente evoluzionista della storia – che confida nel progressivo superamento degli antagonismi nazionali man mano che si procede verso il socialismo, come sostengono nel Manifesto comunista – accompagnata da un’aperta difesa del diritto all’indipendenza della Polonia e dell’Irlanda, e che si apre gradualmente a una concezione multilineare della storia man mano che si manifesta un crescente interesse per lo studio delle società non occidentali.

La loro posizione sui conflitti come quelli in Polonia e in Irlanda influenzerà i dibattiti della Seconda Internazionale e troverà espressione nel consenso raggiunto al Congresso di Londra del 1896, in cui si dichiara che l’Internazionale “è a favore del completo diritto di autodeterminazione di tutte le nazioni ed esprime la sua solidarietà con i lavoratori di ogni paese che ora soffre sotto il giogo dell’assolutismo militare, nazionale o di altro tipo”. Tuttavia, si tratta di una risoluzione adottata “in mezzo alla totale incomprensione e indifferenza”.

Questa è anche la posizione che verrà mantenuta all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR) al suo secondo congresso del 1903 (che all’articolo 9 difende il “diritto all’autodeterminazione di tutte le nazioni, comprese quelle ai confini dello stato”). Lenin assume chiaramente questo orientamento, come si evince dal suo articolo “Il problema nazionale nel nostro programma”, pubblicato il 15 luglio 1903): in esso difende il diritto all’autodeterminazione, inteso come diritto alla separazione, senza però essere favorevole a che il suo partito difenda questa opzione e precisando, in una polemica con i dirigenti del PS polacco, che “solo in casi isolati e in via eccezionale” si dovrebbe sostenere la separazione; non è neppure favorevole alla federazione, se non anch’essa in casi isolati, a differenza di Kautsky, poiché era favorevole a uno stato centralizzato “non imperialista”. È inoltre favorevole al centralismo democratico all’interno del partito, in contrapposizione alle proposte federali dei socialdemocratici della periferia dell’Impero zarista o all’autonomia del Bund.

2. Dalla Grande Guerra alla Rivoluzione russa del 1917

È soprattutto a partire dal 1913 che Lenin affronta la questione in modo più approfondito, considerando che è chiaro che siamo entrati in una fase storica diversa da quella che Marx ed Engels avevano conosciuto e che la distinzione tra “nazioni con storia” e “senza storia” non ha più senso. Egli sostiene che dobbiamo difendere l’uguaglianza dei diritti delle nazioni e quindi anche i diritti delle minoranze nazionali all’interno degli stati esistenti, senza rassegnarci ad accettare i loro confini come un dato di fatto.

Così, in “La classe operaia e la questione nazionale”, nel maggio 1913, Lenin (1984a: 157-158) sostiene che:

Ai nostri giorni, solo il proletariato rappresenta la vera libertà delle nazioni e l’unità dei lavoratori di tutte le nazioni. Affinché le diverse nazioni possano vivere insieme o separarsi (quando è meglio per loro) liberamente e pacificamente, formando diversi stati, è necessaria la piena democrazia, difesa dalla classe operaia. Non un solo privilegio per nessuna nazione, per nessuna lingua! Non la minima umiliazione, non la minima ingiustizia per nessuna minoranza nazionale! Questi sono i principi della democrazia operaia.

Queste riflessioni appaiono in modo più sistematico nell’articolo “Note critiche sul problema nazionale”, scritto tra l’ottobre e il dicembre 1913. In esso presenta la Svizzera come esempio di rispetto e pratica del plurilinguismo, ribadendo al contempo la difesa del diritto all’autodeterminazione, inteso come diritto alla separazione e non al federalismo o al decentramento, poiché riafferma la necessità di uno stato basato sul centralismo democratico. In questo articolo polemizza anche con il Bund, rifiutando l’idea di una “cultura nazionale” ebraica e, in contrasto con Otto Bauer, di una “autonomia nazional-culturale” come opzione da rivendicare, pur riconoscendo che “la nazione ebraica” è “la più oppressa e perseguitata”.

Sempre nello stesso anno, mostra il crescente interesse che aveva manifestato dopo l’impatto della rivoluzione russa del 1905 sui popoli dell’Est, come dimostra nel suo articolo “Il risveglio dell’Asia”. In esso sostiene che: “Dopo il movimento russo del 1905, la rivoluzione democratica si è diffusa in tutta l’Asia, in Turchia, Persia e Cina. L’agitazione sta aumentando nell’India inglese (…) e nell’India olandese”.

Più tardi, nell’articolo “Il diritto delle nazioni all’autodeterminazione” del febbraio-maggio 1914, polemizza con Rosa Luxemburg, insistendo sulla difesa del diritto all’autodeterminazione come diritto alla separazione e alla “formazione di uno stato nazionale indipendente”, pur chiarendo che il proletariato subordina le rivendicazioni nazionali agli interessi della lotta di classe. Ciò implica la necessità di una tattica differenziata nei confronti della borghesia della nazione oppressa:

Nella misura in cui la borghesia di una nazione oppressa combatte contro l’oppressore, noi siamo in ogni caso e più risolutamente di chiunque altro a favore di essa, poiché siamo i nemici più impavidi e coerenti dell’oppressione. Se la borghesia della nazione oppressa è a favore del suo nazionalismo borghese, noi siamo contro. Lotta contro i privilegi e la violenza della nazione oppressore e nessuna tolleranza per la ricerca di privilegi da parte della nazione oppressa.

Inoltre, in contrasto con l’opinione della rivoluzionaria polacca, Lenin considera legittimo il sostegno del movimento operaio svedese all’indipendenza della Norvegia, ottenuta con un referendum nel 1905, basandosi sulla posizione di Marx sulle questioni polacca e irlandese, pur continuando a sostenere “la fusione dei lavoratori di tutte le nazioni”.

Queste considerazioni si riflettevano all’interno dell’impero zarista e, in particolare, nella crisi iniziata nel contesto della Grande Guerra Interimperialista. In questo contesto, vale la pena di notare l’interesse di Lenin per le relazioni russo-ucraine, come emerge dal discorso tenuto a Zurigo il 27 ottobre 1914. In esso sostiene che “ciò che l’Irlanda è stata per l’Inghilterra, l’Ucraina è diventata per la Russia, sfruttata all’estremo, senza ricevere nulla in cambio. Pertanto, sia gli interessi del proletariato internazionale in generale che quelli del proletariato russo in particolare esigono che l’Ucraina riacquisti la propria indipendenza statale, che sola le permetterà di raggiungere lo sviluppo culturale indispensabile al proletariato”.

Così, riprendendo la denuncia dell’Impero russo come “prigione dei popoli”, in “Socialismo e guerra”, scritto nel luglio e nell’agosto del 1915, caratterizza lo zarismo come un “imperialismo militare e feudale”, arrivando a sostenere che: “In nessuna parte del mondo la maggioranza della popolazione è così oppressa come in Russia”. Per questo motivo, la difesa del diritto all’autodeterminazione, cioè alla separazione, appare come un compito ineludibile dei partiti socialdemocratici dei paesi oppressori, anche se inserito sulla strada della “formazione più libera, più audace e quindi più ampia e più estesa di grandi stati e federazioni di stati, più vantaggiosi per le masse e più consoni allo sviluppo economico”.

Anche nell’articolo “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione”, gennaio-febbraio 1916, sempre di fronte a Rosa Luxemburg, considera la Norvegia come un esempio che il diritto all’autodeterminazione sotto il capitalismo è “realizzabile” senza dover aspettare la conquista del socialismo. Inoltre, presenta la stessa esperienza di difesa della “piena libertà di agitazione per la separazione e perché questa sia decisa da un referendum della nazione che desidera secedere”, pur essendo contrario a questa opzione, perché:

Quanto più il regime democratico dello stato si avvicina alla piena libertà di separazione, tanto più deboli saranno in pratica le aspirazioni al separatismo, perché i vantaggi dei grandi stati, sia dal punto di vista del progresso economico che da quello degli interessi delle masse, sono indiscutibili, con la particolarità che questi vantaggi crescono costantemente senza venir meno se non c’è più il capitalismo.

Allo stesso modo, nello stesso articolo, non esclude di difendere il diritto all’autodeterminazione anche quando questa rivendicazione può essere sfruttata da un’altra “grande” potenza:

La circostanza che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista possa essere sfruttata, a certe condizioni, da un’altra “grande” potenza per raggiungere fini altrettanto imperialisti non può costringere la socialdemocrazia a rinunciare a riconoscere il diritto delle nazioni all’autodeterminazione, così come i ripetuti casi di utilizzo di slogan repubblicani da parte della borghesia a fini di frode politica e saccheggio finanziario (ad esempio, nei paesi latini) non possono costringere i socialdemocratici a rinunciare al loro repubblicanesimo.

È sempre in questo articolo che sviluppa la distinzione tra tre grandi gruppi di stati e paesi:

  1. quelli avanzati dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti (dove ognuna di “queste ‘grandi’ nazioni opprime altre nazioni nelle colonie e all’interno del paese”); 
  2. l’Europa dell’Est (dove questi legittimi movimenti nazionali si stanno formando in contesti di declino imperiale); 
  3. i semicoloniali e tutte le colonie (dove i movimenti anticoloniali si formeranno gradualmente e devono essere sostenuti). Una differenziazione che ribadisce, sempre in polemica soprattutto con Rosa Luxemburg, in “Sulla tendenza nascente dell’economicismo imperialistico”, scritto tra l’agosto e l’ottobre 1916.

Rosa Luxemburg, invece, sostiene in “La questione nazionale e l’autonomia”, scritto nel 1908, che l’ingresso nella fase imperialista comporta “lo sviluppo verso il Grande Stato”, condannando così tutte le mini e micro-nazionalità alla debolezza politica. Pertanto, secondo lei, è illusorio chiedere la loro autodeterminazione, poiché non hanno alcuna possibilità di esercitarla nei confronti degli stati imperialisti. Questa tesi è condivisa da Karl Radek, Bukharin, Görter e altri marxisti radicali (compreso Trotsky, che mantiene una posizione ambigua). Questa posizione è contrastata da Lenin, che critica la loro confusione del “problema dell’autodeterminazione politica delle nazioni nella società borghese, della loro indipendenza statale, con quello della loro autodeterminazione e indipendenza economica”. La rivoluzionaria polacca, al contrario, ritiene che il compito centrale sia quello di mettere in primo piano le lotte di classe, anticoloniali e antimperialiste. Sulla base di questa posizione e della sua analisi critica del movimento nazionalista polacco, Rosa Luxemburg respinge fermamente non solo la difesa del diritto all’autodeterminazione della Polonia, ma anche la posizione dei socialdemocratici russi nella loro risoluzione del 1903.

Nonostante le sue riserve, la socialdemocratica polacca non nega la necessità che i lavoratori difendano “gli obiettivi democratici e culturali del movimento nazionale, cioè la creazione di istituzioni politiche che garantiscano, con mezzi pacifici, il libero sviluppo della cultura di tutte le nazionalità che vivono insieme nello stesso Stato”. In seguito, però, sostenne i popoli balcanici contro l’Impero turco, che considerava senza futuro, e nel 1915 arrivò a difendere il diritto all’autodeterminazione, pur non ritenendolo praticabile nel quadro dello stato capitalista. In breve, si potrebbe concludere che la rivoluzionaria polacca cadde in una concezione economicistica del problema nazionale, non riuscendo a capire che “la liberazione nazionale dei popoli oppressi era anche una richiesta di tutte le masse popolari, compreso il proletariato”.

Al contrario, abbiamo visto che Lenin, nei suoi articoli successivi, ribadisce la sua difesa del diritto all’autodeterminazione, cioè alla separazione. Egli traccia una chiara distinzione tra nazioni che opprimono e nazioni oppresse, e tra i diversi compiti dei socialdemocratici nelle prime e nelle seconde: mentre nelle prime l’accento dovrebbe essere posto sul diritto alla separazione, nelle seconde dovrebbe essere posto sull’impegno per la libera unione, anche se dovrebbe essere sempre analizzata caso per caso.

Sempre in discussione con la maggioranza di coloro che hanno addirittura rotto con la Seconda Internazionale, come ricorda Kevin B. Anderson, Lenin insisterà sull’importanza strategica dei movimenti nazionali antimperialisti. La classificazione di Lenin dei tre gruppi di paesi deriva proprio dall’analisi più ampia e approfondita che egli sviluppa in “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, scritto tra il gennaio e il giugno del 1916; cosa che lo porta, in contrapposizione a posizioni come quella di Kautsky (che ignora la denuncia dell’annessione dell’Alsazia-Lorena da parte della Germania), a sottolineare la rilevanza della questione nazionale e coloniale, come si può notare quando sostiene che:

L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che ovunque portano con sé la tendenza al dominio o alla libertà. Il risultato di questa tendenza è la reazione su tutti i fronti, a prescindere dal regime politico, e l’esacerbazione estrema delle contraddizioni anche in questa sfera. In particolare, si intensifica l’oppressione nazionale e la tendenza alle annessioni, cioè alla violazione dell’indipendenza nazionale (poiché l’annessione non è altro che la violazione del diritto delle nazioni all’autodeterminazione).

Un altro importante passo successivo si trova nell’articolo “Risultati della discussione sull’autodecisione”, scritto nel luglio 1916. In esso, come annuncia il titolo stesso, fa il punto sui dibattiti degli anni precedenti, insiste sui casi della Norvegia e dell’Alsazia (contro la loro annessione) e confuta le argomentazioni di coloro che si limitano a difendere il diritto all’autodeterminazione solo per le colonie. Inoltre, pone particolare enfasi sul suo forte sostegno all’insurrezione pasquale irlandese del 1916 contro coloro che al suo interno, come Karl Radek, la criticano come un semplice “putsch” di un “movimento nazionalista puramente urbano e piccolo-borghese”. Per Lenin, invece, questa insurrezione popolare diventa un chiaro esempio di ciò che aveva già sottolineato nel suo lavoro sulle conseguenze della crisi imperialista nel contesto della Grande Guerra, poiché “dimostra che le fiamme delle insurrezioni nazionali a causa della crisi dell’imperialismo si sono accese sia nelle colonie che in Europa, che le simpatie e le antipatie nazionali si sono manifestate, nonostante le minacce draconiane e le misure repressive”.

Sempre nel luglio 1916, il leader bolscevico scrisse “Sull’opuscolo di Junius”, riferendosi al testo pubblicato da Rosa Luxemburg nello stesso anno, “La crisi della socialdemocrazia” (1978), che firmò con lo pseudonimo di Junius. Nel suo commento si possono osservare ancora una volta visioni diverse del futuro delle guerre di liberazione nazionale. Così, dopo aver elogiato quest’opera come “un eccellente lavoro marxista, ed è del tutto possibile che i suoi difetti siano, in una certa misura, accidentali”, prosegue sottolineando che “il difetto principale (…) è che tace il legame tra social-chauvinismo (…) e opportunismo”. Ritiene che “estendere la valutazione della guerra attuale [si riferisce alla Grande Guerra iniziata nel 1914] a tutte le possibili guerre sotto l’imperialismo” significherebbe “dimenticare i movimenti nazionali contro l’imperialismo”

Contro questa posizione, quindi, sostiene che “le guerre nazionali da parte delle colonie e delle semicolonie non sono solo probabili, ma inevitabili”, ma che “anche in Europa, le guerre di liberazione nazionale nell’epoca dell’imperialismo non possono essere considerate impossibili”. Queste ultime, insiste, non solo sono inevitabili, ma anche “progressive, rivoluzionarie”, anche se il loro successo dipenderà da vari fattori, tra cui “la coniugazione particolarmente favorevole dei fattori che caratterizzano la situazione internazionale”.

Ancora una volta, dietro questa controversia, si possono scorgere concezioni diverse delle conseguenze dell’ingresso nella nuova fase imperialista e della Grande Guerra, che implicano differenze sulla questione nazionale e sulla collocazione della rivendicazione del diritto all’autodeterminazione, nonché sulle tattiche che ne possono derivare, non tanto nelle colonie, di cui il rivoluzionario polacco sostiene le lotte, come riconosce Lenin, ma anche in Europa. Gli sviluppi futuri, a nostro avviso, daranno ragione al leader bolscevico.

3. Dalla Rivoluzione russa alla fondazione dell’URSS

La linea argomentativa sviluppata da Lenin contribuì a gettare le basi della posizione che il Congresso del Partito bolscevico adottò nel pieno del processo rivoluzionario del maggio 1917, in un momento in cui anche i vari popoli dell’Impero russo si mobilitavano per i loro diritti nazionali:

Il diritto di tutte le nazioni costituenti la Russia di secedere liberamente e di formare stati indipendenti deve essere riconosciuto. La negazione di questo diritto e la mancata adozione di misure per garantirne l’esercizio equivalgono al sostegno della politica di conquista o di annessione.

Prima della sua adozione, nel suo “Discorso sulla questione nazionale”, polemizzando con i compagni del suo stesso partito, il leader bolscevico dichiarò davanti a quel Congresso:

Se la Finlandia, la Polonia o l’Ucraina si staccano dalla Russia, non c’è nulla di male. Che male può esserci? Chiunque lo dica è uno sciovinista. Bisogna aver perso il senno per continuare la politica dello zar Nicola. La Norvegia non si è forse separata dalla Svezia?

In particolare, nel caso dell’Ucraina, nel giugno dello stesso anno si chiede se non sarebbe meglio per i lavoratori dell’Ucraina optare per la separazione del loro paese e poi unirsi alla Russia nel quadro di una federazione socialista. Una posizione che riaffermerà in seguito, nel marzo 1922, quando si dichiarerà favorevole ad accettare l’opzione di un’Ucraina indipendente se il Congresso dei Soviet di quel paese lo decidesse.

Tutto ciò non impedì a Lenin di rimanere fortemente critico nei confronti di tutti i tipi di nazionalismo e persino di concetti come la cultura nazionale, ma allo stesso tempo si espresse contro le politiche assimilazioniste del nazionalismo grande-russo su questioni come la lingua, utilizzando ancora una volta la Svizzera come esempio di soluzione democratica. Egli postula quindi il rifiuto dei privilegi di qualsiasi nazione a scapito di altre, pur lottando sempre per inserire queste istanze democratiche all’interno di un progetto socialista dominato dalla classe operaia.

La Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia del novembre 1917 sottende quindi la ricerca di un’alleanza con i movimenti di liberazione nazionale, stabilendo principi molto chiari su questa questione:

  1. Uguaglianza e sovranità dei popoli della Russia; 
  2. Diritto dei popoli della Russia alla libera autodeterminazione, senza escludere la separazione e la costituzione di uno stato indipendente; 
  3. Abolizione di ogni tipo di privilegio e limitazione nazionale e nazional-religiosa;
  4. Libero sviluppo delle minoranze nazionali e dei gruppi etnici che popolano il territorio della Russia.

Rosa Luxemburg (1978) criticò nuovamente questa posizione, sostenendo che invece di questa richiesta, che avrebbe contribuito alla “disintegrazione dello stato russo”, avrebbero dovuto riconoscere l’Assemblea Costituente, pur dissentendo dalla politica agraria adottata dai bolscevichi. Ciò riflette le loro profonde divergenze non solo sulla questione nazionale, ma anche sulle loro idee sulla democrazia e sulla politica di alleanze con i movimenti di liberazione nazionale e con i contadini che, secondo lei, i bolscevichi russi dovrebbero perseguire.

Il dibattito sul diritto all’autodeterminazione continuò anche all’interno del bolscevismo. Lo dimostra il Congresso del Partito del 1919, dove Lenin polemizza apertamente con Bukharin, che oppone questo diritto a quello di “autodeterminazione dei lavoratori”. Lenin risponde in questi termini:

Il nostro programma non deve parlare di autodeterminazione dei lavoratori, perché è sbagliato. Deve dire le cose come stanno. Poiché le nazioni si trovano in fasi diverse del cammino dal regime medievale alla democrazia borghese, e dalla democrazia borghese alla democrazia proletaria, questa tesi del nostro programma è assolutamente esatta. Su questa strada abbiamo avuto numerosi zigzag. Ogni nazione deve avere il diritto all’autodeterminazione e questo contribuisce all’autodeterminazione dei lavoratori.

È noto che in quegli anni di accerchiamento imperialista contro la Russia l’interesse del bolscevismo era incentrato sulla speranza di un’estensione della rivoluzione ad altri paesi europei, e in particolare alla Germania. Ma non ignoravano la nuova ondata di mobilitazione che si annunciava nella periferia orientale della Russia. È quanto afferma Lenin nel suo “Rapporto al Congresso delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Est”, tenutosi nel novembre e dicembre 1919, insistendo sulla necessità di “estirpare tutte le vestigia dell’imperialismo grande-russo per combattere senza riserve contro l’imperialismo mondiale”, come fece nel novembre 1919 rivolgendosi ai comunisti del Turkestan.

Questo orientamento si riflette anche nel suo “Schema iniziale delle tesi sul problema nazionale e coloniale” del luglio 1920 e nelle Tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale comunista, sempre del luglio 1920. Tuttavia, in esse Lenin difende la federazione come via auspicabile sulla strada dell’unità dei vari popoli che si sono liberati dall’Impero zarista.

Nel suo “Rapporto della Commissione sui problemi nazionali e coloniali” per il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, tenutosi nel settembre 1920, il leader bolscevico ribadisce l’importanza che stanno acquisendo i movimenti di liberazione nei paesi “arretrati”, pur preservando l’indipendenza politica dei comunisti e sostenendo apertamente l’ipotesi che i popoli di questi paesi non debbano necessariamente passare attraverso la fase capitalista.

Proprio nel settembre 1920 si riunì a Baku il Primo Congresso dei Popoli dell’Est. In quell’occasione si svolsero vivaci discussioni tra i dirigenti dell’Internazionale Comunista e altri esponenti delle organizzazioni comuniste dell’Est su, tra le altre questioni, il ruolo della lotta di questi popoli all’interno di una strategia rivoluzionaria mondiale, nonché le relazioni con il panislamismo. Queste discussioni sarebbero proseguite nei congressi successivi, in particolare al IV Congresso dell’Internazionale comunista (novembre 1922), sul fronte unito antimperialista e sulle relazioni con le borghesie dei paesi coloniali, nonché sulla “questione nera” in America e sul suo ruolo nella lotta per l’emancipazione dei popoli africani. Ma una trattazione specifica di questi dibattiti esula dagli scopi di questo articolo.

Tuttavia, l’applicazione dei principi stabiliti sotto il nuovo regime fu presto influenzata da vari conflitti – in particolare quelli in Georgia e in Polonia – che portarono alla luce, già in modo violento, il peso del nazionalismo grande-russo all’interno del nuovo regime – e all’interno del “Partito”. Così, a partire dal 1920, cominciò a prevalere la tendenza a sostituire il “diritto alla separazione” con il “diritto all’unione”.

In effetti, le tensioni interne al bolscevismo si aggraveranno, ad esempio, quando nel settembre 1922 i comunisti georgiani si opporranno alla creazione artificiale di una Repubblica Socialista Sovietica Transcaucasica, formata dall’unione di Azerbaigian, Armenia e Georgia, e difenderanno l’indipendenza del loro paese. Fu a questi che Lenin, tenuto all’oscuro fino alla fine del 1922, manifestò il suo sostegno, e fu allora che Stalin, profondamente contrariato, arrivò a definire la posizione di Lenin “liberalismo nazionale” mentre quest’ultimo a sua volta dichiarò “guerra di vita e di morte” contro lo “sciovinismo della Grande Russia” che vedeva rappresentato da Stalin.

Questo confronto tra le due posizioni si riflette chiaramente nello scritto “Sulla questione delle nazionalità o della autonomizzazione”, scritto da Lenin il 30 e 31 dicembre 1922. In esso critica l’“acredine” di [Stalin] contro il “social-nazionalismo decantato”, accusandolo proprio di questo e sostenendo che il ruolo dell’internazionalismo della cosiddetta “grande” nazione deve essere quello di compensare la disuguaglianza reale. Lenin compie poi un nuovo passo avanti verso un approccio praticamente confederale:

L’internazionalismo della nazione che opprime, o della cosiddetta grande nazione (anche se è grande solo per la sua violenza, grande come uno sbirro), deve consistere non solo nell’osservare l’uguaglianza formale delle nazioni, ma anche quella disuguaglianza che, da parte della nazione che opprime, della grande nazione, compensa la disuguaglianza che si verifica nella vita (…). In quarto luogo, nelle repubbliche di popolazione allogena che fanno parte dell’Unione devono essere introdotte le regole più severe sull’uso della lingua nazionale e la loro osservanza deve essere controllata con particolare zelo (…). A questo proposito, non dobbiamo assolutamente avere il preconcetto che come risultato di tutto questo lavoro non faremo passi indietro al prossimo Congresso dei Soviet, cioè che manterremo l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche solo sotto l’aspetto militare e diplomatico, ripristinando in tutti gli altri aspetti la completa autonomia dei singoli Commissariati del Popolo.

Una proposta che, nello stesso articolo, si accompagna a una rinnovata speranza per la lotta dei popoli oppressi contro l’imperialismo che si sta diffondendo in Oriente. ma esprimendo il timore che “il prestigio che abbiamo in essa” venga minato “se non altro con la minima durezza e ingiustizia verso le nostre stesse nazioni aliene”. Concludeva con un ulteriore monito ai compagni affinché evitassero “atteggiamenti imperialisti nei confronti delle nazioni oppresse”.

Come è noto, la salute di Lenin si deteriorò nei mesi successivi, ma nonostante ciò non smise di manifestare il suo disagio per la politica delle nazionalità di Stalin, cercando il sostegno di Trotsky, come ricorda Moshe Lewin:

Nel frattempo, come richiesto da [Lenin], il 6 marzo 1923 Trotsky redasse un forte memorandum per il Politburo, in cui dichiarava la necessità di respingere con decisione e implacabilmente le tendenze ultrastataliste e criticava le tesi di Stalin sulla questione nazionale. Insisteva sul fatto che una parte importante della burocrazia centrale sovietica vedeva la creazione dell’URSS come un modo per iniziare a eliminare tutte le entità politiche nazionali e autonome (stati, organizzazioni, regioni…), e che questo doveva essere combattuto come se fosse l’espressione di un atteggiamento imperialista e antiproletario. Il partito doveva essere avvertito che, sotto l’ombrello dei cosiddetti “commissariati unificati”, gli interessi economici e culturali delle repubbliche nazionali venivano trascurati.

Tuttavia, Trotsky perse l’occasione di presentare il suo memorandum critico al XII Congresso del Partito in aprile, anche se, come ricorda Lewin, “sappiamo che si lanciò subito in una feroce opposizione a Stalin (…). La malattia o l’estrema stanchezza giocarono un ruolo in questo clamoroso fallimento della percezione politica di Trotsky, che si sarebbe ripetuto in seguito? È una possibilità”. In quel Congresso si udirono voci critiche, come quelle di Skrypnik, Rakovski e Mirsaïd Sultán-Galíev.

In seguito, la Costituzione adottata nel 1924, al capitolo 4, articolo 5, riconosceva formalmente alle Repubbliche dell’Unione il “diritto di secedere liberamente dall’Unione”, ma il futuro sarebbe stato diverso. Stalin finirà per negare il diritto di secessione e metterà in pratica in URSS un progetto basato sull’egemonia del nazionalismo grande-russo sotto il centralismo burocratico statale. Un progetto che avrebbe raggiunto il suo apogeo durante la Grande Guerra Patriottica contro il nazismo, ma che, tuttavia, non avrebbe raggiunto l’obiettivo della formazione di un nuovo homo sovieticus che superasse le differenze nazionali tra i diversi popoli dell’URSS.

4. Alcune conclusioni

Nello studio dell’evoluzione del pensiero politico di Lenin, ritengo che si possano distinguere diverse fasi. Nella prima, Lenin parte dal quadro di riferimento stabilito da Marx ed Engels, nonché dai dibattiti che si sviluppano all’interno della Seconda Internazionale, per assumere che la classe operaia deve affrontare anche il compito di cercare una soluzione democratica alla questione nazionale attraverso il riconoscimento del diritto di autodeterminazione delle nazioni oppresse. Egli intende questo diritto come diritto alla separazione o alla secessione dallo stato di cui le nazioni oppresse fanno parte, rifiutando formule alternative come la federazione o l’autonomia nazional-culturale e sostenendo che i marxisti devono essere, tranne nei casi risultanti da un’analisi concreta di ogni situazione concreta, contrari alla separazione. Egli inserisce questo orientamento all’interno di una strategia basata sulla centralità strategica della classe operaia, sull’internazionalismo proletario e, quindi, sul rifiuto del nazionalismo, ma al tempo stesso sapendo distinguere tra quelli delle nazioni oppressori e quelli delle nazioni oppresse e proponendo compiti diversi per i marxisti in entrambi.

A partire dal 1913, nel pieno delle discussioni all’interno della Seconda Internazionale sulla caratterizzazione della fase imperialista e sull’atteggiamento da tenere di fronte alla Grande Guerra, Lenin ritiene che l’imperialismo esacerberà sempre più le contraddizioni nazionali, distingue tre diversi gruppi di paesi in cui si pone la questione nazionale e coloniale e affronta alcuni casi concreti in Europa occidentale e sotto l’Impero zarista russo, discutendo apertamente con altre posizioni, soprattutto con Rosa Luxemburg. I casi della separazione della Norvegia dalla Svezia nel 1905 e dell’insurrezione irlandese del 1916, così come quelli che si stanno già manifestando in Russia, come in Polonia, Finlandia, Ucraina e Georgia, sono i più significativi in questi dibattiti. A questo proposito, ribadisce la sua difesa del diritto all’autodeterminazione e alla secessione se questi popoli lo desiderano, anche se ritiene che il quadro più auspicabile dal punto di vista delle classi lavoratrici dei paesi oppressi e oppressori sarebbe quello di un federalismo che potremmo definire di libera appartenenza.

Infine, dopo il trionfo della Rivoluzione russa nell’ottobre 1917, fu promossa l’attuazione di questa ideologia, come risulta dalla Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, ma il nuovo regime si trovò ben presto ad affrontare la guerra civile e lo scoppio di vari conflitti nazionali e coloniali all’interno dei suoi confini. Fu allora che entrò in un confronto sempre più aperto con il nazionalismo della Grande Russia che si stava manifestando all’interno del suo stesso partito, guidato da Stalin. Contro questa tendenza a rafforzare lo stato centrale, Lenin, nei suoi ultimi scritti, si pronunciò a favore di un progetto confederale che includesse il diritto di separazione. Il riconoscimento di questo diritto nella Costituzione dell’URSS non poteva però nascondere la sua negazione nella pratica da parte di un regime sempre più centralizzato e burocratizzato. È sempre in questo periodo, anche se lo aveva già sottolineato dopo la rivoluzione russa del 1905, che Lenin sottolinea, già nell’ambito della Terza Internazionale e di fronte alla precoce frustrazione delle aspettative rivoluzionarie in Europa, il ruolo sempre più importante che avrebbero avuto i movimenti di liberazione nazionale dei popoli dell’Est; tuttavia, permane una certa ambiguità nell’uso di termini come “paesi civilizzati” e “paesi arretrati”, anche se già indicava l’ipotesi che questi ultimi non dovessero necessariamente passare attraverso la fase capitalista.

Dopo questa sintetica panoramica, non è difficile comprendere il radicale rifiuto da parte dell’attuale leader russo, Vladimir Putin, dell’eredità delle tesi difese da Lenin sulla questione nazionale (e la sua distorsione di esse, compresa l’affermazione secondo cui sarebbe stato lui a “inventare” la nazione ucraina, come ha ricordato Etienne Balibar nella sessione che abbiamo condiviso alle Giornate Leniniste) e, per contro, la sua rivendicazione del vecchio nazionalismo della Grande Russia, di cui Stalin era il fedele continuatore.

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