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Mimmo Lucano, ora chi restituirà giustizia a Riace?

Mimmo Lucano con il compagno e amico Giuseppe Tiano

di Alessio di Florio, da wordnews.it

La sentenza è stata emessa intorno alle 17. Ma due ore dopo circa sulle principali agenzie stampa di questo paese la notizia è arrivata in ritardo o non arrivata.

Una vergognosa e servile autocensura di cui nessuno chiederà scusa nelle prossime ore, nessuno farà pubblica ammenda e non ci sarà nessuna riflessione pubblica. Tromboni e trombette solo e soltanto per i colletti bianchi, per i reati dell’alta borghesia. Dopo aver riempito milioni di pagine e strombazzato per ore e ore, adesso che la verità comincia finalmente ad emergere zitti e muti, allineati e coperti. Dovrebbero alzarsi grida altissime e chiedere giustizia per una persecuzione politica, mediatica e giudiziaria sconcertante.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria ha emesso sentenza per il processo conseguente all’inchiesta Xenia, l’inchiesta contro il modello di accoglienza e umanità di Riace e il suo sindaco Mimmo Lucano.

Un sindaco trattato peggio di un mafioso, condannato due anni fa in primo grado ad una pena maggiore di quella che la “giustizia” (le virgolette non sono casuali) aveva comminato sempre in primo grado a chi ha trattato con le più schifose ed immonde organizzazioni criminali. Il teorema accusatorio contro Mimì Capatosta e il modello Riace è miseramente crollato, spazzate via quasi tutte le accuse, sicuramente le più gravi.

A Riace non c’era nessuna organizzazione criminale, nessuna associazione a delinquere, nessun bieco calcolo politico. Quelli in questo paese orrendamente sporco, servile, classista, sono altrove. Una pioggia di assoluzioni, Mimmo Lucano condannato solo ad un anno e sei mesi.

In primo grado la condanna fu ad oltre tredici anni, la Procura aveva chiesto in appello condanna ad oltre dieci anni. Non è rimasto quasi nulla, il castello è stato spazzato via. Esattamente come fu spazzato via il modello Riace, sull’onda di un’inchiesta di cui nulla o quasi rimane. E di una propaganda con nessuna aderenza alla realtà. Una propaganda che costrinse Lucano a lasciare la carica di primo cittadino.

Abbiamo visto sui social video strombazzati e diffusi da migliaia, se non milioni, di trombettieri di regime (perché tali sono) in cui erano protagonisti persino personaggi in odor di mafia. Mentre, nel silenzio, furono sollevati dubbi sulla regolarità di determinate elezioni successive.

Chi ricorda più Becky Moses, nel cui nome Lucano commise atti come sindaco? Chi ricorda più gli sfruttati e i morti nei ghetti? Chi ricorda più le vittime di quel ras in tonaca, pluricondannato per reati gravissimi e costretto a fuggire in Moldavia, ma omaggiato da quasi tutto l’arco parlamentare? Due ministri, di partiti diversi ed opposti, lo hanno omaggiato solo l’anno scorso. Ma per lui tutti prostrati, tutti garantisti, tutti elogianti. Per Mimmo Lucano e un modello all’opposto di quella barbarie sono scese giù clave.

Per la seconda volta in pochi mesi, dall’Emilia alla Calabria, le forche della propaganda e della repressione utile a certi network di questo paese sono state smontate. E il paese che accetta ed è connivente con le peggiori fogne eversive, persino fondate da terroristi, vede squarciato il velo sulla sua maschera d’ipocrisia e classismo. È ora di smetterla con le chiacchiere finte e menzognere di certi ambienti politici, sociali, mediatici, economici di questo paese orrendamente sporco.

Il Potere si schiera per il Potere, la persecuzione in questo paese è contro chi non si allinea a questi ambienti, altro che il contrario come anche in questi giorni pupi e pupari, pupazzi e tromboni continuano a blaterare. 

Un giorno, se l’umanità non sarà spazzata via prima dalle sue follie autodistruttive, si vedrà a quest’epoca come qualcuno si ostina ancora a vedere il peggior ventennio della storia d’Italia e d’Europa, come oggi si vedono epoche lontane e buie. E non potranno mai capire come possono essere avanzate le orde dell’ingiustizia e della disumanità, della barbarie e della menzogna.

Palestina e Israele verso una prospettiva devastante

di Fabrizio Burattini


L’esercito israeliano ha organizzato un assedio medievale alla Striscia di Gaza, niente cibo, né carburante, né acqua per i 2 milioni e mezzo di abitanti. Le incursioni dei bombardieri martellano senza tregua il lembo di territorio palestinese e anche il Libano meridionale per impedire anche da quel confine le infiltrazioni di militanti armati. Nel frattempo l’IDF, l’esercito di Israele, sta facendo convergere verso Gaza il grosso del suo potenziale distruttivo nella prospettiva di un’invasione di terra.


Il fallimento dell’apparato israeliano


Si tratta di una “punizione collettiva” in aperta violazione del diritto internazionale. L’assedio e i bombardamenti causeranno la morte di malati e feriti negli ospedali a causa della mancanza di energia elettrica e di rifornimenti, un vero e proprio “crimine di guerra”.


Nel frattempo il governo sionista afferma di aver ripreso totalmente il controllo delle città del Sud attaccate nei giorni scorsi dai militanti di Hamas, che hanno clamorosamente smentito, agli occhi del mondo e soprattutto agli occhi della popolazione israeliana, la tanto decantata onnipotente infallibilità dell’apparato militare e di intelligence sionista, la sua illusione di controllo totale, la sua iper-sorveglianza informatica. 


E’ stato il più significativo fallimento militare e di intelligence di Israele dalla guerra dello Yom Kippur del 1973. Ma, più che un fallimento dell’intelligence, è l’incapacità e la non volontà di comprendere che un popolo non può sopportare stoicamente e passivamente decenni di occupazione.


Le complicità internazionali


Lo schieramento occidentale partecipa attivamente alla “punizione collettiva”: il commissario dell’Unione Europea Oliver Varhelyi ha detto la UE ha già sospeso “tutti i pagamenti” ai palestinesi a causa della “portata del terrore e della brutalità” dell’offensiva di Hamas contro Israele.


In vari paesi d’Europa (Italia compresa), le prese di posizione contro Israele e il suo governo, anche quelle che solo cercano di “contestualizzare” le azioni dei palestinesi nel quadro della ultracinquantennale e brutale occupazione sionista, vengono bollate come “filoterroriste” e a volte danno perfino luogo ad indagini giudiziarie.


L’epiteto di “terrorista” è un comodo espediente propagandistico, da sempre usato da chi opprime contro chi lotta contro l’oppressione: venne usato contro il movimento per la liberazione dell’Algeria dal colonialismo francese, contro i vietnamiti che lottavano contro l’esercito USA di Johnson e di Nixon, contro i curdi che lottavano e lottano per la loro dignità nazionale, contro Nelson Mandela nella sua lotta contro l’apartheid sudafricana.


Lo usava l’impero austro-ungarico contro gli eroi del Risorgimento italiano. Lo usavano i nazifascisti contro i Partigiani. Ed è da sempre usato contro i palestinesi, sia negli anni Settanta, al tempo della loro radicale lotta “laica”, sia oggi nell’epoca dell’egemonia islamista sul movimento nazionale.


Washington ha comunicato che sosterrà il governo di Benjamin Netanyahu in ogni azione che deciderà di intraprendere e Joe Biden ha promesso ad Israele “tutti i mezzi adeguati di sostegno”, una Israele che, secondo il presidente USA, avrebbe tutto il “diritto a difendere se stesso e il suo popolo, punto e basta”. Biden e la UE, dunque, confermano di essere (quali che siano i “colori” dei governi) attivi protagonisti nel sostegno all’oppressione del popolo palestinese.


Una solidarietà che sconfessa la “normalizzazione di Abramo”


Nel mondo arabo ed islamico si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà con Gaza e con il popolo palestinese, sconfessando tutte le operazioni di “normalizzazione” dei rapporti con Israele assunte in questi ultimi anni da numerosi governi, come gli “Accordi di Abraham” stipulati lo scorso anno tra il Bahrein e il governo sionista. 


Per anni, il premier di estrema destra Benjamin Netanyahu ha sostenuto che la pace può essere raggiunta senza parlare con i palestinesi e senza fare loro nessuna concessione. Gli Accordi di Abraham hanno privato i palestinesi di una delle loro ultime carte di scambio e basi di sostegno: la solidarietà dei governi arabi, nonostante questa solidarietà sia stata per anni solo di facciata. L’alta probabilità che a quegli accordi stesse per aderire anche l’Arabia “saudita” potrebbe aver contribuito a spingere Hamas all’azione.


Si sta aprendo, dopo lo scoppio su larga scala della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, un secondo fronte di orrore, una nuova guerra gravida di tutte le sue terribili conseguenze immediate e di tutte le sue ripercussioni future. Gli eventi di questi giorni, così come l’iniziativa di Putin di quasi 20 mesi fa, stanno cambiando per sempre la vita del mondo e di noi tutti.


L’isteria collettiva di Israele


Quanto a Israele, non si tratta solo di Netanyahu e dei suoi partner. Si sta creando un clima di isteria che non ha precedenti in un paese che è da sempre tenuto insieme dal mito sionista di Israele come “luogo di rifugio sicuro per gli ebrei”


Sono sempre più numerosi gli israeliani che affermano che è giunto il momento di sradicare completamente Gaza, invocando in sostanza il genocidio. Persino i media meno guerrafondai, i giornalisti e i politici israeliani più equilibrati invocano massacri a Gaza.


Sui social circolano post di questo tono: “Spianare Gaza”, “Questi sono selvaggi, non persone con cui si può negoziare”, “Stanno uccidendo intere famiglie”, “Non c’è spazio per parlare con costoro”, “Perché ci sono ancora edifici in piedi a Gaza?”, “Gaza va rimandata all’età della pietra”, “Occorre liberarci anche degli arabi in Israele”.


Su quest’ultimo punto, ricordando che ci sono circa 2 milioni di cittadini israeliani arabi, concentrati soprattutto nelle “città miste” (Lyd, Akka e Be’er Sheva), circolano perfino messaggi che invitano gli ebrei a linciare gli arabi a vista, risvegliando il timore non solo di un nuovo conflitto ma anche quelli di una guerra totale tra cittadini ebrei e palestinesi in Israele, con coloni suprematisti ebrei pronti a lanciare nuovi pogrom contro i civili palestinesi in Cisgiordania. Si profila una nuova Nakba.


Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di israeliani avevano marciato per la “democrazia e l’uguaglianza” e molti avevano persino dichiarato di voler rifiutare il servizio militare a causa delle tendenze autoritarie di Netanyahu e del suo governo, ignorando però che quello stesso governo è stato crudelmente autoritario nella perpetuazione di un’occupazione militare illegale e disumana. Oggi molti di loro hanno annunciato l’interruzione delle proteste e la loro disponibilità ad unirsi nella guerra con Gaza.


L’ipocrisia dell’opinione pubblica internazionale


Il mondo è scosso non perché ci siano dei morti, oramai forse oltre duemila morti, in grandissima parte civili.


I morti civili, comprese donne, bambini, vecchi inermi sono la ricorrente “normalità” per i palestinesi. Quei morti dalla pelle scura sono percepiti dall’opinione pubblica internazionale e descritti dai media occidentali come “meno umani”, considerati un neanche tanto imbarazzante “effetto collaterale” del “mantenimento della sicurezza” nel bastione sionista, ritenuto la testa di ponte dell’Occidente nel caotico “mondo arabo”.


Il mondo è stato e continua ad essere complice della disumanizzazione attiva degli abitanti di Gaza, persone da sempre collettivamente private dei propri diritti umani fondamentali.


Ora il mondo è profondamente scioccato non per il numero delle vittime, ma a causa di una disorientante novità: le vittime di questa guerra non sono solo palestinesi, sono anche dei “nostri”. In questo mondo di “noi” e di “loro”.

 

Sabato 7 ottobre è accaduto a qualche centinaio di israeliani quel che sta accadendo all’intero popolo di Gaza da decenni, nell’indifferenza della “comunità internazionale”. Il terrore che gli israeliani hanno provato in questi giorni è stata ed è l’esperienza quotidiana di vita di milioni di palestinesi da decenni sotto il regime militare nella Cisgiordania e a Gaza.


Le disperate ragioni del popolo palestinese


Perfino nei parametri “normali”, la vita quotidiana a Gaza si era gravissimamente deteriorata negli ultimi sedici anni di assedio israeliano: circa il 97% dell’acqua della Striscia è considerata non potabile, oltre la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, l’80% dipende dagli aiuti stranieri, il futuro della maggior parte dei giovani è buio, con il 64% di disoccupazione giovanile.

 

Da anni le famiglie di Gaza, comprese quelle del “ceto medio”, vivono con la costante e inquietante preoccupazione di avere sempre pronti accanto a sé, nel caso di necessità di fuga e di esodo, l’essenziale per sopravvivere (medicinali, documenti, caricabatterie per cellulari, effetti personali, kit per l’igiene…).


La maggior parte dei palestinesi residenti a Gaza sono rifugiati, nell’esperienza di un esilio perpetuo, iniziato con la perdita delle loro case ancestrali, quando vennero espulsi dalle forze sioniste e israeliane nella Nakba del 1948. 


Nel 2018 e nel 2019, lo ricordiamo, decine di migliaia di palestinesi hanno protestato a mani nude davanti ai fili spinati che circondano la Striscia, in quella che è stata definita la Grande Marcia del Ritorno, quando l’esercito ha ucciso centinaia di persone. Sono ferite fisiche e psicologiche che non sono guarite e che non possono guarire.


L’attacco di sabato 7 ottobre viene dopo una serie di intensi mesi di violenza da parte dello stato israeliano e dei coloni nei territori occupati, che hanno giocato un ruolo considerevole nel condurci alla crisi attuale. I palestinesi avevano lanciato l’allarme, avvertendo che il blocco, il persistente impoverimento, le ripetute aggressioni israeliane e la frammentazione delle loro comunità avrebbero portato a un’esplosione. 


I palestinesi di Gaza vivono da decenni nella più grande prigione a cielo aperto della terra, dove la concentrazione di popolazione è la più alta del mondo, tenuti come animali dietro recinti, senza acqua pulita, elettricità, senza speranza e senza dignità, in uno stillicidio di bombardamenti criminali che ogni volta hanno causato centinaia e migliaia di vittime.


E la Cisgiordania non è da meno: solo nel 2022, 146 palestinesi di Cisgiordania, il più delle volte inermi, sono stati uccisi dai soldati e dai superarmati coloni israeliani. Una vera e propria interminabile “pulizia etnica”.


L’esercito israeliano fa regolarmente irruzione nelle città e nei campi profughi palestinesi, mentre i coloni godono di piena libertà nella creazione di nuovi avamposti illegali e nel lanciare pogrom nelle città e nei villaggi palestinesi, con i soldati che li scortano, colpendo e spesso uccidendo i palestinesi che tentano di difendere le proprie case. 


Nei giorni di festività islamica, gli estremisti ebrei profanano la spianata della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, sostenuti da politici integralisti, razzisti e semifascisti, in spregio alle convenzioni internazionali. 


Senza dimenticare che il governo israeliano di estrema destra, razzista e suprematista ha fatto della colonizzazione il primo punto del suo programma di governo, con una spettacolare accelerazione delle operazioni di colonizzazione, di pulizia etnica e di repressione contro il popolo palestinese. Cosa che nei fatti ha reso del tutto illusoria la stessa prospettiva dei “due popoli e due stati”.


Ciò che il mondo non capisce è che il popolo palestinese ha il diritto di utilizzare la resistenza armata nella lotta per la libertà e di difendersi dall’aggressione israeliana. In effetti, molti di coloro che attualmente condannano gli attacchi di Hamas contro i civili sono stati terribilmente silenziosi mentre Israele ha commesso crimini indicibili contro il popolo palestinese, compresa l’imposizione di ripetute “punizioni collettive” contro i residenti di Gaza. Qualsiasi analisi o commento che non riconosca questa realtà non è solo vuoto, ma anche immorale e disumanizzante.


La vita dei palestinesi è da decenni, da oltre tre generazioni, compartimentata, controllata, sotto sorveglianza, sottoposta ad umiliazioni quotidiane e ad arresti arbitrari, a torture e ad abusi, all’insolenza dei coloni e all’atteggiamento complice dei soldati. 


È impossibile capire quello che sta succedendo oggi a Gaza senza tenere conto di questo. Un popolo innamorato di una libertà che gli viene quotidianamente negata, a cui viene cancellata ogni prospettiva, più volte costretto a concessioni umilianti nei ripetuti “accordi” (da Oslo in poi), regolarmente non rispettati dagli israeliani, è inevitabilmente spinto alla resistenza con ogni mezzo.


La “dottrina della sicurezza” di Israele ha sempre richiesto (più per necessità politiche che per motivi militari) un rapporto sproporzionato tra vittime israeliane e palestinesi: per ogni soldato o civile israeliano ucciso politici e generali israeliani hanno sempre chiesto almeno 10 teste palestinesi. 


Ora, con questa “logica”, migliaia di donne, di bambini e di uomini a Gaza potrebbero pagare quel prezzo con la propria vita.


I “campismi” a confronto


A sinistra, la denuncia del doppiopesismo dell’Occidente, di un Occidente che in Ucraina sostiene il popolo contro l’aggressione russa mentre in Medio Oriente sostiene l’oppressione israeliana contro i diritti e la dignità dei palestinesi, è inficiata alle basi dal doppiopesismo simmetrico della sinistra campista che nella vicenda ucraina ha sposato le tesi dell’aggressore russo. 


E a ribaltare un’oggettiva visione del mondo contribuisce anche il presidente ucraino Zelensky, con il suo vergognoso e assurdo parallelo tra Ucraina e Israele e la Russia a Gaza. Paragonare la povera prigione a cielo aperto di Gaza alla Russia imperialista non ha assolutamente senso.


Se Zelensky sostiene il “diritto di Israele a difendersi”, noi dobbiamo fare esattamente il contrario: denunciare il neofascismo al potere a Mosca allo stesso modo del neofascismo al potere a Tel Aviv, sostenere la legittima lotta del popolo palestinese contro la dominazione coloniale e l’espropriazione da parte dello stato sionista allo stesso modo di come sosteniamo la legittima lotta del popolo ucraino contro la dominazione coloniale e l’espropriazione da parte dello stato della “Grande Russia”. 


Si tratta di un sostegno al popolo palestinese che non implica nessun sostegno politico ad Hamas più di quanto il sostegno al popolo ucraino implichi un sostegno politico a Zelensky.


L’assurdo parallelo “campista” tracciato dal presidente ucraino diventa una trappola mortale quando ad usare il campismo è la sinistra.


L’internazionalismo non può essere solidarietà con gli stati: è solidarietà con i popoli che lottano per i loro legittimi diritti, in Ucraina, in Palestina, nel Xinjiang, nel Sahara occidentale, ovunque gli sfruttati e gli oppressi resistono ai loro sfruttatori e oppressori. 


Non ci può essere pace senza prospettive politiche, e non ci possono essere prospettive politiche senza sanzioni contro Israele così come sono necessarie le sanzioni contro Putin per porre fine ai loro regime oppressivi e per far loro rispettare il diritto internazionale e le risoluzioni dell’ONU, con la fine delle loro occupazioni, dei loro progetti coloniali e della loro analoga negazione dei diritti dei popoli palestinese e ucraino.


L’unica via per la pace è la fine di ogni colonizzazione in Palestina come in Ucraina, di ogni oppressione e di ogni suprematismo razzista, che sia quello “bianco” statunitense, quello sionista, o quello della “grande russo” di Putin e Dugin.


Allontanarsi da questa linea di principio è una ricetta per il disastro…

Femonazionalismo, un libro da leggere

L’amica Sara R. Farris è attualmente docente senior di sociologia presso la Goldsmiths, University of London, e autrice, tra l’altro, di Max Weber’s Theory of Personality: Individuation, Politics, and Orientalism in the Sociology of Religion.

Il suo In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017) è stato pubblicato in italiano da Alegre nel 2019 con il titolo Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne.



Nel volume Sara analizza la rivendicazione di diritti delle donne da parte di un improbabile insieme di partiti politici nazionalisti di destra, neoliberali e da parte di alcune teoriche e politiche femministe.

Concentrandosi sulla Francia contemporanea, sull’Italia e sull’Olanda, Farris definisce “femminonazionalismo” lo sfruttamento e la cooptazione di temi femministi da parte di campagne anti-Islam e xenofobe. L’autrice mostra che, caratterizzando i maschi musulmani come pericolosi per le società occidentali e come oppressori delle donne, e sottolineando la necessità di salvare le donne musulmane e migranti, questi gruppi usano l’uguaglianza di genere per giustificare la loro retorica e le loro politiche razziste. 


Questa pratica ha anche una funzione economica. Farris analizza come le politiche neoliberali di integrazione civile e alcuni gruppi femministi incanalino le donne migranti musulmane e non occidentali nelle occupazioni domestiche e di cura, sostenendo al contempo di promuovere la loro emancipazione. Così, Sara documenta i legami tra razzismo, femminismo e i modi in cui le donne non occidentali vengono strumentalizzate per una serie di scopi politici ed economici.


La sua analisi e la sua interpretazione di un certo “femminismo” come subalterno al capitalismo neoliberale è stata largamente apprezzata da numerose/i commentatrici e commentatori di autorevoli riviste. E ne è consigliata la lettura proprio al fine di attirare l’attenzione del mondo femminista e delle/degli attiviste/i dei diritti civili su una nuova configurazione politico-economica in cui le condizioni neoliberali, le politiche femministe di uguaglianza di genere e il nazionalismo di destra rischiano di fondersi nel sostegno verso relazioni ideologiche e materiali di sfruttamento tra donne occidentali e non occidentali. 


Di fronte alla privatizzazione dei servizi sociali, le donne migranti non occidentali svolgono un ruolo strategico sempre più importante nella riproduzione sociale attraverso la cura e il lavoro domestico. Sono diventate un esercito regolare di lavoratrici, indispensabile per il funzionamento delle economie capitalistiche neoliberali dell’Europa occidentale. La gamma di materiali empirici e teorici riportati dal libro è impressionante e la sua rilevanza per gli attuali dibattiti sull’islamofobia e sulla “questione degli immigrati” in Europa occidentale è veramente inestimabile. 


Qua sotto pubblichiamo una brevissima sintesi degli argomenti sviluppati da Sara nel suo volume, del quale consigliamo vivamente la lettura. La sintesi è stata redatta da Marta Dell’Aquila.


“Bisogna capire che nelle circumnavigazioni della vita ciò che è una brezza piacevole per alcuni può essere una tempesta fatale per altri, a seconda del pescaggio della barca e dello stato delle vele”. Con queste parole lo scrittore portoghese José Saramago, nel suo libro La Caverna (2000), racconta gli sconvolgimenti emotivi e materiali vissuti dal vasaio Cipriano Algor, da sua figlia Marta e da suo genero Marçal, quando l’espansione del centro commerciale minaccia la loro attività familiare.


Nel suo libro In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism, Sara Farris descrive una situazione simile: l’ascesa dei partiti nazionalisti, in uno scenario europeo in cui l’islamofobia e il risentimento verso gli immigrati sono sempre più forti, ha dato vita a una retorica i cui discorsi e campagne elettorali si basano sulla minaccia che gli immigrati, in particolare quelli musulmani, rappresentano per l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne. Le donne immigrate, in particolare quelle musulmane, sono spesso assegnate alla categoria statica e monolitica di vittime, prive di agency e intrinsecamente portatrici dei cosiddetti valori tradizionali.


Nella sua introduzione, Sara Farris sostiene che non sono solo i partiti nazionalisti a vedere l’uguaglianza di genere come un pilastro su cui costruire “agende anti-Islam” e discorsi emancipatori con sfumature coloniali. L’uguaglianza di genere è utilizzata anche da gruppi sociali che si dichiarano antinazionalisti, come le femministe, le organizzazioni femminili e i neoliberisti.


Per presentare la logica politica ed economica alla base di questi attori interagenti, l’autrice introduce il concetto di “femonazionalismo”, che si riferisce allo “sfruttamento di temi femministi da parte di nazionalisti e neoliberali in campagne anti-Islam ([…] anche anti-immigrazione) e alla partecipazione di alcune femministe e femminocratiche alla stigmatizzazione degli uomini musulmani sotto la bandiera dell’uguaglianza di genere”. Attraverso i suoi cinque capitoli e lo studio di tre specifici contesti nazionali (Olanda, Francia e Italia), il libro utilizza un metodo interdisciplinare per presentare la diffusione e le applicazioni di questo concetto.


Nel primo capitolo, “Figure del femminismo”, l’autrice delinea la genealogia della mobilitazione dell’uguaglianza di genere all’interno dei partiti nazionalisti di destra in Olanda (Partito della Libertà), in Francia (Fronte Nazionale) e in Italia (Lega Nord), tra il 2010 e il 2013, per rafforzare le loro agende politiche anti-islamiche e anti-immigrazione e xenofobe.


Farris mostra come questi partiti siano riusciti a strumentalizzare l’uguaglianza di genere e a trasformarla, ciascuno a suo modo, in una “potente arma nella campagna contro i migranti musulmani e non occidentali”. La diffusione di siti web xenofobi è una caratteristica comune di questo ambiente. L’autrice cita il sito promosso dal Partito della Libertà olandese, dove i cittadini potevano inviare le loro denunce contro gli immigrati dei nuovi stati membri dell’UE, o il sito “Tutti i crimini degli immigrati”, promosso dal segretario generale della Lega Nord, che raccoglieva articoli sui crimini, in particolare gli stupri, perpetrati da uomini immigrati in Italia.


Un altro esempio di questa strumentalizzazione è la proposta di creare un “Ministero dell’immigrazione e della laicità” avanzata dalla presidente del Front National, Marine Le Pen, nel 2012. Questo capitolo mostra anche come la partecipazione di femministe e organizzazioni femministe a questa guerra contro la misoginia intrinseca della cultura islamica serva solo a rafforzare un atteggiamento coloniale ed eurocentrico che rivendica la superiorità dei valori occidentali.


Il capitolo 2, “Il femminonazionalismo non è populismo”, ci ricorda che negli ultimi anni sociologi e politologi hanno considerato il discorso a favore dell’uguaglianza di genere portato avanti dai partiti di destra come una forma di populismo: “Una politica che dicotomizza lo spazio politico in ‘noi’ (il popolo puro) contro ‘loro’ (l’élite corrotta o lo straniero)”, in altre parole, una politica definita dalla sua forma piuttosto che dal suo contenuto. In questo senso, le campagne anti-Islam e anti-immigrazione portate avanti dai suddetti partiti nazionalisti, che identificano il nemico comune nell’“Altro”, lo “straniero”, il “migrante”, il “musulmano”, farebbero parte di questa logica populista. 


Tuttavia, secondo Farris, il concetto di populismo – per la cui definizione l’autrice si rifà a Ernesto Laclau (La ragione populista) e Carl Schmitt (Il concetto di politico) – non spiega l’attaccamento di questi partiti alla parità di genere. Il nemico comune a cui questi partiti fanno riferimento è, infatti, un nemico comune maschile, poiché le donne musulmane e le donne migranti non rientrano in questa categoria.


Farris si chiede quindi “a quali condizioni questo nemico può essere diviso in due campi diversi, un campo maschile e un campo femminile”. L’autrice indirizza la sua risposta alle teorie nazionaliste sviluppate nell’ambito del femminismo postcoloniale e della Critical Race Theory (CRT), che includono, in quest’ultima in particolare, le nozioni di “sessualizzazione del razzismo” e di “razzializzazione del sessismo”: attribuendo stereotipi diversi agli uomini e alle donne straniere e facendo del sessismo un dominio esclusivo dell’Altro, queste due nozioni spiegherebbero e giustificherebbero ulteriormente l’uso della parità di genere come strumento di propaganda da parte dei partiti nazionalisti di destra.


Il capitolo 3, “Le politiche di integrazione e l’istituzionalizzazione del femminismo”, fa il punto sulle politiche e sui programmi di integrazione civile per gli immigrati o, nel linguaggio dell’Unione Europea, per i cittadini di paesi terzi. Queste iniziative sono state promosse da alcuni governi liberali (l’Olanda, che ne è stata la pioniera, la Francia e l’Italia) e sostenute dai partiti nazionalisti (soprattutto in Italia); l’uguaglianza di genere è stata uno dei valori chiave di queste iniziative, nonostante l’eterogeneità di questi programmi: in Francia, ad esempio, sono centralizzati e omogenei, mentre in Olanda e in Italia sono decentrati ed eterogenei.


Secondo l’approccio multiculturalista, come quello di Christian Joppke e Yasemin Soysal, l’uguaglianza di genere sarebbe un diritto non negoziabile che fissa i limiti del compromesso culturale, frutto del nuovo carattere liberale, e quindi antinazionalista, degli stati membri dell’Unione europea. Al contrario, Farris sostiene che l’inclusione dell’uguaglianza di genere in questi programmi nazionali, anziché eliminarla, non fa altro che rafforzare il carattere nazionalista e razzista della “svolta verso l’integrazione civile”, definita dall’autrice come una caratteristica intrinseca del liberalismo: questi programmi sarebbero quindi come “la forma più concreta e insidiosa di istituzionalizzazione del femminonazionalismo”, concepiti per salvare le donne razzializzate attraverso un apprendistato ideologico segnato da un colonialismo civilizzatore e dall’eurocentrismo.


Nel capitolo 4, “Femonazionalismo, neoliberismo e riproduzione sociale”, l’autrice esamina le relazioni e le analogie tra il femminismo anti-islamico, il nazionalismo anti-islamico e anti-immigrazione e le politiche neoliberali, in particolare quelle che riguardano l’integrazione e l’emancipazione economica delle donne immigrate in un contesto segnato dal razzismo e dall’islamofobia. Farris avverte già una prima “radicale contraddizione performativa” derivante dalla strumentalizzazione dell’uguaglianza di genere da parte di questi attori, risultato di una disgiunzione tra la teoria, o principio politico, e la pratica, o l’azione politica che dovrebbe scaturirne: questi attori “rafforzano le condizioni di riproduzione, a livello di società, della segregazione delle donne migranti musulmane e non occidentali, dei ruoli di genere tradizionali, dell’ingiustizia di genere che pretendono di combattere”


In altre parole, queste iniziative hanno contribuito a perpetuare alcuni nodi strutturali della disuguaglianza, come la divisione sessuale del lavoro: l’empowerment economico di cui parlano questi autori in teoria non farebbe altro che indirizzare queste donne verso il lavoro domestico e di cura, storicamente connotato come esclusivamente femminile.


L’autrice propone quindi di ricostruire i concetti di autonomia economica ed emancipazione da un punto di vista femminista, e di decostruire la nozione teleologica di emancipazione del femminismo occidentale, che di fatto identifica il lavoro come momento necessario del telos emancipatorio. I concetti di etica produttiva e di lavoro in contrapposizione alla riproduzione sociale con le sue specialità di genere meritano di essere decostruiti a causa dei cambiamenti storici, socio-economici e istituzionali avvenuti nel corso dei secoli.


Nell’ultimo capitolo, “L’economia politica del femminismo”, il libro ritorna al concetto di “esercito di riserva di lavoratori” sviluppato da Karl Marx nel Libro primo del Capitale, per descrivere la posizione delle donne migranti o musulmane nell’economia europea e il tipo di lavoro che svolgono, che è per lo più un lavoro domestico e di cura. Ciò che è particolarmente interessante in questo capitolo è la descrizione del modo in cui le donne migranti, siano esse musulmane o, più in generale, non occidentali, sono percepite nell’immaginario collettivo: come vittime che devono essere salvate, redente o aiutate a integrarsi nella nuova società, ma in nessun modo viste come un pericolo economico e politico per gli uomini.


Per l’autrice, l’analisi di questa stereotipizzazione non può essere intesa come riferita solo ai ruoli sociali che queste donne occupano, ma anche ai ruoli economici che esse svolgono per le economie neoliberali, tenendo conto di alcune dinamiche in evoluzione, come la mercificazione del lavoro domestico e di cura – che, anche nella sua forma retribuita, rimane il settore del lavoro più legato al genere – o la femminilizzazione e razzializzazione di specifici mercati del lavoro.


Ad esempio, “le cattive condizioni di lavoro, la bassa retribuzione e lo status, gli orari di lavoro insalubri e la situazione spesso irregolare che prevale nel settore domestico e dell’assistenza rendono questo lavoro poco attraente per le donne non migranti”. Alla luce di queste considerazioni, l’autrice conclude che il concetto più appropriato per descrivere la posizione delle donne migranti sarebbe quello di un “esercito regolare di lavoratori”, che, da un lato, consente alle donne autoctone/non migranti di uscire di casa e, dall’altro, dà vita a nuove figure professionali, come la badante in Italia.


Per analizzare il fenomeno del “femminismo”, Sara Farris non si limita a una semplice spiegazione ideologica. Propone un’analisi multidimensionale delle dinamiche sociali, politiche e soprattutto economiche che hanno caratterizzato il processo di globalizzazione neoliberista degli ultimi trent’anni.

Migranti, il "pizzo di stato" di Meloni e Piantedosi e i 10 punti di Ursula Von Der Leyen

di Fabrizio Burattini


L’arrogante e indecente decisione del governo di imitare le mafie che gestiscono i lager libici, esigendo dai migranti il pagamento di un “pizzo di stato” di ben 4.938 euro per evitare di finire nei lager italiani che Meloni e Piantedosi intendono moltiplicare in giro per la penisola, sintetizza bene la politica della destra al potere.


Pace con le banche, guerra ai migranti


Mentre si azzera la demagogica proposta di tassare i miliardi di superprofitti delle banche accumulati sulle spalle dei cittadini costretti a pagare astronomiche rate di mutuo (una proposta che aveva indotto i creduloni a pensare che il governo fosse dalla parte dei più poveri), si vuole far cassa sulle spalle dei migranti.


Questo perché il governo è consapevole del fatto che, nonostante i memorandum sottoscritti con i dittatori, nonostante i “dieci punti” ipotizzati da Ursula Von Der Leyen, nonostante i messaggi minatori della presidente del consiglio e dei suoi ministri, i migranti continueranno ad affluire in Italia e in Europa.

Il taglieggiamento deciso dal governo dovrebbe gravare sui migranti che arrivano da “paesi sicuri”, cioè da paesi nei quali non ci siano guerre o limitazioni ai diritti democratici ed umani. Ma ci chiediamo, in particolare nel Sud del mondo, quali sono i “paesi sicuri”?


Le misure del governo


Le altre misure previste nei nuovi decreti emergenziali, la moltiplicazione dei CPR, la loro codificazione come veri e propri campi di concentramento (“facilmente perimetrabili e collocati in aree a bassissima densità abitativa”), l’allungamento fino a 18 mesi della “detenzione amministrativa” anche per le/i “richiedenti asilo”, la delega al ministero della Difesa, cioè alle forze armate della loro gestione, la rinnovata minaccia di “blocco navale” attraverso i memorandum e gli accordi con i dittatori dei paesi di provenienza e di transito non solo non risolveranno la presunta emergenza e non solo offendono i diritti e la dignità umana dei migranti, ma costituiscono di per sé un nuovo e sempre più grave attentato alla democrazia del nostro paese.


I partiti di governo continuano a gareggiare tra loro in demagogia, al fine di spartirsi fette di elettorato impaurito dal timore di perdere i propri miserabili “privilegi”, indicando negli “ultimi” (migranti, percettori del reddito di cittadinanza, disoccupati…) i responsabili delle difficoltà economiche in cui si dibatte il paese. 


Un’emergenza fabbricata in casa


Si è gridato all’emergenza perché in una settimana sono arrivati in Italia una decina di migliaia di migranti.


Ma facciamo un po’ di cifre: secondo i dati più recenti, il numero complessivo di persone che nel mondo fuggono da persecuzioni, conflitti e violenze è valutato in 108 milioni e mezzo di esseri umani. Il 40% dei rifugiati è composta da bambini. I paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono la Turchia, l’Iran, la Colombia, la Germania e il Pakistan. I tre quarti dei rifugiati nel mondo sono ospitati in paesi a reddito medio e basso.


Nel 2022 i richiedenti asilo nell’Unione europea sono stati 880.000, nel 2021 540.000, dunque meno dell’1% dei rifugiati mondiali e meno del 2 per mille della popolazione europea. 


Ma, nonostante le dimensioni del tutto gestibili del fenomeno, l’avvicinarsi di delicate elezioni (quelle europee del prossimo giugno) spinge tutti i governi della UE e tutti i partiti istituzionali a fare a gara nel prendere le distanze da ogni seria politica di accoglienza e a rinviare sine die la revisione del trattato di Dublino.


La politica razzista e classista dei visti


D’altra parte né la UE, né i singoli paesi che la compongono e che aderiscono al trattato di Schengen hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di ridefinire le politiche di accesso degli “extracomunitari” nella UE, che continuano da sempre ad essere improntate a espliciti principi razzisti e discriminatori. 


Il Regolamento UE sui visti (Reg. 539/2001) elenca i paesi i cui cittadini devono essere muniti di visto per accedere ai paesi dell’Unione (attraversamento delle “frontiere esterne”), suddividendoli in “lista bianca” (paesi i cui cittadini sono esenti da obbligo di visto) e “lista nera” (quelli per i quali vige l’obbligo di visto e dunque di discrezionalità da parte delle autorità consolari europee).


In realtà, anche questa “discrezionalità” è fortemente limitata e classista perché nei fatti concede il visto a cittadini extracomunitari provenienti dai paesi della “lista nera” solo se sono in grado di dimostrare di possedere un patrimonio ed un reddito che faccia escludere l’ipotesi di immigrazione a fini lavorativi.

Naturalmente nel regolamento UE sui visti la “razza”, la religione e la classe sociale non sono esplicitamente menzionate come criteri per la compilazione delle due liste nera e bianca. Ma l’impostazione discriminatoria, razzista e classista, è comunque evidente: tutti i paesi africani (nessuno escluso) sono elencati nella lista nera; per quel che riguarda l’Asia sono esclusi solo il Giappone, la Corea del Sud, la Malesia, Brunei, Singapore, Taiwan, Timor Est, Emirati Arabi Uniti e Israele; anche l’orientamento religioso incide, in quanto, ad eccezione di Singapore, Malesia, Brunei ed Emirati Arabi Uniti, i cittadini di tutti i paesi a maggioranza musulmana sono soggetti all’obbligo di visto, al pari di tutti i paesi a maggioranza induista o buddista; e un esame obiettivo delle due liste fa emergere anche una forte correlazione classista con il PIL pro capite dei diversi paesi, per certi versi ancora più forte di quella con colore della pelle e l’orientamento religioso.


D’altra parte le due liste, nel corso dei 22 anni trascorsi dalla stesura nel 2001 delle liste originarie, sono state modificate in misura molto marginale, come, ad esempio, con il passaggio alla lista di esenzione dal visto per numerose isole dei Caraibi (Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Dominica, Grenada, Santa Lucia, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Trinidad e Tobago), delle Mauritius, delle Seychelles, e di alcune isole del Pacifico (Kiribati, Marshall, Micronesia, Nauru, Palau, Samoa, Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu). E’ del tutto evidente la motivazione “turistica” dei questi cambi di lista.


Un’impostazione da rivedere alla base


Peraltro è lo stesso concetto di “rifugiato politico” che andrebbe riconsiderato, includendo nei criteri le ragioni che molto spesso giustificano la scelta del migrare, come la mancanza reale di prospettive economiche, la devastante insicurezza ambientale, la crescente disuguaglianza, la corruzione delle élite… 


E il refrain razzista del “aiutiamoli a casa loro”, anche ammesso che si voglia farlo “in buona fede” e mettendo a disposizione fondi adeguati, si scontra strutturalmente con le responsabilità dei paesi ex “colonizzatori” nell’aver affidato i paesi dismessi dagli imperi coloniali a governanti del tutto inaffidabili e complici del comportamento predatorio del neocolonialismo, non molto dissimile dal colonialismo diretto del XIX secolo.


Il piano della presidente UE


I dieci punti del “piano europeo” avanzato da Ursula Von Der Leyen dopo la sua visita a Lampedusa il settembre, non presentano alcun elemento di novità. 


Il punto 1 (la promessa di un “aiuto europeo” all’Italia per affrontare una “emergenza” sostanzialmente inesistente) serve solo a mascherare la colpevole impreparazione e l’inerzia demagogica del governo Meloni, peraltro denunciata anche dai cittadini lampedusani.


Il punto 2 (“intensificazione degli sforzi” dell’Ue per il trasferimento dei migranti verso altre destinazioni, sulla base del “meccanismo volontario di solidarietà”) è anch’esso una pia intenzione, esplicitamente vanificata non solo dai paesi “sovranisti”, ma anche da altri paesi del “cuore della UE”.


Il punto 3 (“supporto delle strutture di Frontex per i rimpatri”), il 4 (“aumento delle azioni per la lotta contro i trafficanti”), il 5 (“intensificazione della sorveglianza aerea e navale” attraverso Frontex), il 6 (“azioni concrete contro la logistica dei trafficanti”, garantendo il sequestro e la distruzione delle imbarcazioni utilizzate) sono tutte enunciazioni che guardano al problema dei “trafficanti” con una logica complottista, come se il fenomeno delle migrazioni di massa fossero conseguenza dell’azione dei trafficanti e non frutto della disperazione di intere comunità, e di migliaia di persone pronte proprio a tutto pur di partire.


Il punto 7 (“aiuto del personale dell’Agenzia Ue per l’asilo” al fine di accelerare l’esame delle domande presentate dai migranti respingendo quelle prive di fondamento e rispedendo nei paesi di origine coloro che le hanno presentate) può essere utile ad accelerare la scandalosa lentezza e l’approssimazione con cui le commissioni italiane preposte esaminano le domande di asilo e di protezione, ma i suoi effetti dipendono in fin dei conti dall’esistenza o meno della volontà di fare una seria politica di accoglienza, cosa totalmente smentita dalle scelte del governo Meloni in questi mesi.


I punti 9 (“rafforzare la collaborazione con le agenzie Onu” per garantire la protezione dei migranti anche durante i rimpatri) e 10 (“attuazione del memorandum con la Tunisia”) manifestano la totale complicità della UE nei confronti dei respingimenti che vorrebbe attuare il governo italiano.


Resta il punto 8 (“offrire alternative valide alle rotte illegali attraverso il rafforzamento dei corridoi umanitari”) che potrebbe essere l’unica novità del piano, ma probabilmente destinata a restare lettera morta, nel contesto demagogico della campagna elettorale e della cinica utilizzazione della tematica per cercare di aumentare il peso politico dei vari partiti.


Le vere ragioni della politica governativa


D’altra parte, la risposta da dare alla questione “migranti” non si misura solo sul terreno “umanitario”. Per l’economia del capitalismo italiano, la possibilità di sfruttare una forza lavoro ricattabile in quanto “irregolare” è un fattore di profitto assolutamente non trascurabile e spinge costantemente contro ogni ipotesi di regolarizzazione dei flussi migratori.


Ed ha un “valore d’uso” anche politico. La continua denuncia di un “capro espiatorio”, la “narrazione” continua dell’esistenza di una “emergenza invasione” contribuiscono a distrarre l’elettorato piccolo borghese ma anche popolare dai veri problemi sociali e dalle vere responsabilità delle classi dirigenti. E, non solo, ma creano consenso attorno a chi vuole che si adottino misure repressive che in realtà poi saranno utilizzate non solo contro i migranti ma contro tutti.


Noi – e lo dichiariamo a voce alta – siamo perché venga immediatamente dato a tutte/i il permesso di soggiorno e perché si riconosca ovunque la più completa libertà di movimento.

Francia, decine di migliaia contro le violenze e il razzismo, ma si rinfocola la polemica a sinistra

Le valutazioni, come al solito, sono contrastanti: tra 30.000 e 80.000 sono stati i manifestanti che sono scesi in piazza ieri, sabato 23 settembre, a Parigi e in numerose altre città francesi, rispondendo all’appello unitario lanciato settimane fa per una manifestazione contro la violenza della polizia, il razzismo sistemico e per le libertà civili. 

Il corteo parigino è partito verso le 15 dalla Gare du Nord, nel quadrante nordorientale della capitale francese, dietro lo striscione di apertura del “Coordinamento nazionale contro le violenze della polizia”, fitto di striscioni e di cartelli: “Tutte/i insieme contro le violenze e il razzismo”, “Né oblio né perdono”, “Polizia ovunque, giustizia da nessuna parte”, “Senza giustizia nessuna pace”, “In lutto e in collera”, “Giù le mani dai nostri ragazzi”, “Giustizia per Nahel” (in riferimento al diciassettenne Nahel Merzouk, ucciso a sangue freddo da due poliziotti ad un posto di blocco alla fine dello scorso giugno).

Altri spezzoni del corteo si concentravano su altre vittime del “razzismo sistemico” delle forze di polizia: “Verità per Othmane”. “per Alassane”, “per Mohamed”, “per Medhi”, “per Mahamadou”… con tanti cartelli sorretti dai familiari dei giovani uccisi. E c’era anche chi denunciava l’impunità degli assassini, come sosteneva la sorella di Mahamadou Cissé, ucciso con una fucilata meno di un anno fa a Charleville Mézières, nella regione delle Ardenne: infatti, l’uomo che l’ha ucciso, un ex militare, se l’è cavata con solo qualche giorno di prigione…


Perfino l’Ispettorato generale della Polizia nazionale riconosce che il ricorso alla forza (e anche alle armi da fuoco) è “in netto aumento”. Ma nonostante questo, il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha scritto proprio alla vigilia delle manifestazioni una lettera di sostegno pubblico ai poliziotti, ai gendarmi e ai questori, chiedendo loro di “dare prova di una vigilanza particolare durante le manifestazioni, di proibirle, se necessario, e di segnalare gli slogan insultanti ed oltraggiosi verso le istituzioni della Repubblica, della polizia e della gendarmeria”.

Tanto che, a Grenoble, il questore ha vietato un presidio descrivendolo come “un assembramento anti razzista composto da persone razzializzate”.


Ai cortei hanno aderito La France Insoumise, il Nuovo Partito Anticapitalista (NPA), i verdi di EELV, i sindacati CGT, FSU e Sud-Solidaires, assieme ad altre 150 organizzazioni politiche, sindacali, associative, collettivi dei quartieri popolari…

Come abbiamo già riferito, il Partito comunista francese (PCF) non ha aderito all’iniziativa, cosa che ha alimentato una violentissima polemica a sinistra, tanto che la deputata LFI Sophia Chikirou, in una sua dichiarazione, ha paragonato l’attuale leader del PCF a Jacques Doriot, l’ex comunista che negli anni 40 passò a collaborare con gli occupanti tedeschi, accompagnandola con la foto di una t-shirts con la scritta “Tutti detestano Fabien Roussel”, ironizzando sullo slogan che falsamente il segretario del PCF aveva attribuito alla manifestazione del 23: “Tutti detestano la polizia”.

La cosa ha portato anche il Partito socialista (PS), che pure fa parte della NUPES, cioè dell’alleanza elettorale di sinistra costruita attorno a LFI che ha raccolto alle elezioni parlamentari dello scorso anno il 25,66% dei voti, a non partecipare alla manifestazione.

Lampedusa, Meloni e Von Der Leyen unite nella lotta (ai migranti)


Il pochi giorni sulle coste italiane sono arrivate decine di migliaia di migranti, senza che si debbano segnalare naufragi né vittime per annegamento. 

Invece di gioire, i governi europei parlano di “crisi”. 

Evidentemente ognuno ha le sue percezioni e le sue scale di valori. 

Ecco perché la vignetta (presa e tradotta dalla pagina Facebook di Chantal Istace) è solo formalmente una caricatura, perché l’ipocrita visita di Giorgia Meloni e di Ursula Von Der Leyen nell’isola di Lampedusa non riesce affatto a nascondere la realtà crudele della politica dell’Unione Europea nei confronti della realtà dei migranti che giungono sulle coste del “nostro” continente.

La linea della “fortezza Europa” cancella in un sol colpo le demagogiche parole “anti UE” della Giorgia di opposizione e la fa allineare dietro le scelte razziste dela commissione di Bruxelles. 

Dietro quella linea ci sono tutti i “buoni”, compresa Giorgia Meloni, neo europeista.

Ora come “nemici” della UE restano Salvini e Marine Le Pen, che scimmiottano ancora, in attesa delle elezioni continentali di giugno e di incamerare i voti del “popolo del generale Vannacci”, il loro linguaggio sguaiato, perché non hanno ancora capito o voluto capire che si può essere duri con i migranti senza essere “anti UE”.

Con la UE e con il suo “sostegno” (così come dimostrato ieri con la visita congiunta delle due presidenti nell’isola del Mediterraneo) si possono fare cose difficilmente conciliabili con una Costituzione ormai ridotta a carta straccia, si possono stioulare accordi con i peggiori dittatori (ieri Erdogan e oggi il tunisino Kaïs Saïed), si possono progettare lager (“strutture da realizzare in località a bassissima densità abitativa e facilmente perimetrabili e sorvegliabili”) per trattenere gli immigrati illegali anche per 18 mesi, senza che abbiano commesso alcun reato.

Sono questi i termini del decreto varato oggi dal consiglio dei ministri.

Francia, appello unitario per la marcia contro le violenze della polizia


Uniti contro la violenza della polizia, il razzismo sistemico e per le libertà civili

Quasi 100 manifestazioni sono già in programma in tutta la Francia!

Appello congiunto, già firmato da quasi 150 organizzazioni.

L’omicidio di Nahel, ucciso a bruciapelo da un poliziotto il 27 giugno 2023 a Nanterre, ha evidenziato ancora una volta ciò che deve finire: il razzismo sistemico, la violenza della polizia e le disuguaglianze sociali che le politiche di Macron stanno approfondendo. Una politica neoliberista imposta da metodi autoritari, leggi sulla sicurezza e una dottrina di polizia criticata anche dai più alti organismi internazionali. Una politica regressiva che offre un terreno fertile all’estrema destra e calpesta sempre più le nostre libertà civili, il nostro modello sociale e il nostro futuro di fronte al collasso ecologico.

Le prime vittime di queste politiche sono le persone che vi abitano, soprattutto i giovani dei quartieri popolari e dei territori d’oltremare, che stanno sopportando tutto il peso del peggioramento delle disuguaglianze sociali in un contesto economico di inflazione, aumento degli affitti e dei prezzi dell’energia e politiche urbanistiche brutali. Le riforme di Macron stanno esacerbando la povertà, in particolare restringendo l’accesso alle prestazioni sociali. La scandalosa riforma dell’indennità di disoccupazione ne è un esempio lampante, mentre la precarietà del lavoro è in aumento.

Le rivolte nei quartieri popolari possono essere analizzate solo in questo contesto generale. Gli abitanti di questi quartieri, e in particolare le madri single, sono spesso lasciati a sopperire alla mancanza di servizi pubblici, la cui distruzione sta accelerando ogni giorno.

Allo stesso tempo, tutta una serie di atti violenti vengono perpetrati contro la popolazione: la delocalizzazione e la distruzione di posti di lavoro, l’evasione e la frode fiscale, gli stili di vita ecocidi degli ultra-ricchi, i super-profitti delle multinazionali e i metodi di produzione iper-inquinanti responsabili della crisi climatica. E lo stato permette loro di farla franca! Inoltre, le popolazioni razzializzate e/o appartenenti a classi sociali svantaggiate, i quartieri popolari, le aree rurali e suburbane impoverite e i territori d’oltremare sono vittime di violenza istituzionale e sistemica, in particolare da parte della polizia.

La politica repressiva dello stato è stata ulteriormente rafforzata dall’ultimo rimpasto ministeriale, che ha esteso le competenze del ministero dell’Interno agli affari urbani, ai territori d’oltremare e alla cittadinanza. La repressione si sta diffondendo con sempre maggiore intensità, con la violenza della polizia e il divieto di manifestare contro il movimento sociale e ambientalista, come durante la lotta contro la riforma delle pensioni, rifiutata dalla grande maggioranza dei lavoratori e dai loro sindacati, e a Sainte-Soline. La libertà di associazione, sia direttamente che indirettamente, è sempre più minacciata.

Questa situazione è tanto più preoccupante in quanto la polizia sembra sfuggire al controllo del potere politico. Dalle dichiarazioni faziose di alcuni sindacati di polizia dopo l’omicidio di Nahel a quelle del Direttore generale della polizia nazionale e del Prefetto della polizia di Parigi, nonché del ministro degli Interni, è la polizia che oggi mette in discussione lo stato di diritto, invece di porre fine all’impunità degli autori della violenza poliziesca.

I nostri sindacati, le associazioni, i collettivi, i comitati di quartiere della classe operaia, i comitati delle vittime della violenza della polizia e i partiti politici stanno lavorando insieme a lungo termine per far convergere la giustizia antirazzista, sociale, ecologica e femminista e per porre fine alle politiche securitarie e antisociali.

La crisi democratica, sociale e politica che stiamo attraversando è molto grave.

Non possiamo accettare altre morti come quella di Nahel, né altri feriti vittime della violenza della polizia.

Vi invitiamo a scendere di nuovo in piazza sabato 23 settembre, a organizzare manifestazioni e altre iniziative in tutto il paese, a stare insieme contro la repressione della protesta sociale, democratica ed ecologica, per la fine del razzismo sistemico e della violenza della polizia, e per la giustizia sociale e le libertà civili del clima e delle donne.

Chiediamo risposte immediate e urgenti:

  • l’abrogazione della legge del 2017 sull’allentamento delle norme sull’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine;
  • una riforma profonda della polizia, delle sue tecniche di intervento e del suo armamento;
  • la sostituzione dell’Ispettorato generale della polizia con un organismo indipendente dalla gerarchia della polizia e dal potere politico;
  • la creazione di un dipartimento dedicato alle discriminazioni che colpiscono i giovani all’interno dell’autorità amministrativa presieduta dal Difensore dei diritti umani e il rafforzamento delle risorse per la lotta al razzismo, anche nella polizia;
  • un ambizioso piano di investimenti pubblici nei quartieri popolari e in tutto il paese per ripristinare i servizi pubblici e il finanziamento di associazioni e centri sociali.

Firmatari

Collettivi/comitati dei quartieri popolari, delle vittime delle violenze poliziesche 

  • Afrofem Marseille 
  • Anti-Racisme 94
  • Citoyennes du Monde
  • Collage Féministe Stains 
  • Collectif des Musulmans Végétariens d’île de France 
  • Collectif isérois de solidarité avec les étranger.es et le migrant.es (38)
  • Collectif Justice et Vérité pour Yanis
  • Collectif Justice pour Claude Jean-Pierre
  • Collectif les Sentinel’les – Quartier des Sentes, Les Lilas, 93
  • Collectif Malgré Tout
  • Collectif Stop Uwambushu à Mayotte (CSUM)
  • Collectif Stop Violences Policières à Saint-Denis
  • Collectif Vérité et justice pour Adama
  • Comité Justice pour Alassane
  • Comité justice pour C&J
  • Comité Justice pour Othmane
  • Comité local SDT Villefranche sur Saône 
  • Comité Vérité et Justice pour Mahamadou
  • Comité vérité et justice pour Safyatou, Salif et Ilan
  • Coordination iséroise de solidarités avec les étranger.es et migrant.es (38)
  • Coordination nationale “Marche 40 ans”
  • Coordination nationale contre les violences policières
  • Coordination pour la Défense des habitants des Quartiers Populaires
  • ECRIS 94 – Ensemble Contre le Racisme l’Islamophobie et le sexisme 94
  • Forum pour un autre Mali
  • Garde Antifasciste 53
  • Gilets jaunes Marseille Centre
  • Justice pour Nahel
  • Le CERCLE 49
  • Le Mouvement des mères isolées
  • Les Insurgés (Collectif de Gilets Jaunes)
  • Maison du Peuple en Colère 
  • Mémoire en marche Marseille
  • Peuple Révolté 
  • Syndicat des quartiers populaires de Marseille

Organizzazioni sindacali 

  • CGT
  • CSE Le clos St jean
  • FIDL
  • FIDL 93 SEINE SAINT DENIS 
  • FSE
  • FSU
  • La Voix lycéenne
  • MNL
  • SNES
  • SNPES-PJJ/FSU
  • Solidaires 38
  • Solidaires 56
  • Solidaires 85
  • Syndicat de la magistrature
  • Syndicat des avocats de France
  • UD CGT 22
  • UD CGT46
  • UNEF
  • Union étudiante
  • Union locale CGT Ales 
  • Union syndicale Solidaires

Associazioni e altri collettivi 

  • Alternatiba
  • Alternatiba Paris
  • Amis de la Terre France
  • ANV-COP21
  • APEL-Egalité
  • Association de veille écologique et citoyenne (Nantes)
  • Association Intergénérationelle de la Rabière (AIR-37)
  • Association Nationale des Pieds Noirs Progressistes et Amis (ANPNPA)
  • Association Naya(37)
  • Association Nouveaux Souffle pour l’Insertion Sociale et Professionnelle (ANSIP-37)
  • Association Stop Aux Violences d’État
  • ATMF
  • Attac France
  • CAD
  • Citoyennes en lutte Ouistreham
  • Collectif du 5 novembre
  • Collectif National pour les Droits des Femmes (CNDF)
  • Collective des mères isolées
  • Comité d’Action Interprofesionnel et Intergénérationnel d’Issy les moulineaux (CAIII) 
  • Conseil Démocratique Kurdes  de Bordeaux 
  • Coudes à Coudes
  • Dernière Rénovation
  • Droit Au Logement (DAL)
  • FASTI
  • Fédération des Tunisiens pour une citoyenneté des deux rives (FTCR)
  • Fédération nationale de la LIbre Pensée
  • Femmes Egalité
  • Femmes Plurielles
  • Flagrant Déni, média engagé dans la lutte contre l’impunité policière https://www.flagrant-deni.fr/
  • Fondation Copernic
  • Gisti
  • Greenpeace
  • Jeunesse des cités tase
  • L’ACORT
  • La Relève Féministe
  • La Révolution est en marche
  • LDH Tarbes Bagnères de Bigorre
  • Le GRAIN
  • Les Effrontées
  • Les marcheurs de 83
  • Les Marmoulins de Ménil
  • Les Mutin.e.s
  • Marche des Solidarités
  • Memorial 98
  • Mouvement pour une Alternative Non-violente (MAN)
  • Mouvement Utopia
  • MRAP
  • Observatoire national de l’extrême-droite
  • ODED32
  • OXFAM 06
  • Pas peu fièr-es
  • Planning familial
  • Queer Asso
  • Réseau d’Actions contre l’Antisémitisme et tous les Racismes (RAAR)
  • Réseau Hospitalité
  • SOS racisme
  • SOS Racisme Lyon
  • Soulèvements de la Terre
  • Tous Citoyens !
  • UJFP
  • XR Extinction Rebellion France

Organizzazioni politiche 

  • Boissy Insoumise
  • EELV
  • ENSEMBLE
  • Fédération Libertaire de Lorraine
  • FUIQP
  • GA Insoumis de Montréjeau/Gourdan
  • GA LFi Pays de Gex
  • Gauche Écosocialiste
  • GDS
  • Génération.s
  • Jeune Garde Antifasciste 
  • Jeunes Communistes des Bouches du Rhône
  • Jeunesse Communiste de la Loire
  • La Gauche Ecosocialiste
  • Les Jeunes Écologistes
  • LFI
  • Nouvelle Donne
  • NPA
  • PCOF
  • PEPS
  • PG
  • Place Publique
  • POI
  • Rejoignons nous
  • REV
  • Solidaires par Nature 
  • UCL
  • Vivre Ensemble Solidaires en Métropole Tourangelle (VESEMT-37)

Francia, nel mirino dei neofascisti la libreria del NPA

Comunicato – 21 agosto 2023

Nel week end scorso, la libreria parigina La Brèche, legata al Nuovo Partito Anticapitalista, è stata presa di mira dall’estrema destra.

Sui muri esterni sono stati spruzzati graffiti antisemiti e sessisti che definiscono l’NPA un “puttana per ebrei”, una “puttana di Soros”, firmati da due gruppuscoli fascisti (GUD e Zouaves Paris).

Questo danneggiamento fa parte di una lunga serie di attacchi ai movimenti sociali da parte di gruppi di estrema destra, tra cui aggressioni violente ad attivisti e attacchi alle sedi di associazioni e partiti politici, nonché alle librerie, come il recente attacco a una libreria autogestita a Montreuil.

Quest’anno, gli stessi gruppi neonazisti hanno anche commesso una serie di attacchi sessisti, razzisti e LGBTIfobici.

I neonazisti stanno mettendo le ali, sostenuti dai discorsi d’odio di Zemmour, Le Pen e compagnia, ma anche da tutti gli ideologi, gli editorialisti e gli altri estremisti di destra che hanno accesso permanente ai media mainstream.

E il minimo che si possa dire è che personaggi come Macron, Darmanin e compari non stanno facendo nulla per arginare questo fenomeno, anzi. Moltiplicando le politiche razziste e antisociali mutuate direttamente dal discorso e dal programma dell’estrema destra, il governo sta contribuendo allo sviluppo dell’estrema destra.

L’NPA condanna il danneggiamento della libreria La Brèche.

Le scritte di cattivo gusto ricordano cosa sia fondamentalmente l’estrema destra: razzista, antisemita, sessista, omofoba, disgustosa e pericolosa.

È l’intera sinistra sociale e politica ad essere stata presa di mira di recente e spetta quindi a tutta la sinistra sociale e politica costruire, in modo unitario, la necessaria risposta antifascista.

Contro i gruppi di estrema destra. Contro Le Pen e Zemmour. Contro il razzismo, l’antisemitismo, il sessismo e l’omofobia. Contro tutti coloro, compresi quelli al governo e i cosiddetti partiti “repubblicani”, che abbracciano e banalizzano le idee dell’estrema destra. 

Per i nostri diritti, la nostra solidarietà, le nostre lotte collettive, i nostri luoghi di espressione. No pasarán!

Germania, nuovi successi per l'estrema destra del AfD

di Thies Gleiss, redattore di Die Internationale, organo dell’Internationalen Sozialistischen Organisation, da A l’encontre

La destra radicale di Alternativa per la Germania (AfD-Alternative für Deutschland) è attualmente ai massimi storici nei sondaggi elettorali sia nei Länder orientali che in quelli occidentali. La tabella seguente riassume gli ultimi dati. Le opinioni raccolte naturalmente non sono ancora voti. Tuttavia, le recenti elezioni regionali a Berlino del febbraio 2023 e a Brema in particolare di maggio 2023, dove l’AfD non ha potuto presentarsi ma i Bürger in Wut (BiW – Cittadini arrabbiati), che la pensano allo stesso modo, dimostrano che l’AfD è attualmente in grado di trasformare il suo potenziale elettorale in risultati elettorali [9,09% a Berlino, +1,1% e 9,39% a Brema, +7%].

Il calo dell’astensione degli elettori verificatosi durante la pandemia di Covid, che ha colpito in modo sproporzionato l’AfD e ha permesso ai partiti borghesi CDU (Christlich Demokratische Union Deutschlands), SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), FDP (Freie Demokratische Partei) e Die Grünen di sperimentare un breve picco di consensi elettorali, si è nuovamente invertito. L’affluenza alle urne è al 60% o addirittura al di sotto [62,90% a Berlino, -12,8%; Brema 56,68%, -7,2%] e l’AfD è tra le forze che soffrono di meno, riuscendo a mobilitare il proprio potenziale.

[Meclemburgo-Pomerania Anteriore (Mecklenburg-Vorpommern); Renania Settentrionale-Vestfalia (NRW); n.d.: non disponibile.

Anche l’andamento dei iscritti dell’AfD presenta alti e bassi: quando è stato fondato nel 2013, contava poco più di 17.000 membri. Questo numero è salito a 35.000 nel 2019. Durante la pandemia di Covid, il numero totale di iscritti è sceso sotto i 30.000 e attualmente si attesta a oltre 33.000.

Finora l’AfD ha avuto meno successo nella creazione di organizzazioni di partito “sorelle” tra i giovani, le donne e, soprattutto, le proprie strutture aziendali che si candidano alle elezioni dei consigli di fabbrica (Betriebsrat), ma ci sono ambizioni corrispondenti.

L’AfD vive in gran parte con i soldi dello stato. Oltre ai 12 milioni di euro di rimborsi per le spese della campagna elettorale, il Rheinische Post ha calcolato che l’AfD incassa poco più di 400 milioni di euro nell’arco di una legislatura sotto forma di indennità e stipendi per i deputati, per i gruppi parlamentari e i loro dipendenti nei Länder e a livello federale. A ciò si aggiunge il denaro della fondazione politica Desiderius Erasmus (Desiderius-Erasmus-Stiftung), vicina all’AfD.

Ma l’AfD è anche in testa a tutti i partiti per quanto riguarda le donazioni private. Al congresso dell’AfD per le elezioni europee, tenutosi a Magdeburgo tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, sono stati inclusi nel bilancio del partito 10 milioni di euro di donazioni. Nel 2023, il partito ha ricevuto poco più di 250.000 euro sotto forma di “regali”. A tal fine, ha ricevuto in eredità beni in oro per un valore di diversi milioni di euro.

Molto allineato con l’estrema destra

Dieci anni di evoluzione hanno trasformato l’AfD in un partito di estrema destra, nazionalista e razzista. Tutte le forze che volevano farne un partito conservatore di destra, aperto ed economicamente liberale hanno lasciato il partito o sono state estromesse. I principali litigi all’interno dell’AfD non riguardano più i contenuti e il programma, ma solo le posizioni e le persone, e al massimo le tattiche politiche quotidiane.


La corrente apertamente fascista Der Flügel (L’ala), ufficialmente sciolta, esiste intatta attorno al presidente dell’AfD Turingia Björn Höcke e domina a livello federale. È anche attraverso di lui che i resti delle forze neonaziste attive in Germania (attivisti nazisti – in uniforme, con gli stivali – e gruppi di nostalgici hitleriani) ai margini della destra dell’AfD vengono reclutati, incorporati e inseriti nella politica dell’AfD.

Gli elementi ideologici che definiscono l’AfD sono: la propaganda (a parole e nei fatti, spesso sotto forma di crimini razzisti) contro i non tedeschi, in particolare i rifugiati; la lotta contro la liberalizzazione della società dalla fine degli anni ’60 (definita “sinistra-verde-sifilismo 68”); il nazionalismo e la politica della “Germania prima di tutto” (“Deutschland zuerst”); il rifiuto dell’Unione Europea e la richiesta di un’ “Europa delle nazioni”, compresa la costruzione della “Fortezza Europa”; il sostegno alla Bundeswehr, al servizio militare obbligatorio e al riarmo, ma contro la spesa per le guerre di altri paesi; la critica e la partecipazione ad azioni di boicottaggio contro le misure politiche del governo centrale nei settori della salute (misure nel contesto della pandemia di coronavirus), della protezione del clima e dell’istruzione pubblica. A ciò si aggiunge la provocatoria negazione del riscaldamento globale causato dal capitalismo.

Al suo recente congresso per le elezioni europee, l’AfD ha votato a maggioranza contro l’uscita dall’UE, contro l’uscita dall’euro e il ritorno al Deutsche Mark e infine a favore dell’adesione al gruppo politico dei partiti di destra radicale al Parlamento europeo (Partito Identità e Democrazia, per intenderci, quello a cui aderiscono la Lega italiana, il Rassemblement francese di Marine Le Pen, l’FPO austriaco e il Vlaams Belang fiammingo, ndt). Ma l’AfD continua a rifiutare l’UE come questione di principio.

Nell’attuale dibattito sul sostegno all’Ucraina, la maggioranza dell’AfD si oppone alle forniture di armi e alle sanzioni, mentre cerca contatti con i gruppi di estrema destra russi.

Alle ultime elezioni federali, l’AfD ha riassunto questi elementi ideologici in modo piuttosto popolare con lo slogan della campagna “Deutschland – aber normal” (Germania – ma normale).

Una politica che gioca sulla paura 

Come altri partiti di destra, precedenti all’AfD o attualmente vicini ad esso, la principale leva dell’AfD consiste in una politica che utilizza paure non specifiche. Non si rivolge alle persone che sono già state direttamente colpite dalla Realpolitik capitalista – che costituiscono la maggior parte degli astenuti – ma alle classi medie e basse che temono il declino e il deterioramento della loro situazione economica, ma che non hanno ancora sperimentato questa caduta.

A loro vengono presentate due storie. In primo luogo, si dice che l’immigrazione incontrollata sia la causa di questo rischio di deterioramento.

In alternativa alle teorie di sinistra sulla contraddizione tra “chi sta in alto e chi sta in basso”, viene dipinta un’opposizione esacerbata tra “chi sta dentro e chi sta fuori”. La misura politica più importante sarebbe quella di impedire ogni nuova immigrazione e di rimandare indietro gli immigrati indesiderati che non possono essere sfruttati economicamente, e di collegare tutte le misure di politica sociale ed economica a un diritto razzista al sangue, contrapposto allo ius soli.

La seconda narrazione si riferisce all’attuazione di questa politica da parte di uno stato autoritario che deve eseguire la “sana volontà del popolo”.

Queste idee politiche si ritrovano anche nell’FDP, nella CDU/CSU-Unione Cristiano-Sociale in Baviera e in parte della SPD di destra.

L’AfD svolge il ruolo classico dei gruppi fascisti, denunciando l’indecisione e l’incoerenza degli altri partiti (i “vecchi partiti”) ed esprimendo e chiedendo ciò che “tutte le persone ragionevoli” in realtà vorrebbero. I principali avversari ideologici dell’AfD, oltre a Die Linke, che si colloca esplicitamente nel campo opposto, sono quindi i Verdi, la cui pretesa di modernizzare la società capitalista in senso liberale ed ecologico e di renderla capace di rispondere alle sfide attuali è ciò che li ostacolerebbe maggiormente.

Dopo otto anni di successi elettorali quasi ininterrotti, l’ascesa dell’AfD si è arrestata in concomitanza con la pandemia di Covid. Il motivo principale è che in quel momento la situazione non era caratterizzata da una paura indefinita, ma dalla paura concreta della popolazione per i rischi sanitari.

In una situazione del genere, le elezioni vengono vinte dai partiti, ma anche dai governi e dai loro leader: in altre parole da chi gestisce il potere. Erano richiesti uomini e donne d’azione.

Questo ha aumentato l’affluenza alle urne e ha frenato la mobilitazione dell’AfD. Con il nuovo “tema caldo” della guerra russa, del riarmo e del dominio della NATO, queste relazioni tra i tipi di paura percepiti e l’azione dell’esecutivo sono cambiate di nuovo a favore dell’AfD.

Voto di protesta?

Non ha senso speculare oggi se la forte popolarità dell’AfD sia espressione di un voto di protesta o di una “coscienza di massa” radicata nell’estrema destra. Il fatto è che le classi medie della società sono sempre più erose economicamente e politicamente e che questi strati esprimono quotidianamente sia una coscienza tradizionalmente di destra presente da lunga data in Germania sia un comportamento di protesta. Purtroppo, il successo dell’AfD è proprio quello di riuscire a dare eco a questi due atteggiamenti.

L’idea che generalmente si riferisce alla “teoria del voto di protesta”, che implica che i voti a favore dell’AfD sarebbero solo temporanei e potrebbero essere “recuperati” da un’altra politica sociale, è quindi un’illusione. Un’efficace politica sociale alternativa può essere solo parte di un’alternativa complessiva di sinistra.

Per i partiti borghesi, ciò significa che saranno sottoposti a una pressione crescente per collaborare con l’AfD su responsabilità esecutive [a livello regionale e comunale, si veda l’articolo pubblicato su questo sito il 27 giugno 2023] e progetti di coalizione. Questo accade già da tempo a livello comunale.

Sarà una caratteristica delle prossime campagne elettorali in Germania. L’AfD adotterà sempre più posizioni concrete, in particolare sulla politica dei rifugiati e dell’immigrazione, nonché offensive ideologiche abbinate a promesse di collaborazione più o meno esplicite.

Una politica di speranza

Per Die Linke e per le forze di sinistra in generale, l’ascesa della destra rappresenta una grande sfida esistenziale. Die Linke è il principale nemico dell’AfD. Il partito è ora oggetto di numerosi attacchi e minacce. Le forze di sinistra devono capire che solo una proposta, un’offerta globale, di una politica di sinistra di speranza e di fiducia nelle proprie forze può far retrocedere la politica della paura.

Per fare questo, le forze di sinistra devono riprendere autonomamente i temi che l’AfD ha fatto propri e integrarli in una politica complessiva di sinistra: difesa dei posti di lavoro e dei redditi, aumento della spesa in tutti i settori dei servizi di interesse generale (servizi pubblici), redistribuzione dall’alto verso il basso. Il programma delle forze di sinistra non deve limitare i diritti democratici, ma mirare a estenderli.

Ci può essere un’apparente convergenza nelle critiche – all’Unione Europea, all’attuale politica di riarmo e ad altre questioni – ma non ci deve essere alcun terreno comune nell’azione o nelle iniziative politiche.

Non dobbiamo mai dimenticare i punti di divergenza molto più importanti: internazionalismo contro nazionalismo razzista, solidarietà contro esclusione, frontiere aperte contro fortezza Europa, protezione dell’ambiente contro negazione della catastrofe climatica e molto altro ancora.

La nostra mobilitazione si basa su lotte di auto-emancipazione e auto-organizzazione piuttosto che su lotte di competizione all’interno delle classi subalterne. Difendiamo l’estensione dei diritti democratici e dell’autodeterminazione contro la speranza riposta in uno stato forte.

Solo le forze di sinistra possono essere efficaci contro la destra – questo deve diventare lo slogan centrale di un’ampia gamma di azioni contro l’AfD e i suoi circoli di influenza. Si tratta di una formulazione moderna di una politica di fronte unito contro la destra, che potrebbe aumentare nuovamente il successo elettorale dei partiti di sinistra.

Che ne è stato di quei tre aerei schiantati al suolo a metà giugno?

di Fabrizio Burattini

Tre aerei RyanAir si sono schiantati in rapida successione, con un bilancio di 600 morti.

È successo sei settimane fa. E già non ne parliamo più. 

Com’è possibile? Dovremmo sapere tutto sui Boeing 737, sulle condizioni di manutenzione degli aerei, sui loro infernali viaggi di andata e ritorno, sulle condizioni di lavoro del personale, sulla convenienza del prezzo scontato che dobbiamo pagare per un viaggio di andata e ritorno…

Sì, sono morte 600 persone, ma non erano turisti stipati negli affollati torpedoni volanti della RyanAir. Erano migranti inghiottiti senza pietà nelle acque blu del Mediterraneo, appena fuori dalle coste della Grecia. 

Erano ancora più stipati dei turisti low cost di RyanAir. Eppure erano high-cost: ognuno di loro aveva pagato tra i 4.000 e i 6.000 euro. Però erano pakistani, siriani ed egiziani.

Abbiamo salvato circa novanta siriani ed egiziani e una dozzina di pakistani. Nessuna donna o bambino. Un tempo si diceva “prima le donne e i bambini”… 

Ma tutto questo era prima. E le donne e i bambini erano rinchiusi a doppia mandata nella stiva della vecchia bagnarola.

Il ponte, l’aria aperta e la possibilità di sopravvivere a un naufragio erano per gli uomini, preferibilmente egiziani e siriani (evidentemente i pakistani erano tutti in economy class), anche se non c’erano giubbotti di salvataggio né hostess che te ne spiegano l’uso. 

Gli altri, rinchiusi, sono affondati senza possibilità di scampo, come pietre, in una prigione galleggiante che non ha raggiunto la sua destinazione, l’Italia.

Le inchieste condotte da qualche media hanno rapidamente stabilito che il naufragio è stato dovuto alla lentezza della guardia costiera greca e al suo criminale desiderio di rimorchiare con una corda il vecchio peschereccio alla deriva, e di farlo non verso la costa più vicina (cioè quella greca) ma verso le acque italiane, così, tanto per per sbarazzarsi del problema. 

Dal canto suo, Frontex ha giurato di aver lanciato l’allarme e, di passaggio, si è impegnata a non fornire ulteriore assistenza nelle manovre di respingimento in alto mare (ammettendo dunque di averlo sempre fatto finora).

In risposta alle richieste di responsabilità della Commissione europea, il governo greco ha risposto che non dobbiamo credere a tutte le favole diffuse dai “sostenitori delle frontiere aperte”

Alcuni trafficanti egiziani sono stati imprigionati e sono oggetto di un’indagine penale. 

Per il resto, abbiamo già abbastanza di cui preoccuparci: il caldo, gli incendi,  la penosa situazione dei turisti italiani in fuga dagli incendi e costretti a dormire per terra nelle palestre comunali di Rodi e di Corfù, l’industria turistica che rischia di fallire, i voli in ritardo, quelli cancellati, come chiederne il rimborso? e, qualche settimana fa, le tragiche notizie del sottomarino affondato con qualche miliardario dentro mentre cercava il relitto del Titanic…

Tutto questo mentre migliaia di aerei (Ryan Air e non solo) si incrociano sopra ogni altra parte del mondo, dando un contributo speciale all’incremento dell’inquinamento. E mentre orde di turisti si affollano sulle spiagge del Mediterraneo, che è un po’ come andare in costume da bagno sui bordi di un immenso cimitero.

Chi adotterebbe un atteggiamento così inerte nel caso in cui un po’ di aerei di una compagnia qualsiasi si schiantassero al suolo? 

Le istituzioni della UE per qualche istante hanno pianto lacrime di coccodrillo, ma poi hanno stretto la mano a Kyriakos Mītsotakīs, così come mesi prima, dopo l’altro disastro aereo di Cutro, l’avevano stretta a Giorgia Meloni e hanno stipulato accordi con gli “amici” libici, con quelli turchi e quelli tunisini, pagati fior di miliardi di euro per “arginare il flusso”. 

Questa Europa non è la mia. E la Grecia la cosiddetta “culla dei valori democratici” ne è diventata il becchino