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Ucraina, la sinistra, se non partecipasse alla resistenza cesserebbe di esistere

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Ucraina-Russia, otto verità

Contrastare le illusioni complottiste sulla guerra russo-ucraina


di Yorgos Mitralias


In un momento in cui il tentativo di colpo di stato di Yevgeny Prigozhin e la successiva brutale eliminazione di Prigozhin stesso e degli altri leader dell’esercito privato della Wagner danno luogo a una valanga di commenti stravaganti tutti complottisti e cospirativi in varia misura, non c’è niente di meglio che attenersi ai fatti e alle prove, che abbondano in questa guerra russo-ucraina. Quindi, per aiutara a trovare la strada in questo labirinto da incubo, diamo un’occhiata ad alcune di queste sconvolgenti verità…


1. Innanzitutto, se oggi parliamo delle conseguenze catastrofiche di questa guerra, che dura ormai da 18 mesi, lo dobbiamo al presidente ucraino Volodymir Zelensky. E perché? Perché è stato lui a cogliere di sorpresa tutti, non solo gli strateghi del Cremlino ma anche gli alleati occidentali, Stati Uniti in testa, quando, all’indomani dell’invasione del suo paese da parte dell’esercito russo, ha scelto di rimanere in patria e di combattere fino in fondo, rifiutando la proposta del presidente Biden di esfiltrazione dall’Ucraina con la sua ormai storica frase: “La battaglia si combatte qui, in Ucraina. Ho bisogno di armi, non di un taxi”. 


Quello che è successo dopo ha dimostrato che la scelta di Zelensky di resistere è stata pienamente condivisa dalla stragrande maggioranza dei suoi compatrioti, compresi i cittadini di lingua russa. Ecco perché la presunta “passeggiata” dell’esercito russo si è rapidamente trasformata in una disfatta e perché non è riuscito a conquistare Kiev e il resto dell’Ucraina in 3-4 giorni, come avevano previsto il Cremlino e la NATO. E perché gli alleati occidentali, sotto la pressione dell’opinione pubblica, sono stati costretti a cambiare radicalmente i loro piani e ad aiutare l’Ucraina a difendersi.


2. Tuttavia, per l’Occidente, “aiutare l’Ucraina a difendersi” non ha mai significato aiutare l’Ucraina a battere la Russia. Come abbiamo scritto lo scorso febbraio, “predicando – in un modo o nell’altro – la necessità di ‘non umiliare Putin’, la maggior parte di queste proposte di pace sono condizionate dalla necessità delle grandi potenze occidentali di non tagliare i legami con la Russia, il suo mercato e le sue materie prime. Ecco perché gli aiuti militari offerti dai paesi occidentali all’Ucraina ricordano impercettibilmente quelli offerti dai paesi del “socialismo reale” al Vietnam che combatteva contro l’aggressione americana: abbastanza per non essere sconfitti, ma non abbastanza per vincere…”


È per questo che gli aiuti militari occidentali, e soprattutto americani, agli ucraini sono sempre stati dati con parsimonia e dopo molte tergiversazioni, impedendo all’esercito ucraino di approfittare delle successive vittorie intorno a Kharkiv (settembre 2022) e poi a Kherson (novembre 2022), per sferrare un colpo a un esercito russo sull’orlo del collasso.


3. Non a caso, già nel giugno 2022, avevamo notato che “le ‘stranezze’ di questa guerra non hanno fine”. Ad esempio, come spiegare il fatto – senza precedenti nella storia del mondo – che i due paesi in guerra non hanno gli stessi diritti e quindi non combattono ad armi pari? In altre parole, mentre uno (la Russia, l’aggressore) ha diritto a una forza aerea, l’altro (l’Ucraina, il difensore) non ce l’ha. Che una (la Russia) ha il diritto di monopolizzare i cieli sull’altra (l’Ucraina), mentre l’altra – che di fatto è quella che si difende – ha solo il diritto di essere sommersa di bombe e missili dal cielo. Inoltre, mentre la Russia può avere e usare armi pesanti di ogni tipo senza alcuna restrizione, l’Ucraina, che si sta difendendo, può usare solo armi “difensive” e non “offensive”. Inoltre, mentre la Russia può bombardare l’Ucraina sparando cannoni e missili dal territorio russo e bielorusso, all’Ucraina è espressamente vietato rispondere colpendo obiettivi all’interno della Russia e della Bielorussia, ecc. ecc. Purtroppo, 18 mesi dopo, questo testo è ancora di grande attualità…


4. La ragione principale del costante rifiuto dell’Occidente, e in particolare degli Stati Uniti, di dare all’Ucraina tutto ciò di cui ha bisogno per vincere questa guerra è che la priorità assoluta dei leader americani è quella di fare tutto il possibile per affrontare il loro principale, se non unico, concorrente e avversario, cioè la Cina! Ecco perché gli Stati Uniti hanno sempre voluto non solo non aprire un secondo fronte contro la Russia, ma anche chiudere il capitolo della guerra russo-ucraina il più rapidamente possibile, costringendo Kiev, se necessario, a cedere la Crimea in cambio di una pace, per quanto fragile. In altre parole, fare l’esatto contrario di quanto sostenuto da tutti coloro che attribuiscono ai leader americani l’intenzione di prolungare la guerra in Ucraina all’infinito…


5. È solo la sua guerra contro l’Ucraina, e non gli intrighi e le altre “trame” dell’Occidente, a destabilizzare il potere finora piuttosto stabile del presidente Putin. Ad esempio, se non fosse stato per questa guerra e per la sua disastrosa conduzione, Yevgeny Prigozhin non avrebbe mai immaginato di guidare un piccolo esercito di alcune migliaia di suoi mercenari, supportati da circa 400 veicoli blindati e altri mezzi militari, a marciare su Mosca, contro lo Stato Maggiore dell’esercito russo e persino contro il Cremlino! 


E non sono chiaramente i “complotti” della NATO i responsabili della brutale eliminazione dei tre principali leader di Wagner, né delle successive – non meno brutali – epurazioni di decine di alti ufficiali e generali russi, né della proliferazione di eserciti e altre milizie private, né della deriva sempre più autoritaria, repressiva, antidemocratica e dittatoriale dell’assediato regime di Putin. 


Dopo aver inventato di sana pianta una guerra coloniale del tutto inutile contro l’Ucraina in nome delle tradizioni e delle ambizioni imperiali della loro “Grande Russia”, Putin e i suoi complici stanno ora pagando il prezzo delle loro manie di grandezza imperialiste: il loro potere sta entrando in una crisi terminale, la loro Federazione Russa è ora minacciata dal collasso e, soprattutto, una guerra civile caotica e terribilmente pericolosa si profila all’orizzonte…


6. Ovviamente, la mancanza di motivazione da parte di alcuni (i russi) e l’eccesso di motivazione da parte di altri (gli ucraini) spiegano in parte il fallimento dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Tuttavia, questo fallimento rimarrà un mistero finché non terremo conto delle tradizionali carenze dell’esercito di questa Russia così a lungo presentata come “la seconda potenza militare del mondo dopo gli Stati Uniti”


Operando secondo il modello sovietico dell’era staliniana, cioè altamente centralizzato, non incoraggiando l’iniziativa tra i suoi ufficiali, mancando di sottufficiali, trattando i suoi coscritti in modo bestiale e agendo secondo piani preconcetti applicati alla lettera, l’esercito russo è minato dall’interno da una diffusa corruzione a tutti i livelli e soprattutto dalla cieca obbedienza che i suoi soldati sono obbligati a mostrare verso i loro superiori. 


Le conseguenze sono disastrose: la realtà non sale in cima alla gerarchia perché viene sistematicamente nascosta ai superiori che vogliono sentire solo “buone notizie”. È per questo che decine di generali russi che hanno osato dire la triste verità sono stati immediatamente rimossi dai loro incarichi (ad esempio l’architetto dei rari successi russi durante la guerra, il generale Sourovikin, molto brutale ma anche molto competente) e sostituiti da altri che nascondevano la loro incompetenza dietro il loro servilismo.


Inoltre, è stato proprio questo comportamento servile a persuadere l’onnipotente FSB (il controspionaggio russo) a convincere Putin a lanciare l’invasione dell’Ucraina, presentandogli un’immagine della realtà ucraina (militare, sociale e politica) che era l’esatto contrario di ciò che l’esercito russo ha incontrato sul campo, con i risultati catastrofici che tutti conosciamo… (si veda a questo proposito l’eccellente libro del colonnello Michel Goya e di Jean Lopez “L’ours et le renard. Histoire immédiate de la guerre en Ukraine”, pubblicato da Perrin).


7. Tuttavia, questi clamorosi fallimenti da parte dell’esercito russo non devono farci credere che la fine di questa guerra sia vicina, tanto più che l’esercito russo si è nel frattempo ripreso e, approfittando della mancanza di risorse degli ucraini che non hanno potuto sfruttare le vittorie dello scorso autunno, ha rafforzato le sue difese ovunque. 


Quindi, ancor più che in passato, ci troviamo di fronte alla domanda che è stata fondamentale fin dall’inizio di questa guerra: quale sostegno dare alle vittime di questa aggressione, affinché possano difendere efficacemente il diritto all’esistenza della loro nazione, del loro stato e dei loro cittadini. Perché dovremmo farlo?


Perché il presidente/dittatore Putin, che ha voluto e scatenato questa palese aggressione armata, ha avuto il merito di spiegare pubblicamente, in più occasioni, in modo dettagliato e molto chiaro, l’obiettivo della sua guerra: cancellare dalla faccia della terra, una volta per tutte, lo stato ucraino e tutto ciò che ricorda l’Ucraina, perché, secondo lui, né la nazione ucraina né gli ucraini sono mai esistiti.


8. La risposta, la nostra risposta, deve essere chiara e categorica: fare di tutto per sostenere gli ucraini di fronte alle pressioni e ai ricatti degli “amici” occidentali che cercano solo di difendere i propri interessi imperialisti. Soprattutto, dobbiamo fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini a sconfiggere il “grande nemico russo” che è determinato a sterminarli. Ciò significa armare adeguatamente gli ucraini, affinché possano almeno combattere ad armi pari. Perché tutto si deciderà sul campo di battaglia. Tutto il resto sono solo discorsi indecenti, ipocriti e in malafede

Michele Santoro si candida a dirigere una lista per le europee


Qualche giorno fa, il quotidiano “Il Manifesto” ha intervistato Michele Santoro e così Pulcinella ha rivelato il suo segreto: tutto il rinnovato attivismo di questi ultimi mesi dell’ex giornalista RAI era evidentemente finalizzato a preparare una sfida elettorale e a cercare di reclutare come carne da cannone per l’impresa la base militante dei Verdi e della “sinistra radicale”.

di Fabrizio Burattini

Evidentemente prevedendo che le prossime elezioni europee consentano a parte importante dell’elettorato un comportamento più libero dalle preoccupazioni del “voto utile”, il giornalista con l’intervista rilasciata il 24 agosto a Andrea Carugati del Manifesto ha deciso di “scoprire le carte” e di candidarsi a dirigere per le europee del prossimo giugno una “lista arcobaleno”: sono consentiti gesti scaramantici, visto il disastro che una lista proprio di quel “colore” nel 2008 portò definitivamente la “sinistra radicale” fuori del parlamento.

Sarà una lista pacifista, dice Santoro, evidentemente pensando a quel tipo di “pacifismo” filoputiniano e antiucraino che, si dice, sarebbe maggioritario nel paese e che, dopo il decesso di Berlusconi, è rimasto privo di padre nobile.

D’altra parte, nell’intervista, Santoro cita un unico obiettivo per caratterizzare la lista: la cessazione di ogni fornitura di armi alla resistenza ucraina. Non la difesa del reddito di cittadinanza, non il salario minimo (“inutile se continua la guerra”, dice l’anchormen), non la piaga delle morti sul lavoro né l’inflazione o il carovita… 

L’importante per Santoro (e per la sua multipiattaforma televisiva “Servizio pubblico) è che Putin vinca rapidamente la guerra, così si risolverà tutto.

In qualche modo, Michele Santoro non ha dimenticato la sua giovanile militanza stalinomaoista nel gruppo di “Servire il popolo” diretto da Aldo Brandirali.

Sia chiaro, non si vuole qui dimenticare né sminuire il coraggio politico dimostrato da Santoro durante la sua brillante e temeraria carriera giornalistica nella denuncia dei misfatti delle classi dominanti nazionali e internazionali negli ultimi trent’anni. Né si vuole insinuare che, stanco di girovagare da una televisione all’altra, punti a sedersi in uno scranno parlamentare di Bruxelles. Peraltro, il “nostro” nell’intervista mette le mani avanti, ricordando che lui al parlamento europeo c’è già stato e che, dunque, se eletto, potrebbe lasciare il posto ad altri.

E infatti alcuni esponenti di punta della coalizione Unione popolare, reduce dalla débacle del settembre scorso, si sono subito detti interessati. Il generale senza truppe Luigi De Magistris trova “i ragionamenti di Santoro in linea con l’obiettivo portare il fronte pacifista nelle istituzioni di un’Europa subalterna alla Nato”

Quanto al segretario del PRC Maurizio Acerbo, appare forse un po’ piccato del fatto che la prima iniziativa di Santoro (che si svolge proprio oggi nella cornice non proprio proletaria di Marina di Pietrasanta) escluda la partecipazione di dirigenti politici e si limiti ad un confronto tra “personalità” (Santoro stesso, De Magistris e la scrittrice Ginevra Bompiani). Comunque, Acerbo si dice molto interessato perché “è necessario unire le voci di chi si oppone alla guerra”.

Non è ancora pervenuta (o mi è colpevolmente sfuggita) una reazione dell’altra componente della coalizione di Unione popolare, cioè il gruppo dirigente di Potere al popolo, probabilmente perché ancora non concordata tra le varie anime di questa organizzazione. 

Resta che, esaurita la disponibilità di “papi stranieri” tra i magistrati (e verificatane la larga inefficacia politica e elettorale), ora qualcuno pensa di passare ai giornalisti.

Prigozhin contro Putin, dichiarazione del movimento femminista antimilitarista russo

Dichiarazione del gruppo femminista russo “Feminist Anti-War Resistance” sugli scontri in corso 

Vogliamo parlare apertamente: il giorno in cui Putin e il suo governo hanno inviato le truppe in Ucraina, hanno messo la Russia a rischio di disastro economico, guerra civile e l’ascesa di una giunta militare. Ora queste minacce stanno rapidamente diventando realtà: è il risultato dell’invasione di terre straniere e dei numerosi crimini del regime di Putin.

Come movimento politico che ha a cuore il futuro del nostro paese, non possiamo sostenere alcuna parte nell’attuale conflitto politico interno. Siamo a favore del ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, dell’arresto dei criminali di guerra (compresi Putin e Prigozhin) e dello sviluppo democratico della Russia. Non per l’ascesa al potere di un altro dittatore e criminale di guerra.

Vogliamo esprimere il nostro sostegno a tutti coloro che ora sono spaventati – i nostri lettori, sostenitori, attivisti. Questi eventi richiedono da parte nostra ancora più auto-organizzazione e aiuto reciproco, il tipo di sostegno che abbiamo imparato per molti anni nel movimento femminista. È tempo di applicare le competenze che abbiamo acquisito attraverso il nostro attivismo per sostenerci e proteggerci a vicenda.

Ernest Mandel, sulla dialettica della nazione e della lotta di classe

Ernest Mandel in due immagini giovanili

Leggendo qua e là le operette morali di tanti “pacifisti per procura”, di tanti trotsko-pacifisti spaventati dalle armi agli ucraini, dedichiamo i seguenti ampi stralci di un lungo articolo di Ernest Mandel, pubblicato per la prima volta in francese alla fine del 1972 sulla rivista belga “Mai”, a tutti quei marxisti che sono affascinati dal pacifismo, a tutti quegli “ultrainternazionalisti” che sono spaventati da “nazionalismo ucraino” ma non vedono il nazionalismo grande russo, a coloro che sono mossi da un “antinazionalismo” che non ha nulla di progressista, a tutti coloro che pensano che gli schiavi debbano dare l’esempio di pacifismo (le sottolineature sono nostre).

di Ernest Mandel, tradotto dal sito contra-xreos.gr

Solo partendo dalla centralità della lotta di classe si può spiegare lo sviluppo del nazionalismo. Tuttavia, il fatto che la teoria del materialismo storico attribuisca alla lotta di classe un posto primario nella storia non significa che la lotta di classe sia l’unico fattore della storia. 

Infatti, in momenti diversi della storia altri fattori possono diventare primari. Ma ogni volta che ci chiediamo perché altri fattori possono diventare primari, siamo ricondotti alla questione della lotta di classe. 

Lo sviluppo del nazionalismo è uno di questi casi.

L’origine della nazione nella società borghese

La questione nazionale nasce dalla lotta di classe. L’identificazione della questione nazionale con l’esistenza di uno stato, di un gruppo etnico, di un gruppo tribale o di un’associazione comunale o territoriale è un completo abuso di linguaggio. 

L’Impero Romano non era un esempio di entità nazionale più di quanto lo fosse il Sacro Romano Impero del Medioevo. L’Inghilterra non era una nazione nel XII o XIII secolo per la buona ragione che una parte significativa della classe dirigente parlava una lingua diversa da quella del popolo e aveva un’origine diversa: erano i Normanni che avevano conquistato l’Inghilterra.

Secondo il punto di vista marxista, la nazione è il prodotto della lotta di una classe particolare, la borghesia moderna, la prima classe nella storia a dare vita a una nazione. Essa ha creato una nazione dal punto di vista economico perché ha richiesto un unico mercato nazionale. 

Per garantire l’unità di questo mercato nazionale, ha eliminato ogni barriera precapitalistica, semifeudale, corporativa e regionale alla libera circolazione delle merci. L’unità nazionale fu creata anche da un punto di vista politico-culturale, perché si basava sul principio della sovranità popolare – un principio che si opponeva alla legittimità della monarchia, dell’aristocrazia o della chiesa – quindi proprio per mobilitare le masse contro le vecchie strutture feudali.

Il concetto di nazione è emerso con le grandi rivoluzioni democratico-borghesi. La prima grande rivoluzione democratico-borghese della storia ebbe luogo nei Paesi Bassi. Fu la rivolta nazionale contro il re di Spagna iniziata nelle Fiandre, che fu sconfitta lì ma ebbe successo nei Paesi Bassi, che diedero vita alla prima nazione moderna con una coscienza nazionale basata su un’infrastruttura capitalista. 

Lo stesso processo è stato osservato successivamente in Gran Bretagna, in Francia con la Rivoluzione francese, in Spagna, Germania, Italia, Polonia, Irlanda, ecc. In ognuno di questi processi gli interessi materiali alla base del concetto di nazione non sono certo motivo di mistero o di speculazione. 

In quel periodo della sua storia, cioè quando era ancora rivoluzionaria e progressista, la stessa borghesia non si sottrae e afferma le cose senza mezzi termini. Se si leggono i proclami della Gironda (che all’epoca era il partito più borghese e più nazionalista della Rivoluzione francese, molto più nazionalista dei giacobini, dato che erano loro a spingere per la continuazione della guerra, non i giacobini) si vedrà la connessione tra questi fattori. 

E, poiché nel 1790 siamo già in un periodo più avanzato rispetto all’Olanda del XVI secolo o agli Stati Uniti del 1776, c’è una terza questione: la competizione commerciale tra la borghesia industriale-artigianale francese e quella inglese. 

Secondo gli storici della Rivoluzione francese, in particolare la scuola di Lefebvre, questa rivalità ha avuto un ruolo molto più importante nelle guerre della Rivoluzione e dell’Impero. Queste guerre non furono semplicemente una lotta tra la borghesia francese contro le altre potenze europee, più o meno controrivoluzionarie, che intervennero per difendere i privilegi dell’aristocrazia francese e della famiglia reale.

La nazione nasce da una specifica lotta di classe, quella della borghesia contro il feudalesimo e le forze semi-feudali precapitalistiche. Il ruolo svolto dalla monarchia assoluta in questo contesto non può essere ignorato. 

Nel caso della Francia è abbastanza chiaro. Il nazionalismo incarnato da una figura come Luigi XIV non è ancora nazionalismo nel senso moderno del termine, ma è un pre-nazionalismo dinastico, nel senso che la monarchia assoluta prefigura un cambiamento nell’equilibrio di potere tra aristocrazia e borghesia. 

Cosa succede quando lo stato borghese, la rivoluzione borghese, trionfa? 

La lotta di classe ovviamente non si ferma, anche se la borghesia vorrebbe che si fermasse in questo momento. Quando la lotta di classe riprende slancio dopo la vittoria della borghesia, si sposta di conseguenza. La lotta delle classi sconfitte si sposta verso la sfera della sovrastruttura. […]

Il proletariato e le rivoluzioni democratico-borghesi in Europa

Mentre la lotta di classe con le forze precapitalistiche si sposta verso la sfera sovrastrutturale, il baricentro della lotta di classe si sposta verso la lotta tra borghesia e proletariato. Proprio in questo momento, Marx scriveva già nel 1847 (molto presto; secondo il suo stesso schema storico, potremmo dire addirittura prematuramente, un punto a cui faremo riferimento più avanti), che “il proletariato non ha nazione”, il che significa che nella direzione di un’organizzazione operaia il nazionalismo o il concetto di nazione non devono avere la precedenza sulla solidarietà internazionale della classe operaia.

Abbiamo detto “prematuramente” perché il Manifesto comunista proclama un principio storico che in realtà rappresenta una previsione che non corrispondeva ancora alla realtà immediata. 

Infatti, solo un anno dopo la stesura del Manifesto comunista, gli stessi Marx ed Engels parteciparono in Germania a una lotta di classe che era anche una lotta nazionale. Essi dichiararono la lotta per l’unificazione della Germania, per la creazione di un’unica e indivisibile repubblica tedesca, uno degli obiettivi centrali della Rivoluzione del 1848. 

Da un punto di vista economico, sociale e culturale, e in particolare in termini di possibilità di crescita del movimento operaio e della lotta di classe, l’unificazione della Germania sarebbe stata un enorme passo avanti. 

La Rivoluzione del 1848 aveva come funzione storica il completamento dei compiti storici della rivoluzione democratico-borghese in cinque paesi europei: Germania, Italia, Austria, Ungheria e Polonia. Queste erano le nazioni inglobate nell’Impero austro-ungarico e in parte sovrapposte all’Impero zarista. 

Tuttavia, furono i controrivoluzionari i vincitori delle battaglie del 1848-49 a dover portare avanti il patto di questa rivoluzione. Fu Bismarck, incarnazione stessa dell’aristocrazia prussiana, a realizzare l’unificazione della Germania, non la borghesia, la piccola borghesia o la classe operaia. 

Lo stesso fenomeno, o qualcosa di molto simile, si verificò in Italia, dove il paese fu unificato dalla dinastia dei Savoia.

Marx, a quel tempo, fu costretto a prendere una posizione pratica che si discostava un po’ dal principio generale proclamato nel Manifesto comunista. Infatti, il principio che “il proletariato non ha nazione” si applicava solo al periodo in cui la rivoluzione borghese era già avvenuta. 

Nel mondo del 1848, Marx ed Engels si trovarono di fronte a una situazione di sviluppo combinato. In tutti i paesi europei in cui l’unificazione nazionale non fu portata avanti dalla borghesia, ciò avvenne perché, in un certo senso, questa borghesia era arrivata troppo tardi sulla scena storica, in un momento in cui la classe operaia era già abbastanza forte da svolgere un ruolo politico indipendente. 

La paura della borghesia di aiutare il processo rivoluzionario era maggiore del suo desiderio di portare a termine il compito dell’unificazione nazionale. In altre parole, in tutti questi paesi era all’ordine del giorno un processo di rivoluzione permanente.

Inoltre, è in questo momento e in questo particolare contesto che nel 1850, per la prima volta nella storia del pensiero marxista, Marx ricorre alla formula della rivoluzione permanente. 

Gli operai tedeschi devono iniziare a sostenere la lotta per l’unificazione del paese, per la vittoria della democrazia borghese. Ma non devono smettere di lottare quando questa classica vittoria della democrazia borghese sarà completata. 

Devono continuare a lottare per difendere i propri interessi come classe contrapposta alla borghesia. In nessun caso devono abbandonare la loro organizzazione indipendente, soprattutto in considerazione del fatto che era estremamente improbabile, se non impossibile, che anche questi compiti borghesi potessero essere portati a termine sotto la guida della borghesia. 

Era molto più probabile che fossero i giacobini piccolo-borghesi, con la loro spada sulle spalle della classe operaia, a portare a termine l’unificazione nazionale. 

Questo era un possibile modello per la Rivoluzione del 1848. Non si è concretizzato. Abbiamo pagato un prezzo molto alto per questo, perché tutte le forze conservatrici e reazionarie in Germania che si sono rafforzate sulla scia di quella sconfitta hanno influenzato il destino dell’Europa, compreso il destino dell’imperialismo tedesco e la nascita del nazismo.

La nazionalità è quindi il prodotto della lotta della borghesia contro le forze feudali e semi-feudali, mentre l’internazionalismo proletario è il prodotto della lotta della classe operaia contro il capitalismo. 

La borghesia ha sviluppato le forze produttive sulla base di mercati nazionali unificati. Le sue merci hanno conquistato e costituito il mercato mondiale. Ma questo mercato è ben lontano dall’essere unificato: non c’è stato uno sviluppo mondiale dell’industria capitalista. 

Il quadro della concorrenza capitalista era fondato sui mercati nazionali e sugli stati nazionali. I capitalisti hanno cercato di trasferire questa competizione alla classe operaia. Dal periodo della Prima Internazionale in poi, i lavoratori più consapevoli hanno risposto che era nel loro interesse, anche economico immediato, opporre la solidarietà internazionale dei lavoratori alla concorrenza globale dei capitalisti. 

Senza questa solidarietà, i lavoratori sono indifesi e verrebbero sistematicamente schiacciati dai capitalisti. L’unica contromisura efficace che potevano usare contro l’immensa superiorità del potere economico era la più ampia organizzazione comune e cooperativa possibile, non vincolata da confini nazionali, razza o gruppo etnico.

E così arriviamo al punto in cui il principio enunciato da Marx nel Manifesto comunista comincia ad avere un’applicazione universale: l’inizio dell’era imperialista. In questa fase la borghesia dei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ma anche di paesi come il Giappone, la Russia e gli Stati Uniti, perde ogni possibilità di svolgere un ruolo storico progressivo e diventa una classe reazionaria e controrivoluzionaria, che sfrutta non solo la propria classe operaia, ma anche gran parte del mondo. 

I marxisti (in primo luogo Lenin e la scuola leninista, ma prima della Prima guerra mondiale tutti coloro che si definivano marxisti) consideravano senza riserve il nazionalismo di questa borghesia imperialista come strettamente reazionario. Lo stesso Kautsky e altri socialdemocratici prima del 1914 ripetevano che ogni volta che la borghesia imperialista usava le parole “difesa della patria” o “difesa della nazione”, ciò che intendeva veramente non era la difesa di un’entità culturale o dei diritti democratici in generale, ma piuttosto la difesa della propria posizione privilegiata nel mercato mondiale, la difesa dei superprofitti coloniali e la difesa delle possibilità di sovrasfruttamento nella parte del mondo che controllava.

Nulla di ciò che è accaduto dal 1914 in poi costituisce un motivo per mettere in discussione questa crisi. Se guardiamo alle analisi fatte da sociologi, storici ed economisti che hanno cercato di negare questa ovvia relazione causale tra sciovinismo, imperialismo e interessi materiali della borghesia imperialista, è evidente che hanno fallito completamente. 

Faccio un esempio. È forse il più notevole e allo stesso tempo il più triste. Mi riferisco al grande economista austriaco Schumpeter, che, a parte i marxisti, è uno dei più grandi pensatori del XX secolo. 

Schumpeter scrisse un brillante articolo per dimostrare che l’imperialismo e lo sciovinismo non hanno nulla a che fare con l’esistenza di una borghesia monopolistica. Come prova citava il fatto che il paese con i monopoli più forti non era né imperialista né sciovinista. Si riferiva agli Stati Uniti. 

Questo poteva sembrare convincente nel 1912; lo è meno oggi, quando l’argomento si presta al ridicolo. 

Rispetto a questo tipo di analisi, le previsioni dei marxisti e le definizioni di imperialismo date da Lenin nel pamphlet del 1917 reggono bene alla prova della storia, rivelandosi strumenti estremamente utili per spiegare ciò che è avvenuto nel XX secolo.

Rivoluzione socialista e nazionalismo

Questo significa che i marxisti, e in particolare i marxisti di scuola leninista, identificano ogni idea nazionale e ogni nazionalismo del XX secolo con il nazionalismo imperialista? 

Non è così. Un’idea, che esisteva già negli scritti di Marx negli ultimi dieci anni della sua vita, è stata estesa nel pensiero marxista dell’epoca imperialista e ha assunto una posizione assolutamente decisiva nella valutazione delle lotte nazionali del nostro secolo. 

Si tratta del semplice concetto che è necessario distinguere tra il nazionalismo degli oppressori e degli sfruttatori e il nazionalismo degli oppressi e degli sfruttati. 

Dico che questo concetto ha origini marxiste. Marx è stato il primo a sviluppare questo concetto in risposta a due questioni specifiche a cui ha attribuito un’importanza colossale in tutta la sua strategia di lotta di classe internazionale: la situazione polacca e quella irlandese.

Salteremo la questione polacca perché è la più familiare (anche se a volte è stata interpretata erroneamente come una tattica specifica contro il regime zarista e solo come una tattica senza alcun legame con un principio più fondamentale), ma la questione irlandese è molto più chiara e precisa a questo proposito. 

Già nel 1869-1870, in un articolo apparso sulla rivista belga L’internationale, Marx scrisse che finché gli operai inglesi non capiranno che è loro dovere aiutare gli irlandesi a ottenere l’indipendenza nazionale, non ci sarà alcuna rivoluzione socialista in Inghilterra. 

Lontano dall’idea che il nazionalismo inglese e irlandese siano equivalenti, che il nazionalismo di una nazione che opprime e quello di una nazione oppressa siano identici, Marx parte da questa distinzione fondamentale. E bisogna dire che la storia gli ha dato ragione. 

Se gli operai inglesi non si fossero identificati con la lotta irlandese, diceva, lo sfruttamento e l’oppressione della nazione irlandese da parte della borghesia inglese avrebbero fatto sì che gli operai irlandesi, destinati a formare una minoranza crescente del proletariato inglese, fossero esclusi dalla lotta di classe per lungo tempo. 

I lavoratori irlandesi non sarebbero stati in grado di formare un fronte unito contro la classe datoriale inglese, perché i lavoratori inglesi avrebbero di fatto formato un fronte unito con la propria borghesia contro la nazione irlandese.

È una caratteristica peculiare dell’epoca imperialista che la distinzione tra nazionalismo degli sfruttatori e nazionalismo degli sfruttati non allontana il proletariato dalla lotta per il potere statale e il socialismo, ma, al contrario, lo porta verso di essa. 

Questo perché nell’era imperialista i compiti di liberazione nazionale e di unificazione delle nazioni oppresse possono essere realizzati solo attraverso un’alleanza tra proletariato e contadini poveri, sotto la guida del proletariato, e attraverso l’instaurazione della dittatura del proletariato. 

La vittoria rivoluzionaria in un paese sottosviluppato sotto la guida del proletariato non può limitarsi alla realizzazione di compiti nazionali e democratici. Dà impulso a un processo di rivoluzione permanente, culmina nella realizzazione dei compiti storici della rivoluzione socialista e stimola un’estensione internazionale della rivoluzione ai paesi altamente industrializzati, dove il compito rivoluzionario immediato è la realizzazione del socialismo. 

Un personaggio come Guy Mollet tenta di dare lezioni di internazionalismo quando sostiene, come fece nel 1955 quando era primo ministro socialdemocratico della Francia imperialista, che nel XX secolo, in un’epoca in cui il concetto di nazionalismo era superato, gli algerini avevano sbagliato a chiedere l’indipendenza nazionale. Chiunque dotato di buon senso potrebbe rispondere al signor Guy Mollet:

“Molto bene. Il concetto di nazionalismo è superato! Perché allora non iniziate a rifiutare il concetto di nazione francese? Perché pretendete che una nazione oppressa superi prima questo nazionalismo, mentre voi, leader di uno stato coloniale e oppressivo, vi rifiutate di abbandonare il concetto di nazionalismo?”.

Lo schiavo non è obbligato a dare l’esempio. Non è allo schiavo che si deve chiedere di astenersi dalla violenza per liberarsi dalle catene. È necessario, se si vuole parlare con questo tono, cominciare a chiedere che il poliziotto, il proprietario di schiavi, cessi l’oppressione e smetta di difendere il suo sfruttamento con la forza. Poi possiamo parlare.

Rifiutiamo qualsiasi equiparazione tra il nazionalismo degli oppressi e il nazionalismo degli oppressori. Poiché il nazionalismo degli oppressori è ripugnante e non contribuisce al progresso ideologico o morale, è ancora più importante affrontare il nazionalismo degli oppressi con attenzione e specificità. 

Quando parliamo di popoli colonizzati (non solo quelli colonizzati dall’estero, quelli che vivono nelle colonie d’oltremare, ma anche quelli che vivono nelle colonie interne, come i neri negli Stati Uniti), quando vediamo la triste condizione in cui si trovano queste popolazioni oppresse, quando vediamo che sono vittime dell’oppressione economica, politica, morale e culturale, e che questa oppressione morale e culturale è molto spesso una sovrastruttura necessaria per il mantenimento dell’oppressione economica e politica, allora dobbiamo ripetere ciò che ha detto Trotsky. 

La nascita di una coscienza nazionale in una nazione oppressa, il tentativo di ottenere la liberazione non solo dall’imperialismo economico e politico, ma anche da quello culturale, è un primo passo sulla strada della realizzazione della dignità umana di ogni individuo e rappresenta quindi un enorme progresso per l’umanità.

Dobbiamo pensare a quale fosse la situazione degli schiavi neri nel XIX secolo. Dobbiamo ricordare come erano i lavoratori salariati neri dopo la guerra civile americana per capire che l’acquisizione della coscienza nazionale da parte di questo strato sovrasfruttato e oppresso rappresenta un enorme progresso. 

È un passo assolutamente inevitabile e necessario per rendere possibile quello successivo, la fusione delle nazioni oppresse di questa specie in un’unica umanità. 

L’internazionalismo tende alla fusione delle nazioni in una società mondiale senza classi. Ma questa fusione avverrà come risultato di un’uguaglianza precedentemente stabilita tra le nazioni. Finché le nazioni rimarranno diseguali, non vedremo mai scomparire la coscienza nazionale degli oppressi. 

Fortunatamente, nessuna forza è in grado di spegnere la scintilla della ribellione che non permetterà l’accettazione passiva dell’ingiustizia e della disuguaglianza.

Dalla Russia, un appello agli amici progressisti occidentali


di Boris Kagarlitsky, da 
russiandissent.substack.com

Un militare russo in pensione da tempo discuteva al telefono con un ex collega che viveva in Ucraina. Entrambi erano indignati per la guerra tra i due paesi un tempo fraterni ed esprimevano la speranza che questa follia finisse presto. 

Orwell o Kafka?

Pochi giorni dopo, alcuni rappresentanti dei servizi speciali hanno fatto irruzione nella casa del russo. Non ha rivelato alcun segreto militare e nessuno lo ha accusato di averlo fatto. È stato invece accusato di aver screditato pubblicamente le forze armate della Federazione Russa. 

L’ex ufficiale, che conosceva la legge, ha replicato che si trattava di una conversazione privata. E che un’accusa del genere si sarebbe dovuta applicare solo alle dichiarazioni pubbliche. “Ma era pubblica”, hanno obiettato gli ufficiali dell’intelligence. “Dopo tutto, l’abbiamo sentita!”.

Non si tratta di un episodio di un racconto scritto da un moderno imitatore di Franz Kafka o George Orwell, ma di un caso che è attualmente oggetto di discussione sui social network russi. Ci sono anche numerose segnalazioni di multe comminate a persone che anni fa hanno accidentalmente dipinto i loro cancelli di giallo e blu, rischiando così un’associazione indesiderata con la bandiera ucraina, o che sono uscite casualmente in strada indossando jeans blu e una giacca gialla. 

La situazione è arrivata al punto che la polizia ha pensato di scrivere una denuncia su una cassa di mele. La frutta era colpevole perché sulla confezione erano presenti gli stessi “colori del nemico”.

I lettori occidentali potrebbero trovare ridicoli tutti questi episodi. Ma provate a immaginare cosa significhi vivere in uno stato in cui si può essere detenuti e perseguiti per aver indossato abiti inappropriati, per aver “apprezzato” un messaggio “sedizioso” sui social network o semplicemente perché al nuovo capo della polizia non piaceva il vostro aspetto. 

Ogni accusa è di per sé provata

In linea di principio, i tribunali russi non assolvono (da questo punto di vista, la situazione è molto peggiore rispetto ai tempi di Stalin), quindi qualsiasi accusa, per quanto assurda, è considerata provata non appena viene formulata. E questo vale non solo per le questioni politiche, che sarebbero almeno in parte comprensibili in tempo di guerra, ma in generale per qualsiasi questione penale o amministrativa.

Ai miei colleghi occidentali che, a più di un anno dall’inizio della guerra, continuano a chiedere comprensione nei confronti di Putin e del suo regime, vorrei porre una domanda molto semplice. Volete vivere in un paese dove non ci sono stampa libera o tribunali indipendenti? In un paese in cui la polizia ha il diritto di entrare in casa vostra senza un mandato? In un paese in cui gli edifici museali e le collezioni accumulate nel corso di decenni vengono ceduti alle chiese, senza tener conto della minaccia di perdere opere uniche? In un paese in cui le scuole abbandonano lo studio delle scienze e prevedono di abolire l’insegnamento delle lingue straniere, ma impartiscono “lezioni su ciò che è importante”, in cui si insegna ai bambini a scrivere denunce e a odiare tutti gli altri popoli? In un paese che trasmette quotidianamente in televisione appelli a distruggere Parigi, Londra e Varsavia con un attacco nucleare? Non credo che lo vogliano davvero.

Capire Putin?

Neanche noi in Russia vogliamo vivere così. Resistiamo, o almeno cerchiamo di preservare le nostre convinzioni e i nostri principi basati sulla tradizione umanistica della cultura russa. E quando leggiamo su Internet un nuovo appello a “capire Putin” o a “incontrarsi a metà strada”, questo viene percepito in Russia come una complicità con i criminali che stanno opprimendo e rovinando il nostro paese.

Questi appelli si basano su un profondo disprezzo, quasi razzista, per il popolo russo, per il quale, secondo i pacifisti progressisti occidentali, è perfettamente naturale e accettabile vivere sotto il dominio di una dittatura corrotta.

Naturalmente, quando si dice che il regime di Putin è una minaccia per l’Occidente o per l’umanità nel suo complesso, si tratta di una completa assurdità. Le persone per le quali questo regime rappresenta la minaccia più terribile sono (a parte gli ucraini, che sono bombardati quotidianamente da granate e missili) i russi stessi, il loro popolo e la loro cultura, il loro futuro.

È chiaro che Putin e il sistema da lui guidato sono cambiati negli ultimi anni; queste stesse persone a metà degli anni 2010 potevano sembrare abbastanza decenti rispetto ad altri politici di tutto il mondo. Certo, perseguivano le stesse politiche antisociali, mentivano allo stesso modo, cercavano di manipolare l’opinione pubblica, proprio come i loro omologhi occidentali. 

Ma la crisi di tre anni, la guerra e la corruzione totale hanno portato a cambiamenti irreversibili, in cui il mantenimento del regime politico esistente si è rivelato incompatibile non solo con i diritti umani e le libertà democratiche, ma anche semplicemente con la conservazione di base delle regole della moderna esistenza civile per la maggior parte della popolazione.

Dobbiamo risolvere questo problema da soli. Nessuno può sapere quanto velocemente accadrà, quante difficoltà ci saranno lungo il percorso, quante persone soffriranno ancora. Ma sappiamo esattamente cosa accadrà. La decomposizione del regime porterà inevitabilmente il paese a cambiamenti rivoluzionari, di cui i sostenitori dell’attuale governo parleranno con orrore.

Ci aspettiamo solo una cosa dal pubblico occidentale progressista: smettete di aiutare Putin con le vostre dichiarazioni concilianti e ambigue. Più frequentemente vengono rilasciate tali dichiarazioni, più i funzionari, i parlamentari e gli agenti di polizia si convinceranno che l’ordine attuale può continuare a esistere con il sostegno silenzioso o i mugugni ipocriti dell’Occidente. 

Ogni dichiarazione conciliante degli intellettuali liberali negli Stati Uniti porta ad un aumento degli arresti, delle multe e delle perquisizioni di attivisti democratici e cittadini comuni qui in Russia.

Non abbiamo bisogno di favori, ma di una misura molto semplice: la comprensione della realtà che si è sviluppata nella Russia di oggi. Smettere di identificare Putin e la sua banda con la Russia. Rendetevi finalmente conto che coloro che vogliono il bene della Russia e dei russi non possono che essere nemici inconciliabili di questo potere.

Ucraina, la staffetta e la pace


di Fabrizio Burattini


Si è svolta qualche giorno fa la “staffetta per la pace”, la cui idea era stata lanciata nelle scorse settimane da Michele Santoro durante una delle sue chiassose comparsate ai talk show televisivi.


Fausto Bertinotti, Moni Ovadia,
Fiorella Mannoia e
Massimiliano Smeriglio
alla staffetta a Roma

Non voglio qui addentrarmi nella tradizionale polemica se l’iniziativa abbia avuto un successo (20.000 partecipanti, secondo gli organizzatori) o sia stato un fiasco. Ma piuttosto cercare di concentrarmi sulla sua ispirazione politica.


Gli staffettisti chiedono la pace (e su questo siamo, credo, tutti d’accordo). Certamente è d’accordo la maggioranza schiacciante delle ucraine e degli ucraini (civili e militari), che stanno pagando sulla propria pelle e con le proprie vite i prezzi maggiori della guerra. Sarà d’accordo certamente anche la grande maggioranza dei soldati russi, mandati a combattere e a morire per una guerra che non è la loro.


E sarà d’accordo anche la maggioranza delle popolazioni delle nazionalità periferiche dell’impero russo presso le quali sono stati reclutati gran parte dei soldati dell’esercito di Putin, sfruttandone la povertà e la fame di lavoro.


Santoro e i suoi sostengono che per poter essere attori di pace occorre una visione non di parte. Ma poi fanno propria buona parte dell’analisi della leadership russa: la Russia sarebbe stata “minacciata dalla NATO”, l’Ucraina sarebbe “colpevole di genocidio nel Donbass”, Kiev sarebbe “infestata dai nazisti” e starebbe conducendo una “guerra contro la Russia per procura degli Stati uniti”, ecc., e mettono al centro della loro mobilitazione proprio due delle rivendicazioni di Putin: “basta con l’invio di armi all’Ucraina” e “basta con le sanzioni alla Russia”. Bella equidistanza…


Dunque denunciano fondatamente l’ipocrisia e il “doppiopesismo” dell’Occidente (“perché non sostenete anche la lotta per l’autodeterminazione dei palestinesi…”) ma lo ripagano con un’analoga ipocrisia e un altrettanto smaccato doppiopesismo, evitando ogni denuncia sulle stragi russe di civili ucraini, sugli stupri, sulle deportazioni di bambini. Loro non vogliono mica essere subalterni alla propaganda di guerra ucraina e occidentale…


E ignorano ogni spirito di solidarietà con la resistenza ucraina, anzi la indicano come strumento docile nelle mani dell’espansionismo occidentale.


Per gli staffettisti, dunque, Putin da carnefice diventa vittima e la Russia da paese aggressore diventa paese aggredito.


In una recente intervista rilasciata alla TV online “Servizio pubblico” di Santoro, il pacifista Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione comunista, arriva a ridimensionare l’aggressività di Putin, sottolineando il fatto che il suo esercito “non è neanche riuscito ad arrivare a Kiev”, ma trascurando che questo non è accaduto non perché i russi non volessero arrivarci, ma perché gli ucraini glielo hanno impedito resistendo accanitamente all’invasione.


Quanto alle sanzioni, Acerbo ci rivela che sono “illegittime” perché decretate senza l’avallo della NATO, ma omette ogni denuncia del fatto che tutta l’azione russa è fatta in totale spregio del cosiddetto “diritto internazionale”.


Dunque l’Italia e l’Occidente, secondo Santoro, secondo i “pacifisti” staffettisti, secondo Acerbo e tutta Unione popolare (PRC + Potere al popolo) dovrebbero smettere di inviare aiuti militari e materiali all’Ucraina e dovrebbero revocare le sanzioni alla Russia.


Come tutto ciò possa “aiutare la pace” è completamente misterioso. La conseguenza più ovvia (e in fin dei conti auspicata da costoro che si inalberano se li si definisce “filoputiniani” ma che fanno di tutto per confermare di esserlo) sarebbe quella di agevolare il successo, finora molto incerto, dell’invasione russa, di consolidare il potere in patria dell’oligarchia putiniana, di decretare la sconfitta dell’eroica resistenza ucraina e dell’altrettanto eroica opposizione democratica russa (quella sì, pacifista davvero), di dare ulteriore fiato al nazionalismo neozarista, di reimbiancare quello che, dopo la tragedia afghana, sembrava il sepolcro della NATO e di spingere altri paesi a far quadrato attorno agli USA e alla loro alleanza, più di quanto non l’abbia già fatto l’operazione speciale di Putin.


La recente votazione dell’Assemblea generale dell’ONU (26 aprile), su di una risoluzione che riguardava altre questioni ma che nella premessa condannava solennemente “l’aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina, e in precedenza contro la Georgia”, il non “rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi stato” e auspicava la “consegna alla giustizia di tutti i responsabili di violazioni del diritto internazionale”, com’è noto, ha visto il voto favorevole della Cina e del Vietnam (oltre che dell’India) e l’astensione di Cuba.

Non ci azzardiamo a fare speculazioni su questo fatto. Ma facciamo notare che i nostri staffettisti avrebbero facilmente bollato come “guerrafondaia” quella “premessa” approvata anche dalla Cina.

Ucraina-Svizzera, lettera al presidente della Confederazione elvetica Alain Berset

di Luca Torticoordinatore del Comitato svizzero contro la guerra e contro il riarmo, dal sito mps-ti.ch

Egregio signor Presidente della Confederazione,

da più di un anno l’aggressione della Russia all’Ucraina sta provocato sofferenze incalcolabili e un disastro umano di dimensioni gigantesche, tra militari e civili uccisi, feriti, prigionieri, scomparsi, rapiti. A questo si aggiunge un disastro economico e ambientale che richiederà sforzi enormi da parte della comunità internazionale. È infatti escluso che l’Ucraina da sola riuscirà a ricucire queste profonde ferite nella società e nel territorio.

La Svizzera ha aderito alle sanzioni contro l’aggressore in data 28 febbraio 2022, con alcuni giorni di ritardo rispetto ai paesi dell’Unione Europea e agli Stati Uniti. Abbiamo criticato questo ritardo, ma abbiamo pure appoggiato la decisione di aderire, convinti che isolare la Russia di Putin con sanzioni economiche mirate avrebbe aumentato le pressioni e contribuito a mettere in difficoltà la macchina da guerra russa. La condizione era ed evidentemente rimane,  che queste sanzioni vengano davvero attuate con grande rigore. In caso contrario il loro effetto sarebbe di molto ridotto e toglierebbe molta credibilità alle dichiarazioni di solidarietà nei confronti della popolazione ucraina.

Il nostro comitato “Contro la guerra e contro il riarmo”, sezione Ticino, ha seguito da vicino l’applicazione delle sanzioni ed è intervenuto a diverse riprese per denunciare una certa lassitudine, carenze nei controlli, poca efficacia.

A titolo d’esempio ricordiamo le nostre prese di posizione, assieme a molti altri, riguardo gli averi degli oligarchi russi nelle banche svizzere (stimati dalle banche stesse a circa 150/200 miliardi di franchi) e di cui ne sono stati bloccati a fine 2022  solo 7.5 miliardi. Una cifra irrisoria dal nostro punto di vista.

Ricordiamo anche, sempre a titolo d’esempio, il fiorente commercio di materie prime in Svizzera che ha stabilito in diversi settori bilanci record proprio durante l’anno della guerra. Notoriamente questo commercio avviene in gran parte con oligarchi russi vicini a Putin e a lui fedeli.

Abbiamo protestato lo scorso mese di settembre per il commercio record di oro russo registrato in Svizzera quel mese (5.6 tonnellate per un valore di 312 milioni di franchi).

Alla fine del 2022 ci siamo indignati pubblicamente per  i risultati di un’indagine inglese che documentava la presenza di componenti prodotti in Svizzera nei missili russi denominati Kh-101, impiegati ancora qualche giorno prima (23 novembre 2022) per bombardare Kiev. La portavoce della SECO affermava in quell’occasione che questi componenti, probabilmente, erano stati fabbricati in siti di produzione esteri e quindi non soggetti alle sanzioni. Questa risposta meritava, secondo noi, una censura da parte del Consiglio federale.

Ancora negli scorsi giorni, fonti giornalistiche che non sono state smentite, hanno indicato con chiarezza e nei particolari che microchip “made in Svizzera” sono stati trovati su droni di ricognizione russi tipo “Orlan”. Questi  droni segnalano alle truppe russe le posizioni dell’artiglieria ucraina. Il resto lo possiamo immaginare tutti.

Come se non bastasse,  alcuni dati doganali visionati da queste fonti giornalistiche, indicano anche la fornitura di beni di “duplice impiego” alla Russia di Putin (macchinari utensili, pezzi di ricambio, strumenti di precisione), cioè beni utilizzati dal settore civile e militare. A questo riguardo la ditta implicata, la GF Machining Solutions, con sede anche a Losone, e la SECO, non hanno fornito risposte esaustive.

Come cittadine e cittadini, militanti attive e attivi nella solidarietà con il popolo ucraino, non possiamo che protestare per  questi scandalosi scambi commerciali che vedono implicate imprese svizzere.

Tutto ciò è in flagrante contraddizione con le numerose dichiarazioni di vicinanza al popolo ucraino che il Consiglio federale ha espresso in questi 14 mesi di guerra.

Tutto ciò è in flagrante contraddizione con il rispetto delle sanzioni adottate a partire dallo scorso 28 febbraio 2022.

La fine di questa guerra sarà  determinata, oltre che da quanto succederà sul campo,  anche dalla portata e dal rigore nell’applicazione delle sanzioni decise. Disarmare economicamente Putin è essenziale per porre fine alle tremende sofferenze del popolo ucraino. La Svizzera non può venir meno a questo impegno.

Chiediamo al Consiglio federale, tramite il suo presidente, di adoperarsi con tutti gli strumenti a sua disposizione per porre termine a questi scandalosi episodi di non rispetto delle sanzioni e di adoperarsi nello stesso modo verso i cantoni per quanto di loro competenza.

Ringraziamo per l’attenzione che verrà portata alla nostra richiesta e salutiamo cordialmente.

Il 24 febbraio

Oggi è proprio il 24 febbraio. Da un anno le bombe russe cadono sulle città ucraine. Da un anno tantissimi civili e innocenti militari ucraini e russi cadono vittima dell’assurda guerra di aggressione messa in atto dall’autocrate del Cremlino e dal suo regime. Da un anno quella guerra sta commuovendo e indignando l’opinione pubblica democratica di tutto il mondo e in particolare in Europa. Da un anno quella commozione e quell’indignazione trovano solo una schifosa sponda nella furbesca operazione degli imperialismi occidentali statunitense ed europei di utilizzarle per legittimare la loro corsa al riarmo, una corsa al riarmo già decisa da tempo, ben prima dell’inizio dell’avventura putiniana.


Da un anno grandissima parte della sinistra, soprattutto in Italia, invece di mettersi in sintonia con quell’indignazione e con quella commozione e invece di raccoglierle, si è attivata per chiedere la cessazione delle sanzioni contro la Russia, e per chiedere la resa della resistenza ucraina. Una resistenza che ha colto di sorpresa Putin, che, come dice Berlusconi, pensava di arrivare in pochi giorni con i suoi tank a Kiev e di sostituire il governo Zelensky con un “governo di brave persone”. Ma è stata una resistenza che ha colto di sorpresa anche l’occidente che aveva consigliato a Zelensky di mollare e di scappare negli Stati Uniti prima che i russi arrivassero nella capitale ucraina.


Invece quella resistenza, popolare ed eroica come solo le resistenze popolari sanno essere, ha costretto tutti a cambiare i loro piani e i loro comportamenti. Ha costretto Putin a ripiegare su una guerra di posizione sanguinosa e che rischia di diventare sempre più interminabile. Ha costretto l’Occidente a tentare di usarla per i propri fini.


Ma non è riuscita a spingere la sinistra italiana a ridefinire le proprie posizioni che sono rimaste sempre e comunque orientate a sostenere la Federazione russa, ritenuta, nonostante le sue nefandezze, l’unico baluardo allo strapotere occidentale, e a difenderne, a volte senza neanche un malcelato imbarazzo, gli interessi e gli obiettivi.


Grandissima parte della sinistra italiana celebra oggi e in questi giorni questa ricorrenza manifestando “per la pace”, riuscendo a mettere Russia e Ucraina sullo stesso piano, tradendo il principio democratico di distinguere tra un esercito aggressore e un popolo aggredito, come tutta la sinistra aveva sempre fatto in tante occasioni distinguendo tra gli Stati Uniti e l’Afghanistan e l’Iraq, tra Israele e i palestinesi, tra la Turchia e i curdi, al di là del giudizio anche negativo che può essere dato sui governi dei popoli aggrediti.


In un anno la sinistra (salvo rarissime e lodevoli eccezioni, vedi qui e qui) è riuscita a non dare mai la parola a chi in Russia si batte contro il regime criminale di Putin né tantomeno a chi in Ucraina sostiene e partecipa alla resistenza pur lottando contro il governo Zelensky e la sua politica neoliberale.

Viva la resistenza Ucraina, viva l’Ucraina libera e indipendente, viva l’opposizione democratica russa

Per l’immediato cessate il fuoco e per il ritiro delle truppe russe dai territori occupati

Ucraina, stop alla guerra

Comunicato del Nuovo Partito Anticapitalista-NPA (22 febbraio 2023)

Basta con la guerra di Putin! Le truppe russe fuori dall’Ucraina! Solidarietà con la resistenza ucraina!


Un anno fa il presidente russo Vladimir Putin ordinava alle sue truppe di invadere l’Ucraina. Nonostante la sproporzione delle forze, nonostante le centinaia di migliaia di morti militari e civili, nonostante la distruzione di città e infrastrutture (soprattutto energetiche), nonostante i crimini di guerra e i presunti crimini contro l’umanità commessi contro di loro, il popolo ucraino continua a resistere.

Eppure Putin si ostina. Sta continuando a mandare al massacro decine di migliaia di soldati della Federazione Russa, spesso provenienti da regioni povere, sta preparando le prossime offensive, insomma non c’è alcuna possibilità che fermi questa invasione contraria a tutto il diritto internazionale.

Difendere i diritti dei popoli contro l’aggressione

Troppi movimenti di sinistra nel mondo, pur condannando le politiche quotidiane di Putin, cercano di giustificare questa invasione come una “provocazione” della NATO, degli USA o degli stessi ucraini. Se conosciamo le turpitudini di lungo periodo dell’imperialismo dominante e delle potenze occidentali alleate, se denunciamo la loro responsabilità storica nella competizione generalizzata sulle merci che porta alle guerre, sappiamo anche che non ci può essere emancipazione senza difendere il diritto dei popoli a resistere all’aggressione. Sarebbe ingiusto e illusorio credere che la pace possa essere fatta sulle spalle degli ucraini per risolvere quello che è soprattutto un “conflitto inter-imperialista”. Per gli ucraini si tratta di una lotta di liberazione nazionale e democratica.

Putin è entrato in guerra nella sua logica di ex agente dei servizi di sicurezza diventato autocrate imperialista, che vuole ricostruire l’ex impero coloniale russo schiacciando tutti i diritti democratici che possono minacciare il suo regime predatorio. Ha pubblicamente annunciato e ripetuto di voler porre fine all’Ucraina come stato indipendente.

Sostegno alla resistenza ucraina armata e non armata

L’intera società ucraina si sta sollevando per difendere la propria libertà, con il sostegno degli oppositori dell’oppressione in tutta la regione. La resistenza ucraina armata e disarmata merita il sostegno della sinistra e degli anticapitalisti di tutto il mondo, al di là di ciò che si può pensare del governo ucraino, al di là dei secondi fini delle potenze occidentali – alle quali Zelensky continua a chiedere aiuti militari per consentire agli ucraini di respingere l’assalto dell’esercito di Putin e impedirne la vittoria. E questo non ci impedisce di rafforzare la nostra denuncia del riarmo globale nel mondo, né della vendita di armi di Macron alle dittature.

Con la Rete europea di solidarietà con l’Ucraina (RESU/ENSU), che abbiamo contribuito a costruire, l’NPA è impegnato nella solidarietà dal basso, indipendente da qualsiasi governo. Solidarietà e legami con le organizzazioni civiche, sindacali e femministe ucraine, ma anche con le organizzazioni antiguerra bielorusse e russe. Per consolidare una prospettiva anticapitalista e i legami con le forze di trasformazione sociale dell’Europa orientale, la sfida è quella di diffondere maggiormente queste azioni di solidarietà. È in questo quadro che, a un anno dallo scoppio di questa guerra iniqua, chiediamo la partecipazione a manifestazioni unitarie per il ritiro delle truppe di Putin dall’intera Ucraina.