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Il blog “Refrattario e controcorrente” cambia sede

Il blog “Refrattario e controcorrente” ha iniziato a pubblicare il 25 febbraio 2022, proprio il giorno dopo l’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. E il primo articolo pubblicato è stato proprio “Una lettera alla sinistra occidentale da Kiev” del compagno Taras Bilous, militante del Movimento sociale ucraino, che si chiedeva e ci chiedeva del perché dell’atteggiamento connivente con Putin di buona parte della sinistra occidentale.

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Gran Bretagna, la tempesta Braverman sul governo inglese 


di Fabrizio Burattini

Il premier britannico conservatore Rishi Sunak ha licenziato la ministra degli Interni Suella Braverman (che aveva criticato la polizia londinese per aver permesso le grandi manifestazioni di solidarietà con la Palestina e aver invece impedito le manifestazioni dei naziskin). 

Sunak, rimossa la Braverman, ha quindi operato un reimpasto nel suo governo, resuscitando nella postazione di ministro degli Esteri l’ex premier David Cameron che si era dimesso dalla carica di primo ministro dopo aver perso il referendum sulla Brexit del 2016.

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Germania, una scissione nazional-populista da Die Linke 


di Fabrizio Burattini

Il 23 ottobre scorso la deputata tedesca Sahra Wagenknecht, che nel 2005 fu tra i fondatori del partito Die Linke, ha annunciato, assieme ad altri nove perlamentari l’uscita da quel partito e la formazione di un nuovo soggetto politico, il Bündnis Sahra Wagenknecht – BSW – Für Vernunft und Gerechtigkeit (Alleanza Sahra Wagenknecht per la Ragione e la Giustizia).

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Quando “il nemico del mio nemico” non è mio amico 


Da Hamas palestinese ad Azov ucraino e all’EOKA di Cipro…

di Yorgos Mitralias

Lo spunto per quanto segue è stato l’importantissimo testo della giovane ucraina Hanna Perekhoda “Se in nome della ‘pace’ tradiamo gli ucraini, come i palestinesi…”, in cui – per dirla con le sue parole – cerca di vedere “le strutture che permettono di non ‘esotizzare’ la Palestina, ma di renderla potenzialmente paragonabile ad altre situazioni di oppressione coloniale e di legittima resistenza portata avanti comunque da organizzazioni di estrema destra ultra-reazionarie”

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Argentina, Massa e Milei dal primo turno al ballottaggio 


Dal “voto punitivo” al “voto difensivo”

di Fernando Rosso, da Le Monde diplomatique, edizione Cono Sur
 
Se nelle primarie di agosto Javier Milei era stato lo strumento diffuso utilizzato da una parte della società argentina per punire la leadership politica tradizionale (che considerava responsabile dei suoi disagi), nelle elezioni generali di questa domenica Sergio Massa è stato lo strumento di difesa contro il fenomeno aberrante che è diventato il leader di La Libertad Avanza (LLA) e la cricca che lo accompagna.
 
Prima delle PASO (elezioni primarie “obbligatorie” interne alle diverse coalizioni, ndt), Milei era diventato una sorta di “significante vuoto” che ogni sostenitore riempiva con la propria rabbia e le proprie richieste, mentre il costo delle sue soluzioni magiche doveva essere pagato dalla “casta”. Alcuni settori sociali precari o diseredati (parte di una nuova sociologia del mondo del lavoro) erano stati catturati da una proposta che presumibilmente non cercava di aggiustare nessuno, che era contro i politici privilegiati, i sindacalisti che tradivano i lavoratori o gli imprenditori fruitori di prebende dello stato. Milei, inoltre, era riuscito a costruire l’immagine di un economista che “sapeva di numeri”, un differenziale rispetto ai leader delle due coalizioni che gestiscono l’economia argentina da un decennio.
 
Tuttavia, dopo la frana di agosto e il suo successo, il suo discorso e quello dei leader del suo partito hanno iniziato a svelare la loro verità. Confondere il sostegno elettorale con l’adesione a postulati ideologici è un vizio di quasi tutte le formazioni politiche degli ultimi tempi.
 
L’atteggiamento di un incendiario irresponsabile e insensibile che ha chiesto un ritiro massiccio dei depositi bancari quando il dollaro aveva superato la barriera psicologica dei mille pesos e l’inflazione dilagava è stato un primo segnale di allarme. 

Come rifletteva un editorialista del quotidiano La Nación: una cosa è aspettarsi che la bomba esploda su questo governo e un’altra è andare in giro per la piazza con la miccia accesa mentre tutto sta per esplodere. 

Lenin scrisse una volta: “la realtà ha spiegato il suo dogma”. Questa volta è stato dimostrato che il canto delle sirene di un’armoniosa dollarizzazione aveva come controparte una violenta iperinflazione. 

Gli striscioni srotolati per la privatizzazione di tutto (Yacimientos Petrolíferos Fiscales-YPF, la compagnia energetica pubblica argentina, ferrovie, educazione, fiumi e persino il mare e le balene); l’appropriazione del discorso dei gerarchi militari nel dibattito presidenziale (la teoria della “guerra” e degli “errori ed eccessi” durante il genocidio); l’invito a rompere le relazioni diplomatiche con i principali partner commerciali del paese (Cina e Brasile) e persino con il Vaticano; e il progetto di legge di uno dei suoi leader che postulava che i padri potessero godere del curioso “diritto” di rinunciare alla paternità; tutto questo completava una combinazione che univa il neoliberismo talebano ad alcuni deliri cosmici. In breve: hanno esagerato, hanno esagerato, inebriati dal trionfo. 

Evidentemente, gli elettori che hanno rifiutato e voluto superare il “mimetismo dello stato” (espressione della crisi del progetto di Unión por la Patria, UxP), la coalizione raccolta attorno al peronismo) o il “neoliberismo progressista” non volevano la terra bruciata di un neoliberismo selvaggio.

Dopo il trionfo nelle primarie, Milei ha cambiato la musica (ha moderato le sue forme, come ha dimostrato nei dibattiti), ma ha radicalizzato i testi del suo programma ideologico-politico. Più calmo e sereno, affermava apertamente che il suo obiettivo era quello di rovesciare il paese come un calzino. Non aveva imparato la principale lezione politica del suo amato “modello” Carlos Menem“Se dicessi cosa ho intenzione di fare, nessuno mi voterebbe”, come disse una volta il passato leader della destra argentina per spiegare una delle chiavi del suo successo iniziale.

Anche l’establishment che aveva promosso la presenza di Milei sulla scena pubblica (per dare un’impronta di destra all’agenda) si è spaventato della sua stessa creazione e ha cominciato a ordinargli di essere punito dai media mainstream, mentre una parte del peronismo, che lo aveva aiutato perché riteneva che avesse influenzato solo Juntos por el Cambio (la coalizione di opposizione guidata da  Mauricio Macri, ndt), smise di collaborare con il leader di La Libertad Avanza

I vantaggi di Massa

Dal bunker di Unión por la Patria, in attesa del discorso di Sergio Massa, il camionista Pablo Moyano ha riassunto la dialettica della contesa elettorale: “La migliore campagna del peronismo è stato il discorso di Milei”, ha detto.

Infatti, insieme ad alcune concessioni economiche (eliminazione dell’imposta sul reddito dei salari, rimborso dell’IVA), Massa e l’UxP hanno sfruttato la narrazione radicalizzata di estrema destra di Milei per spostarsi significativamente verso il centro-sinistra (difesa dei diritti, delle libertà democratiche e proposte come la riduzione dell’orario di lavoro). 

Milei ha facilitato il compito di dispiegare una “campagna della paura” efficace nel contesto di un certo terrore economico provocato dall’inflazione e dalla crisi cronica. 

Da questa posizione, e disconoscendo la responsabilità del clamoroso fallimento di questo governo (si è presentato come il salvatore dell’amministrazione di Alberto Fernández, il presidente uscente), Massa è riuscito ad ottenere un forte recupero (un aumnto di più di tre milioni di voti a livello nazionale tra le primarie e le elezioni vere e proprie). Il pan-peronismo, gravemente danneggiato dai risultati disastrosi dell’amministrazione di Alberto Fernández e attraversato da un eterno scontro interno, è riuscito a riorganizzarsi attorno a una nuova leadership che, domenica sera, ha affermato di volersi lasciare alle spalle la famosa spaccatura e non ha fatto il nome né dell’attuale presidente né di Cristina Kirchner.

Il limite per il candidato del partito di governo, sia nel ballottaggio (per il quale è il favorito) che nell’eventuale presidenza, sta nel programma concordato con il Fondo Monetario Internazionale, che richiede quella che viene eufemisticamente chiamata “riorganizzazione economica” che altro non è che una road map di aggiustamento. Inoltre, il recupero elettorale tra le primarie e le elezioni politiche potrebbe nascondere un dato rilevante: dal 2019 ad oggi, il peronismo ha perso tre milioni e mezzo di voti.

Macri è ormai fuori

Le due forze vincenti (UxP e LLA) sono state alimentate dal clamoroso crollo di Juntos por el Cambio (JxC) che, grazie alla candidatura di Patricia Bullrich, ha perso oltre quattro punti rispetto alle primaie e non è riuscito a mantenere i voti ottenuti da Horacio Rodríguez Larreta

I numeri suggeriscono che una parte importante di questo elettorato è migrato verso Massa e, nel caso di Córdoba (la capitale del movimento “macrista” nei suoi giorni migliori), verso Juan Schiaretti

Bullrich, incoraggiata da Mauricio Macri, è stata la migliore candidata per sconfiggere Larreta e la peggiore per affrontare le elezioni generali. 

Dopo le primarie si è trasformata in uno strano uccello, un misto di falco e di colomba. La radicalizzazione di JxC dopo il fallimento del governo Macri è stata tra le cause dell’emergere di Milei, che ha finito per fagocitare gran parte dell’elettorato “giallo” (il colore della destra radicale argentina tradizionale, ndt). 

La fine o la riconfigurazione della spaccatura avverrà anche a causa della molto probabile disintegrazione della coalizione di Macri. Domenica sera Bullrich ha lanciato messaggi a favore di Milei al ballottaggio; si presume che parte del radicalismo non la seguirà.
 
In ogni caso, diversi referenti di JxC hanno iniziato a sparare colpi contro il padre della sconfitta (Macri), che durante la campagna elettorale ha rilasciato dichiarazioni che sembravano sostenere implicitamente Milei e che, dopo il “passo di lato” con la rinuncia a qualsiasi candidatura (celebrato come un atto di grandezza da alcuni comunicatori), ha trascinato la sua coalizione alla peggiore sconfitta della sua storia.

Legame e equilibrio di potere

La notte delle elezioni primarie avevamo scritto su Le Monde diplomatique“Di fronte alla ‘depressione post-PASO’ che sicuramente invaderà le anime spaventate del progressismo, vale la pena affermare che Milei non sfugge alla ‘maledizione’ del bivio argentino. Quella che afferma che il trionfo elettorale non è sinonimo di conquista di un equilibrio di potere per imporre un progetto politico. Il vincitore del giorno corre anche il rischio di prendere la parte per il tutto e la dimensione della sua speranza è ancora da misurare”.

In modo labirintico, l’equilibrio di potere si è manifestato nelle elezioni generali. L’ultimo mohicano a riconoscerlo è stato proprio Milei, che nel suo discorso di domenica sera ha dato una svolta “gradualista” senza precedenti e ha affermato, come Macri nel 2015: “Non siamo venuti a togliere diritti, ma a liquidare privilegi”

Nello stesso discorso, ha proposto un patto con Bullrich e si è appropriato del rabbioso discorso anti-kirchnerista che ha portato al fiasco della coalizione gialla. 

In altre parole, Milei allude a una collusione con la peggiore delle caste, quella che ha appena morso la polvere della sconfitta.

Allo stesso modo, è stata smentita la tesi di uno spostamento unilaterale e meccanico a destra o di un’avanzata inarrestabile del “fascismo”, e resta in vigore la “legge” del paese del pareggio: la capacità delle coalizioni di porre il veto al progetto altrui senza raggiungere la forza sufficiente per imporre definitivamente il proprio progetto. La configurazione del nuovo parlamento riflette questa realtà.

Il paese dello stallo e dei veti incrociati continua a rimanere chiuso nel suo labirinto – a prescindere dall’apparenza dell’esito del ballottaggio -, mentre la crisi economica si aggrava e si mantengono le ferree responsabilità del governo.

Ecuador, eletto presidente l'uomo più ricco

 

di Fabrizio Burattini

Daniel Noboa (nella foto in alto), che al primo turno era considerato un outsider, è il nuovo presidente dell’Ecuador dopo aver sconfitto, domenica 15 ottobre, nel secondo turno delle presidenziali, la candidata “correista” Luisa González. Il candidato dell’alleanza neoliberale (che si autodefinisce di “centrosinistra”) Acción Democrática Nacional (ADN) ha ottenuto circa 5,3 milioni di voti (52%), con cui ha battuto Luisa González, candidata del partito Revolución Ciudadana, di cui resta ancora eminenza grigia dall’esilio in Belgio l’ex presidente Rafael Correa (che ha governato il paese andino per un decennio, dal 2007 al 2017).

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Italia, Francia, Germania, Europa, i consensi si spostano verso l’estrema destra

di Fabrizio Burattini


Qualche giorno fa si sono svolte le elezioni in due importanti Land tedeschi, la Baviera al Sud e l’Assia (Francoforte) al Nord. L’AfD (Alternative für Deutschland), il partito di estrema destra para-nazista, ha raccolto in Baviera il 14,6% dei voti, (+4,4% e 32 rappresentanti) e in Assia il 18,4% (+5,3% e 28 rappresentanti). L’Afd ormai non è più solo una forza dell’ex Germania orientale ma raccoglie ampio consenso anche nella Germania dell’Ovest. Per contro, i socialdemocratici del cancelliere Olaf Scholz sono crollati all’8,4% in Baviera e al 15,1% in Assia.


Questi risultati non dovrebbero modificare gli assetti governativi dei due land ma sono comunque detonanti sul piano nazionale perché rischiano di segnare la prossima fine del governo di Berlino, la coalizione “semaforo” (rosso per l’SPD, giallo per i liberali del FDP e verde, ovviamente, per i verdi).


Le elezioni nei due land tedeschi confermano quanto la vittoria elettorale dello scorso settembre in Italia del partito diretto da Giorgia Meloni abbia costituito un formidabile incoraggiamento per altri partiti analoghi sparsi per l’Europa a tentare ciò che fino a poco fa sembrava incredibile per forze politiche postfasciste: giungere a governare un paese dell’Europa occidentale, per di più un paese che vantava solide tradizioni antifasciste, perfino codificate nella Costituzione.


Al di là del risultato ottenuto da Giorgia Meloni proprio un anno fa (il 26% dei voti), della sua ascesa al potere e dell’ulteriore crescita nei dodici mesi successivi (negli ultimi sondaggi 30%), infatti, a conoscere un trend di crescita sono anche altri partiti dell’estrema destra europea, che puntano a modificare più o meno profondamente il panorama delle istituzioni della UE.


Un po’ dappertutto


In Francia, al secondo turno delle presidenziali dello scorso anno, Marine Le Pen ha ottenuto la percentuale record del 41,5%. In Ungheria, alle elezioni per il parlamento, il partito di Viktor Orbán (Fidesz-Magyar Polgári Szövetség, Unione Civica Ungherese) ha ottenuto il 54% dei voti. In Svezia, il partito ricettacolo dei neonazisti scandinavi Sverigedemokraterna (Democratici svedesi) diretto da Jimmie Åkesson ha ottenuto il 20,5%, costringendo il partito di centrodestra di Kristersson a stipulare con loro un’alleanza.


Il fenomeno, naturalmente in misura variabile e con qualche contraccolpo (come nel caso di Vox in Spagna), si è prodotto anche in altri paesi, Portogallo (Chega), Finlandia (Veri Finlandesi, Perussuomalaiset), ecc.


In Belgio il partito di estrema destra fiammingo Vlaams Belang (Interesse fiammingo) con il suo 25,8% capeggia i sondaggi in vista delle elezioni parlamentari del prossimo anno. Anche in Austria, il Partito delle Libertà (Freiheitliche Partei Österreichs-FPÖ) è in testa nei sondaggi con il 31% delle intenzioni di voto.


Nell’Europa orientale l’estrema destra è da tempo forte, ma sta crescendo ancora in Estonia, in Croazia, in Romania e in Bulgaria


L’opposizione polacca è molto attiva; negli scorsi giorni ha portato in piazza a Varsavia un milione di persone, ma i sondaggi per il momento fanno prevedere che nelle imminenti elezioni politiche (domenica 15 ottobre) il partito di estrema destra al governo Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwośćpartiti-PiS) si confermi come prima forza politica del paese.


In Slovacchia, com’è noto, nelle recenti elezioni del 30 settembre scorso, il partito socialdemocratico populista filorusso Sociálna demokracia (SMER), diretto dall’ex “comunista” Robert Fico, ha ottenuto la maggioranza relativa (22,95%), conquistando 42 seggi dei 150 del parlamento nazionale slovacco. E’ possibile un’alleanza di governo con l’estrema destra del Partito nazionale slovacco (Slovenská národná strana-SNS) che nelle elezioni ha raggiunto il 5,6% conquistando 10 seggi.


Le ragioni della crescita


La crescita delle estreme destre esprime il forte malcontento delle opinioni pubbliche e la loro ricerca di una leadership “forte” che sappia fare fronte alla crisi economica e alle conseguenze della guerra in Ucraina.


L’estrema destra, proprio perché fortemente nazionalista (o “sovranista” come si dice ora) non è un blocco omogeneo. Lo si è visto con le posizioni diverse che i politici di estrema destra hanno assunto nei confronti della Russia di Putin e della sua avventura ucraina. Molti di questi partiti, come la RN francese, la Lega italiana, il fiammingo Vlaams Belang, Chega in Portogallo, la SMER slovacca e la SPD ceca, avevano posizioni nettamente ostili verso le sanzioni imposte alla Russia, indicate come gravemente dannose per il “popolo” del loro paese.


Ma la corsa verso il potere li sta spingendo, seppure con ritmi diversi, ad allinearsi alla posizione atlantista. Giorgia Meloni lo ha fatto rapidissimamente, rispolverando l’ultra-atlantismo anticomunista di Almirante. Lo stanno facendo anche partiti come il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen in Francia, Chega in Portogallo e il PVV olandese, che stanno esplicitamente cambiando posizione sul regime di Putin e sull’invasione dell’Ucraina.


Per l’estrema destra il punto centrale è quello di cavalcare le ansie economiche degli elettori delle classi popolari e della classe media, che sono quelle più colpite dalla crisi e dalle conseguenze della guerra. Già, durante la pandemia si erano in maniera più o meno radicale opposti alle misure per il contenimento dell’infezione, segnalandone le conseguenze sui redditi delle loro basi elettorali.


Hanno un ruolo tradizionale e nuovamente centrale nella politica demagogica dei partiti di estrema destra i proclami di difesa “culturale” e identitaria contro l’immigrazione, contro l’Islam, contro i pericoli legati al multiculturalismo: non pochi tra loro rispolverano la denuncia della “sostituzione etnica”.


Le prospettive di crescita


Le elezioni europee del prossimo giugno 2024 vedranno probabilmente l’estrema destra radicarsi più profondamente anche nel panorama politico comunitario. I sondaggi nazionali sulle intenzioni di voto suggeriscono che i partiti di estrema destra potrebbero conquistare fino a 180 seggi al parlamento europeo, rispetto ai circa 130 dell’attuale legislatura. La tabella seguente, basata sui più recenti sondaggi sulle “intenzioni di voto” dettagliano questa probabile ascesa.

Fratelli d’Italia, RN in Francia, AfD in Germania e forse Vox in Spagna, non più penalizzato dal bipolarismo tra PSOE e Popolari, dovrebbero emergere come i grandi vincitori, rispettivamente con 27, 25, 18 e 9 seggi. Marine Le Pen ha già messo in moto un’iniziativa diplomatica per radunare i suoi alleati europei di estrema destra e ha aperto una convergenza conflittuale con Giorgia Meloni, la sua principale rivale per la leadership dell’estrema destra continentale.


Due partiti di destra premiati alle precedenti europee del 2019, il PiS polacco e la Lega di Matteo Salvini, a giugno rischiano invece di subire perdite, con la previsione rispettivamente di 22 (-5) e 7 (-18) seggi. 


In Ungheria, Viktor Orbán probabilmente resterà stabile (o in leggera flessione) ma la sua posizione anomala lo isola dagli altri dell’estrema destra (dopo aver rotto con il PPE è rimasto indipendente), ma potrebbe anche fargli giocare il ruolo di mediatore o di “ago della bilancia”.


E’ quasi certo l’ingresso al parlamento della UE di nuovi partiti di estrema destra: l’Alianța pentru Unirea Românilor (Alleanza per l’Unione dei Romeni-AUR), Chega in Portogallo, il Partito Nazionale Slovacco, i Democratici danesi, forse anche l’ultradestra di Reconquête di Éric Zemmour in Francia.


Le contraddizioni dell’estrema destra europea


Come possiamo constatare nell’esperienza italiana, i partiti dell’estrema destra europea hanno tutti il problema di trovare un “equilibrio strategico” tra credibilità di governo e radicalismo politico. Devono “temperare” il loro estremismo per ampliare il loro appeal elettorale e per non inquietare troppo le classi dominanti e le istituzioni statali e comunitarie nella prospettiva di una loro ascesa al potere, devono attenuare il loro euroscetticismo, prendere le distanze dalla Russia di Putin. Ma devono, al contempo, mantenere la loro tradizionale ideologia nazionalista, autoritaria, combinandola con un populismo anti-establishment, che consente loro di continuare a prosperare sul risentimento e sulla rabbia degli elettori.


Questa contraddizione va governata non solo per non impaurire le rispettive confindustrie e per non allarmare troppo i tecnocrati di Bruxelles, ma anche per rendere praticabile una certa cooperazione politica con i partiti della destra tradizionale in paesi come Italia, Finlandia, Svezia e Spagna, forse in Belgio, in Austria, e, magari, anche in Germania, dove già c’è chi prospetta alleanze locali tra la CDU e l’AfD.

D’altra parte, la crescita dell’estrema destra anche a spese dei partiti della destra tradizionale, sta spingendo questi ultimi a spostarsi ulteriormente a destra, nella speranza di recuperare consensi e anche nella prospettiva di collaborazioni di governo. Questo spostamento a destra di partiti tradizionalmente considerati “moderati” è particolarmente visibile sulla questione dell’immigrazione.


Attualmente al parlamento europeo i partiti di estrema destra più atlantisti si raccolgono nel gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), che comprende Giorgia Meloni, lo spagnolo Vox, il PiS polacco, mentre quelli più “estremisti”, un tempo esplicitamente filo-russi, compongono il gruppo Identità e Democrazia (ID), con Marine Le Pen, Matteo Salvini, l’FPÖ austriaco e l’AfD. L’ungherese Fidesz di Orban, come già detto, non è affiliato a nessun gruppo.


Come abbiamo più volte evidenziato, Giorgia Meloni, forte del suo successo in Italia, sta cercando un’interlocuzione con il Partito popolare europeo (PPE), per far acquisire al “suo” ECR un ruolo centrale della politica dell’Unione. Con l’adesione dei parlamentari che si prevede eleggano Vox, finlandesi, l’Alleanza nazionale lettone e l’AUR rumeno, il gruppo potrebbe arrivare alla ragguardevole cifra di 80 seggi (dai 62 attuali).


Fino ad ora, Giorgia Meloni è riuscita a conservare l’equilibrio tra radicalità demagogica e “realismo” della sua governance, indispensabile per poter avere un ruolo in una più ampia alleanza della destra europea. Manfred Weber, il presidente del gruppo parlamentare europeo del PPE, ha chiaramente indicato che i futuri alleati dovranno “rispettare lo stato di diritto” e sostenere inequivocabilmente la NATO, con ciò segnalando la sua deriva illiberale del PiS polacco. 


Ma le dinamiche interne del PPE, acuite anche a causa delle crescenti rivalità tra la CDU tedesca e la CSU bavarese (che i risultati in Baviera e in Assia hanno ulteriormente rilanciato), potrebbero cambiare il campo di gioco per Giorgia Meloni ed i suoi.


Marine Le Pen e Matteo Salvini, con il gruppo Identità e Democrazia, oltre a far conto sulla destra austriaca e su quella belga, cercheranno di reclutare nuovi partner in Slovacchia e in Portogallo, mentre, sottobanco, stanno tramando con Viktor Orbán, il quale però è “corteggiato” anche da Meloni. 


L’alleanza diretta da Marine Le Pen deve gestire il rapporto difficile e “ingombrante” con l’AfD, ora più potente ma palesemente popolata dai neonazisti tedeschi.


In ogni caso, com’è già accaduto in alcuni paesi, tra cui il nostro, anche in Europa il centro di gravità della politica si sta rapidamente spostando verso la destra, compresa quella più estrema.

Femonazionalismo, un libro da leggere

L’amica Sara R. Farris è attualmente docente senior di sociologia presso la Goldsmiths, University of London, e autrice, tra l’altro, di Max Weber’s Theory of Personality: Individuation, Politics, and Orientalism in the Sociology of Religion.

Il suo In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017) è stato pubblicato in italiano da Alegre nel 2019 con il titolo Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne.



Nel volume Sara analizza la rivendicazione di diritti delle donne da parte di un improbabile insieme di partiti politici nazionalisti di destra, neoliberali e da parte di alcune teoriche e politiche femministe.

Concentrandosi sulla Francia contemporanea, sull’Italia e sull’Olanda, Farris definisce “femminonazionalismo” lo sfruttamento e la cooptazione di temi femministi da parte di campagne anti-Islam e xenofobe. L’autrice mostra che, caratterizzando i maschi musulmani come pericolosi per le società occidentali e come oppressori delle donne, e sottolineando la necessità di salvare le donne musulmane e migranti, questi gruppi usano l’uguaglianza di genere per giustificare la loro retorica e le loro politiche razziste. 


Questa pratica ha anche una funzione economica. Farris analizza come le politiche neoliberali di integrazione civile e alcuni gruppi femministi incanalino le donne migranti musulmane e non occidentali nelle occupazioni domestiche e di cura, sostenendo al contempo di promuovere la loro emancipazione. Così, Sara documenta i legami tra razzismo, femminismo e i modi in cui le donne non occidentali vengono strumentalizzate per una serie di scopi politici ed economici.


La sua analisi e la sua interpretazione di un certo “femminismo” come subalterno al capitalismo neoliberale è stata largamente apprezzata da numerose/i commentatrici e commentatori di autorevoli riviste. E ne è consigliata la lettura proprio al fine di attirare l’attenzione del mondo femminista e delle/degli attiviste/i dei diritti civili su una nuova configurazione politico-economica in cui le condizioni neoliberali, le politiche femministe di uguaglianza di genere e il nazionalismo di destra rischiano di fondersi nel sostegno verso relazioni ideologiche e materiali di sfruttamento tra donne occidentali e non occidentali. 


Di fronte alla privatizzazione dei servizi sociali, le donne migranti non occidentali svolgono un ruolo strategico sempre più importante nella riproduzione sociale attraverso la cura e il lavoro domestico. Sono diventate un esercito regolare di lavoratrici, indispensabile per il funzionamento delle economie capitalistiche neoliberali dell’Europa occidentale. La gamma di materiali empirici e teorici riportati dal libro è impressionante e la sua rilevanza per gli attuali dibattiti sull’islamofobia e sulla “questione degli immigrati” in Europa occidentale è veramente inestimabile. 


Qua sotto pubblichiamo una brevissima sintesi degli argomenti sviluppati da Sara nel suo volume, del quale consigliamo vivamente la lettura. La sintesi è stata redatta da Marta Dell’Aquila.


“Bisogna capire che nelle circumnavigazioni della vita ciò che è una brezza piacevole per alcuni può essere una tempesta fatale per altri, a seconda del pescaggio della barca e dello stato delle vele”. Con queste parole lo scrittore portoghese José Saramago, nel suo libro La Caverna (2000), racconta gli sconvolgimenti emotivi e materiali vissuti dal vasaio Cipriano Algor, da sua figlia Marta e da suo genero Marçal, quando l’espansione del centro commerciale minaccia la loro attività familiare.


Nel suo libro In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism, Sara Farris descrive una situazione simile: l’ascesa dei partiti nazionalisti, in uno scenario europeo in cui l’islamofobia e il risentimento verso gli immigrati sono sempre più forti, ha dato vita a una retorica i cui discorsi e campagne elettorali si basano sulla minaccia che gli immigrati, in particolare quelli musulmani, rappresentano per l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne. Le donne immigrate, in particolare quelle musulmane, sono spesso assegnate alla categoria statica e monolitica di vittime, prive di agency e intrinsecamente portatrici dei cosiddetti valori tradizionali.


Nella sua introduzione, Sara Farris sostiene che non sono solo i partiti nazionalisti a vedere l’uguaglianza di genere come un pilastro su cui costruire “agende anti-Islam” e discorsi emancipatori con sfumature coloniali. L’uguaglianza di genere è utilizzata anche da gruppi sociali che si dichiarano antinazionalisti, come le femministe, le organizzazioni femminili e i neoliberisti.


Per presentare la logica politica ed economica alla base di questi attori interagenti, l’autrice introduce il concetto di “femonazionalismo”, che si riferisce allo “sfruttamento di temi femministi da parte di nazionalisti e neoliberali in campagne anti-Islam ([…] anche anti-immigrazione) e alla partecipazione di alcune femministe e femminocratiche alla stigmatizzazione degli uomini musulmani sotto la bandiera dell’uguaglianza di genere”. Attraverso i suoi cinque capitoli e lo studio di tre specifici contesti nazionali (Olanda, Francia e Italia), il libro utilizza un metodo interdisciplinare per presentare la diffusione e le applicazioni di questo concetto.


Nel primo capitolo, “Figure del femminismo”, l’autrice delinea la genealogia della mobilitazione dell’uguaglianza di genere all’interno dei partiti nazionalisti di destra in Olanda (Partito della Libertà), in Francia (Fronte Nazionale) e in Italia (Lega Nord), tra il 2010 e il 2013, per rafforzare le loro agende politiche anti-islamiche e anti-immigrazione e xenofobe.


Farris mostra come questi partiti siano riusciti a strumentalizzare l’uguaglianza di genere e a trasformarla, ciascuno a suo modo, in una “potente arma nella campagna contro i migranti musulmani e non occidentali”. La diffusione di siti web xenofobi è una caratteristica comune di questo ambiente. L’autrice cita il sito promosso dal Partito della Libertà olandese, dove i cittadini potevano inviare le loro denunce contro gli immigrati dei nuovi stati membri dell’UE, o il sito “Tutti i crimini degli immigrati”, promosso dal segretario generale della Lega Nord, che raccoglieva articoli sui crimini, in particolare gli stupri, perpetrati da uomini immigrati in Italia.


Un altro esempio di questa strumentalizzazione è la proposta di creare un “Ministero dell’immigrazione e della laicità” avanzata dalla presidente del Front National, Marine Le Pen, nel 2012. Questo capitolo mostra anche come la partecipazione di femministe e organizzazioni femministe a questa guerra contro la misoginia intrinseca della cultura islamica serva solo a rafforzare un atteggiamento coloniale ed eurocentrico che rivendica la superiorità dei valori occidentali.


Il capitolo 2, “Il femminonazionalismo non è populismo”, ci ricorda che negli ultimi anni sociologi e politologi hanno considerato il discorso a favore dell’uguaglianza di genere portato avanti dai partiti di destra come una forma di populismo: “Una politica che dicotomizza lo spazio politico in ‘noi’ (il popolo puro) contro ‘loro’ (l’élite corrotta o lo straniero)”, in altre parole, una politica definita dalla sua forma piuttosto che dal suo contenuto. In questo senso, le campagne anti-Islam e anti-immigrazione portate avanti dai suddetti partiti nazionalisti, che identificano il nemico comune nell’“Altro”, lo “straniero”, il “migrante”, il “musulmano”, farebbero parte di questa logica populista. 


Tuttavia, secondo Farris, il concetto di populismo – per la cui definizione l’autrice si rifà a Ernesto Laclau (La ragione populista) e Carl Schmitt (Il concetto di politico) – non spiega l’attaccamento di questi partiti alla parità di genere. Il nemico comune a cui questi partiti fanno riferimento è, infatti, un nemico comune maschile, poiché le donne musulmane e le donne migranti non rientrano in questa categoria.


Farris si chiede quindi “a quali condizioni questo nemico può essere diviso in due campi diversi, un campo maschile e un campo femminile”. L’autrice indirizza la sua risposta alle teorie nazionaliste sviluppate nell’ambito del femminismo postcoloniale e della Critical Race Theory (CRT), che includono, in quest’ultima in particolare, le nozioni di “sessualizzazione del razzismo” e di “razzializzazione del sessismo”: attribuendo stereotipi diversi agli uomini e alle donne straniere e facendo del sessismo un dominio esclusivo dell’Altro, queste due nozioni spiegherebbero e giustificherebbero ulteriormente l’uso della parità di genere come strumento di propaganda da parte dei partiti nazionalisti di destra.


Il capitolo 3, “Le politiche di integrazione e l’istituzionalizzazione del femminismo”, fa il punto sulle politiche e sui programmi di integrazione civile per gli immigrati o, nel linguaggio dell’Unione Europea, per i cittadini di paesi terzi. Queste iniziative sono state promosse da alcuni governi liberali (l’Olanda, che ne è stata la pioniera, la Francia e l’Italia) e sostenute dai partiti nazionalisti (soprattutto in Italia); l’uguaglianza di genere è stata uno dei valori chiave di queste iniziative, nonostante l’eterogeneità di questi programmi: in Francia, ad esempio, sono centralizzati e omogenei, mentre in Olanda e in Italia sono decentrati ed eterogenei.


Secondo l’approccio multiculturalista, come quello di Christian Joppke e Yasemin Soysal, l’uguaglianza di genere sarebbe un diritto non negoziabile che fissa i limiti del compromesso culturale, frutto del nuovo carattere liberale, e quindi antinazionalista, degli stati membri dell’Unione europea. Al contrario, Farris sostiene che l’inclusione dell’uguaglianza di genere in questi programmi nazionali, anziché eliminarla, non fa altro che rafforzare il carattere nazionalista e razzista della “svolta verso l’integrazione civile”, definita dall’autrice come una caratteristica intrinseca del liberalismo: questi programmi sarebbero quindi come “la forma più concreta e insidiosa di istituzionalizzazione del femminonazionalismo”, concepiti per salvare le donne razzializzate attraverso un apprendistato ideologico segnato da un colonialismo civilizzatore e dall’eurocentrismo.


Nel capitolo 4, “Femonazionalismo, neoliberismo e riproduzione sociale”, l’autrice esamina le relazioni e le analogie tra il femminismo anti-islamico, il nazionalismo anti-islamico e anti-immigrazione e le politiche neoliberali, in particolare quelle che riguardano l’integrazione e l’emancipazione economica delle donne immigrate in un contesto segnato dal razzismo e dall’islamofobia. Farris avverte già una prima “radicale contraddizione performativa” derivante dalla strumentalizzazione dell’uguaglianza di genere da parte di questi attori, risultato di una disgiunzione tra la teoria, o principio politico, e la pratica, o l’azione politica che dovrebbe scaturirne: questi attori “rafforzano le condizioni di riproduzione, a livello di società, della segregazione delle donne migranti musulmane e non occidentali, dei ruoli di genere tradizionali, dell’ingiustizia di genere che pretendono di combattere”


In altre parole, queste iniziative hanno contribuito a perpetuare alcuni nodi strutturali della disuguaglianza, come la divisione sessuale del lavoro: l’empowerment economico di cui parlano questi autori in teoria non farebbe altro che indirizzare queste donne verso il lavoro domestico e di cura, storicamente connotato come esclusivamente femminile.


L’autrice propone quindi di ricostruire i concetti di autonomia economica ed emancipazione da un punto di vista femminista, e di decostruire la nozione teleologica di emancipazione del femminismo occidentale, che di fatto identifica il lavoro come momento necessario del telos emancipatorio. I concetti di etica produttiva e di lavoro in contrapposizione alla riproduzione sociale con le sue specialità di genere meritano di essere decostruiti a causa dei cambiamenti storici, socio-economici e istituzionali avvenuti nel corso dei secoli.


Nell’ultimo capitolo, “L’economia politica del femminismo”, il libro ritorna al concetto di “esercito di riserva di lavoratori” sviluppato da Karl Marx nel Libro primo del Capitale, per descrivere la posizione delle donne migranti o musulmane nell’economia europea e il tipo di lavoro che svolgono, che è per lo più un lavoro domestico e di cura. Ciò che è particolarmente interessante in questo capitolo è la descrizione del modo in cui le donne migranti, siano esse musulmane o, più in generale, non occidentali, sono percepite nell’immaginario collettivo: come vittime che devono essere salvate, redente o aiutate a integrarsi nella nuova società, ma in nessun modo viste come un pericolo economico e politico per gli uomini.


Per l’autrice, l’analisi di questa stereotipizzazione non può essere intesa come riferita solo ai ruoli sociali che queste donne occupano, ma anche ai ruoli economici che esse svolgono per le economie neoliberali, tenendo conto di alcune dinamiche in evoluzione, come la mercificazione del lavoro domestico e di cura – che, anche nella sua forma retribuita, rimane il settore del lavoro più legato al genere – o la femminilizzazione e razzializzazione di specifici mercati del lavoro.


Ad esempio, “le cattive condizioni di lavoro, la bassa retribuzione e lo status, gli orari di lavoro insalubri e la situazione spesso irregolare che prevale nel settore domestico e dell’assistenza rendono questo lavoro poco attraente per le donne non migranti”. Alla luce di queste considerazioni, l’autrice conclude che il concetto più appropriato per descrivere la posizione delle donne migranti sarebbe quello di un “esercito regolare di lavoratori”, che, da un lato, consente alle donne autoctone/non migranti di uscire di casa e, dall’altro, dà vita a nuove figure professionali, come la badante in Italia.


Per analizzare il fenomeno del “femminismo”, Sara Farris non si limita a una semplice spiegazione ideologica. Propone un’analisi multidimensionale delle dinamiche sociali, politiche e soprattutto economiche che hanno caratterizzato il processo di globalizzazione neoliberista degli ultimi trent’anni.

Grecia, la destra, la sinistra e la catastrofe climatica

Tra il 4 e il 7 settembre la regione greca della Tessaglia è stata colpita da una spaventosa inondazione (quasi 1000 millimetri di acqua in tre giorni), causando una terribile devastazione e numerose vittime. L’inondazione della Tessaglia era legata al passaggio dell’uragano Daniel, lo stesso che con conseguenze ancor più devastanti e tragiche ha colpito la costa libica giorni fa. Pubblichiamo qui sotto l’intervento del nostro amico e compagno greco Yorgos Mitralias che denuncia tutta l’inadeguatezza della sinistra “radicale” greca di fronte a questa emergenza.

di Yorgos Mitralias

Il primo ministro greco Mitsotakis invoca – per l’ennesima volta – la crisi climatica come alibi per nascondere la sua responsabilità per le successive catastrofi naturali che hanno colpito la Grecia, e la sinistra greca, con alla testa la sinistra “radicale”, denuncia – anch’essa per l’ennesima volta – questo gioco di prestigio: il panorama politico che emergerà dalle rovine del prossimo “fenomeno meteorologico estremo” lo conosciamo già. 

Mitsotakis invocherà (di nuovo) il cambiamento climatico e ancora una volta ne uscirà indenne, poiché nella sua bocca, come in quella dei suoi avversari, questo “cambiamento climatico” è qualcosa di simile a un… fenomeno naturale, totalmente al di fuori del controllo degli esseri umani, che non possono farci nulla. 

Con l’inevitabile conseguenza che a loro non resta che subire fatalisticamente questo cambiamento climatico, limitando lo scambio di argomenti e accuse ai soliti… scarichi fluviali che non vengono ripuliti, alle infrastrutture che non vengono mantenute e all’insensibilità di chi è al potere, che se ne frega sistematicamente dei poveri martiri.

Naturalmente, tutto sarebbe completamente diverso e Mitsotakis non uscirebbe quasi indenne da questa nuova catastrofe naturale se la sinistra proponesse il seguente argomento: il cambiamento climatico che Mitsotakis invoca non solo non lo aiuta a sfuggire alle sue responsabilità, ma le aggrava terribilmente. Perché tutte le azioni di cui è già stato giustamente accusato sono semplici misfatti, rispetto al vero crimine che sta commettendo quando non solo non fa nulla per la crisi climatica, ma la aggrava costantemente con le sue politiche. 

E tutto questo di concerto e in piena collaborazione con i suoi amici capitalisti di tutto il mondo. I quali, con il loro sistema capitalistico, hanno creato e continuano ad aggravare la crisi climatica, al punto da renderla la più grande minaccia che la razza umana abbia mai affrontato nella sua storia.

Ma anche dicendo tutto ciò, un’organizzazione, un movimento o un partito non sarebbe di sinistra – e ancor meno radicale – se non sostenesse le sue parole con i fatti, le sue proposte con le sue critiche, per dimostrare in modo tangibile che la sua opposizione alla catastrofe climatica non è una parola vuota senza significato pratico. 

Ad esempio – e questo è solo uno dei tanti doveri fondamentali – chiedendo apertamente l’immediato abbandono e il divieto di tutte le esplorazioni e le ricerche di idrocarburi nel paese. E lottando per questo, mobilitando i cittadini, creando movimenti contro i combustibili fossili o partecipando attivamente a quelli già esistenti in Grecia e nel mondo.

Tuttavia, la cosa più importante – e così cruciale per il nostro futuro – che un collettivo di sinistra dovrebbe fare oggi è di natura diversa, qualitativamente diversa: convincere almeno gran parte della popolazione, e in particolare i salariati e gli oppressi, che al punto in cui siamo arrivati – non più con la catastrofe climatica galoppante, ma con la catastrofe climatica ormai scatenata – anche le misure più corrette e radicali proposte nel 1990, nel 2010 o addirittura… l’anno scorso, sono del tutto inadeguate, superate. 

D’ora in poi, l’unica risposta realistica ed efficace alla crisi climatica “dev’essere radicale – e cioè deve occuparsi delle radici del problema: il sistema capitalista, la sua dinamica di sfruttamento ed estrattivismo, il suo perseguire ciecamente ed ossessivamente la crescita”, il che implica che è impossibile affrontare la catastrofe climatica senza cambiare radicalmente sia il modo in cui produciamo che quello in cui consumiamo. 

In altre parole, non ci sarà salvezza se non cambieremo radicalmente il modo in cui la vita umana è organizzata e vissuta come l’abbiamo conosciuta finora. Questo sta accadendo in tutto il mondo, ma ciò non significa che non si debba cominciare per esempio dalla Grecia.

Se non facciamo tutto questo, cioè se continuiamo a ignorare le conclusioni e gli avvertimenti sul clima dell’IPCC e, soprattutto, quelli del movimento ecologista radicale internazionale, ma anche la realtà sempre più da incubo, allora le conseguenze saranno disastrose per la sinistra stessa e per quel poco di credibilità che le è rimasta. 

Primo esempio (tra i tanti): su quale base si dovrebbero pianificare le grandi opere di prevenzione e protezione dalle alluvioni difese da tutta la sinistra, se non si tiene conto della crisi climatica e dei relativi studi scientifici (ad esempio quelli dell’IPCC) sulla sua futura evoluzione e intensità? Se la crisi climatica non è altro che l'”alibi” di Mitsotakis, la conclusione logica dovrebbe essere che la progettazione di queste misure deve basarsi sui dati e sui modelli esistenti – che sono completamente obsoleti e quindi del tutto inutili – come, ad esempio, il Partito Comunista Greco (KKE) ha costantemente proposto.

Secondo esempio: sulla base di quali previsioni, se non quelle derivanti dallo studio scientifico della crisi climatica, il movimento antirazzista – e di fatto tutta la sinistra – dovrebbe organizzarsi per prepararsi ad affrontare la spinosissima questione dei milioni di “rifugiati climatici” nordafricani che presto attraverseranno il Mediterraneo, provocando inevitabilmente enormi sconvolgimenti nell’attuale equilibrio politico e sociale? 

Secondo le Nazioni Unite, sono già 884.000 i sopravvissuti alla mostruosa catastrofe causata dall’uragano mediterraneo Daniel in Libia, molti dei quali cercheranno naturalmente rifugio sulle sponde europee del Mediterraneo. In altre parole, innanzitutto in Grecia e in Italia, che, per chi non l’avesse ancora capito, si trovano proprio di fronte alla Libia. 

Ed è chiaro che presto ci saranno altrettanti, se non di più, “rifugiati climatici”, compresi i cittadini greci della Tessaglia, colpiti duramente da questo stesso uragano Daniel (oltre 830 mm di pioggia in 46 ore e oltre 1085 mm in tre giorni), perché ormai sappiamo che non solo la frequenza, ma anche l’intensità di quelli che chiamiamo “eventi meteorologici estremi” è in forte aumento. E questo senza considerare gli effetti distruttivi a lungo termine della crisi climatica, come la desertificazione, che sta già avanzando in Grecia, in particolare nella parte orientale di Creta e nel Peloponneso orientale…

Senza dimenticare le conseguenze immediate – e forse più prosaiche e comprensibili – della situazione attuale, dobbiamo notare che i grandi vincitori di questa storia che si ripete continuamente sono Mitsotakis e i suoi simili. E perché? Perché continueranno a non pagare il prezzo delle loro (enormi) colpe, sia alle urne che nella reputazione delle masse. E soprattutto, perché continueranno a non fare nulla per la galoppante crisi climatica che ci promette nuovi disastri di ogni tipo, ancora più grandi e frequenti. 

O peggio ancora, perché continueranno a fare di tutto per peggiorarla. E senza essere seriamente perseguitati da quasi nessuno, perché quasi tutti in Grecia, compresa la maggior parte delle organizzazioni e dei partiti di sinistra, o si dichiarano ardenti difensori dei combustibili fossili, o rimangono vistosamente in silenzio, evitando opportunamente di prendere posizioni che potrebbero rappresentare un problema per loro, oppure riconoscono l’esistenza della crisi climatica ma si astengono dal partecipare ai movimenti globali che la combattono, e difendono con le unghie e con i denti i “nostri” giacimenti di petrolio, che ancora non si trovano da nessuna parte, o, infine, arrivano a denunciare la crisi climatica come… “la più grande frode dell’imperialismo” (Sia detto tra parentesi, anche nella “sinistra” italiana ci sono espliciti negazionisti, ndt).

Se c’è un problema, non dovremmo cercarlo nella parte di Mitsotakis e dei suoi amici, che stanno solo facendo il loro lavoro di capitalisti in modo coerente, ma piuttosto nella parte della sinistra greca, che non sta facendo il proprio lavoro. Una sinistra greca che non prende a modello i movimenti ecologici radicali del “Nord ricco” (che detesta), ma anche quelli dei “los pobres de la tierra”, come la maggior parte dei milioni di membri del movimento contadino internazionale Via Campesina

Una sinistra greca che tace, finge di non capire, trascura la lotta contro la catastrofe climatica o addirittura arriva a dire – almeno alcuni dei suoi componenti – esattamente le stesse cose della reazione capitalista più estrema, delle multinazionali dei combustibili fossili e dei loro vari rappresentanti politici di estrema destra. 

In breve, sta disertando la lotta contro il problema esistenziale più grande, più urgente e più immediato che si trovano ad affrontare in particolare i lavoratori, i poveri e i popoli oppressi di tutto il mondo, cioè l’umanità stessa!

Con il tempo che scorre e il tempo perso che si misura ormai in decenni, la sinistra greca deve rendersi conto che è praticamente impossibile credere di poter sopravvivere senza offrire una risposta completa, chiara, credibile e tangibile allo tsunami della catastrofe climatica che sta ormai interessando ogni “dettaglio” della vita quotidiana delle persone. 

In altre parole, senza offrire un programma e, allo stesso tempo, una visione dell’organizzazione e degli obiettivi delle nostre società che siano alternativi all’attuale modello capitalistico, quello stesso modello che ha portato l’umanità sull’orlo della catastrofe.

Quindi, volente o nolente, la sinistra greca sarà molto presto costretta dagli eventi a partecipare al dibattito internazionale sui contenuti di questo “programma e visione alternativi”. E, naturalmente, a posizionarsi rispetto alla proposta alternativa di portata storica contenuta nel testo-manifesto “Per una decrescita ecosocialista” di Michael Lowy, Giorgos Kallis, Bengi Akbulut e Sabrina Fernandes, da cui il seguente estratto che chiude questo testo:

“La decrescita ecosocialista è una tale alternativa, direttamente opposta a capitalismo e crescita. La decrescita ecosocialista richiede l’appropriazione sociale dei principali mezzi di (ri)produzione e una pianificazione [economica] democratica, partecipativa ed ecologica. Le principali decisioni sulle priorità della produzione e dei consumi vanno prese dalle stesse persone, per soddisfare i veri bisogni sociali nel rispetto dei limiti ecologici del pianeta. Questo significa che le persone, alle varie scale, esercitano direttamente il potere, determinando democraticamente che cosa bisogna produrre, come, e in che quantità. Decidendo inoltre come remunerare diversi tipi di attività produttive e riproduttive che sostengono noi ed il pianeta. Garantire un benessere equo per tutte non richiede crescita economica ma piuttosto di cambiare radicalmente come organizziamo l’economia e distribuiamo le “risorse”.

 

Francia, appello unitario per la marcia contro le violenze della polizia


Uniti contro la violenza della polizia, il razzismo sistemico e per le libertà civili

Quasi 100 manifestazioni sono già in programma in tutta la Francia!

Appello congiunto, già firmato da quasi 150 organizzazioni.

L’omicidio di Nahel, ucciso a bruciapelo da un poliziotto il 27 giugno 2023 a Nanterre, ha evidenziato ancora una volta ciò che deve finire: il razzismo sistemico, la violenza della polizia e le disuguaglianze sociali che le politiche di Macron stanno approfondendo. Una politica neoliberista imposta da metodi autoritari, leggi sulla sicurezza e una dottrina di polizia criticata anche dai più alti organismi internazionali. Una politica regressiva che offre un terreno fertile all’estrema destra e calpesta sempre più le nostre libertà civili, il nostro modello sociale e il nostro futuro di fronte al collasso ecologico.

Le prime vittime di queste politiche sono le persone che vi abitano, soprattutto i giovani dei quartieri popolari e dei territori d’oltremare, che stanno sopportando tutto il peso del peggioramento delle disuguaglianze sociali in un contesto economico di inflazione, aumento degli affitti e dei prezzi dell’energia e politiche urbanistiche brutali. Le riforme di Macron stanno esacerbando la povertà, in particolare restringendo l’accesso alle prestazioni sociali. La scandalosa riforma dell’indennità di disoccupazione ne è un esempio lampante, mentre la precarietà del lavoro è in aumento.

Le rivolte nei quartieri popolari possono essere analizzate solo in questo contesto generale. Gli abitanti di questi quartieri, e in particolare le madri single, sono spesso lasciati a sopperire alla mancanza di servizi pubblici, la cui distruzione sta accelerando ogni giorno.

Allo stesso tempo, tutta una serie di atti violenti vengono perpetrati contro la popolazione: la delocalizzazione e la distruzione di posti di lavoro, l’evasione e la frode fiscale, gli stili di vita ecocidi degli ultra-ricchi, i super-profitti delle multinazionali e i metodi di produzione iper-inquinanti responsabili della crisi climatica. E lo stato permette loro di farla franca! Inoltre, le popolazioni razzializzate e/o appartenenti a classi sociali svantaggiate, i quartieri popolari, le aree rurali e suburbane impoverite e i territori d’oltremare sono vittime di violenza istituzionale e sistemica, in particolare da parte della polizia.

La politica repressiva dello stato è stata ulteriormente rafforzata dall’ultimo rimpasto ministeriale, che ha esteso le competenze del ministero dell’Interno agli affari urbani, ai territori d’oltremare e alla cittadinanza. La repressione si sta diffondendo con sempre maggiore intensità, con la violenza della polizia e il divieto di manifestare contro il movimento sociale e ambientalista, come durante la lotta contro la riforma delle pensioni, rifiutata dalla grande maggioranza dei lavoratori e dai loro sindacati, e a Sainte-Soline. La libertà di associazione, sia direttamente che indirettamente, è sempre più minacciata.

Questa situazione è tanto più preoccupante in quanto la polizia sembra sfuggire al controllo del potere politico. Dalle dichiarazioni faziose di alcuni sindacati di polizia dopo l’omicidio di Nahel a quelle del Direttore generale della polizia nazionale e del Prefetto della polizia di Parigi, nonché del ministro degli Interni, è la polizia che oggi mette in discussione lo stato di diritto, invece di porre fine all’impunità degli autori della violenza poliziesca.

I nostri sindacati, le associazioni, i collettivi, i comitati di quartiere della classe operaia, i comitati delle vittime della violenza della polizia e i partiti politici stanno lavorando insieme a lungo termine per far convergere la giustizia antirazzista, sociale, ecologica e femminista e per porre fine alle politiche securitarie e antisociali.

La crisi democratica, sociale e politica che stiamo attraversando è molto grave.

Non possiamo accettare altre morti come quella di Nahel, né altri feriti vittime della violenza della polizia.

Vi invitiamo a scendere di nuovo in piazza sabato 23 settembre, a organizzare manifestazioni e altre iniziative in tutto il paese, a stare insieme contro la repressione della protesta sociale, democratica ed ecologica, per la fine del razzismo sistemico e della violenza della polizia, e per la giustizia sociale e le libertà civili del clima e delle donne.

Chiediamo risposte immediate e urgenti:

  • l’abrogazione della legge del 2017 sull’allentamento delle norme sull’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine;
  • una riforma profonda della polizia, delle sue tecniche di intervento e del suo armamento;
  • la sostituzione dell’Ispettorato generale della polizia con un organismo indipendente dalla gerarchia della polizia e dal potere politico;
  • la creazione di un dipartimento dedicato alle discriminazioni che colpiscono i giovani all’interno dell’autorità amministrativa presieduta dal Difensore dei diritti umani e il rafforzamento delle risorse per la lotta al razzismo, anche nella polizia;
  • un ambizioso piano di investimenti pubblici nei quartieri popolari e in tutto il paese per ripristinare i servizi pubblici e il finanziamento di associazioni e centri sociali.

Firmatari

Collettivi/comitati dei quartieri popolari, delle vittime delle violenze poliziesche 

  • Afrofem Marseille 
  • Anti-Racisme 94
  • Citoyennes du Monde
  • Collage Féministe Stains 
  • Collectif des Musulmans Végétariens d’île de France 
  • Collectif isérois de solidarité avec les étranger.es et le migrant.es (38)
  • Collectif Justice et Vérité pour Yanis
  • Collectif Justice pour Claude Jean-Pierre
  • Collectif les Sentinel’les – Quartier des Sentes, Les Lilas, 93
  • Collectif Malgré Tout
  • Collectif Stop Uwambushu à Mayotte (CSUM)
  • Collectif Stop Violences Policières à Saint-Denis
  • Collectif Vérité et justice pour Adama
  • Comité Justice pour Alassane
  • Comité justice pour C&J
  • Comité Justice pour Othmane
  • Comité local SDT Villefranche sur Saône 
  • Comité Vérité et Justice pour Mahamadou
  • Comité vérité et justice pour Safyatou, Salif et Ilan
  • Coordination iséroise de solidarités avec les étranger.es et migrant.es (38)
  • Coordination nationale “Marche 40 ans”
  • Coordination nationale contre les violences policières
  • Coordination pour la Défense des habitants des Quartiers Populaires
  • ECRIS 94 – Ensemble Contre le Racisme l’Islamophobie et le sexisme 94
  • Forum pour un autre Mali
  • Garde Antifasciste 53
  • Gilets jaunes Marseille Centre
  • Justice pour Nahel
  • Le CERCLE 49
  • Le Mouvement des mères isolées
  • Les Insurgés (Collectif de Gilets Jaunes)
  • Maison du Peuple en Colère 
  • Mémoire en marche Marseille
  • Peuple Révolté 
  • Syndicat des quartiers populaires de Marseille

Organizzazioni sindacali 

  • CGT
  • CSE Le clos St jean
  • FIDL
  • FIDL 93 SEINE SAINT DENIS 
  • FSE
  • FSU
  • La Voix lycéenne
  • MNL
  • SNES
  • SNPES-PJJ/FSU
  • Solidaires 38
  • Solidaires 56
  • Solidaires 85
  • Syndicat de la magistrature
  • Syndicat des avocats de France
  • UD CGT 22
  • UD CGT46
  • UNEF
  • Union étudiante
  • Union locale CGT Ales 
  • Union syndicale Solidaires

Associazioni e altri collettivi 

  • Alternatiba
  • Alternatiba Paris
  • Amis de la Terre France
  • ANV-COP21
  • APEL-Egalité
  • Association de veille écologique et citoyenne (Nantes)
  • Association Intergénérationelle de la Rabière (AIR-37)
  • Association Nationale des Pieds Noirs Progressistes et Amis (ANPNPA)
  • Association Naya(37)
  • Association Nouveaux Souffle pour l’Insertion Sociale et Professionnelle (ANSIP-37)
  • Association Stop Aux Violences d’État
  • ATMF
  • Attac France
  • CAD
  • Citoyennes en lutte Ouistreham
  • Collectif du 5 novembre
  • Collectif National pour les Droits des Femmes (CNDF)
  • Collective des mères isolées
  • Comité d’Action Interprofesionnel et Intergénérationnel d’Issy les moulineaux (CAIII) 
  • Conseil Démocratique Kurdes  de Bordeaux 
  • Coudes à Coudes
  • Dernière Rénovation
  • Droit Au Logement (DAL)
  • FASTI
  • Fédération des Tunisiens pour une citoyenneté des deux rives (FTCR)
  • Fédération nationale de la LIbre Pensée
  • Femmes Egalité
  • Femmes Plurielles
  • Flagrant Déni, média engagé dans la lutte contre l’impunité policière https://www.flagrant-deni.fr/
  • Fondation Copernic
  • Gisti
  • Greenpeace
  • Jeunesse des cités tase
  • L’ACORT
  • La Relève Féministe
  • La Révolution est en marche
  • LDH Tarbes Bagnères de Bigorre
  • Le GRAIN
  • Les Effrontées
  • Les marcheurs de 83
  • Les Marmoulins de Ménil
  • Les Mutin.e.s
  • Marche des Solidarités
  • Memorial 98
  • Mouvement pour une Alternative Non-violente (MAN)
  • Mouvement Utopia
  • MRAP
  • Observatoire national de l’extrême-droite
  • ODED32
  • OXFAM 06
  • Pas peu fièr-es
  • Planning familial
  • Queer Asso
  • Réseau d’Actions contre l’Antisémitisme et tous les Racismes (RAAR)
  • Réseau Hospitalité
  • SOS racisme
  • SOS Racisme Lyon
  • Soulèvements de la Terre
  • Tous Citoyens !
  • UJFP
  • XR Extinction Rebellion France

Organizzazioni politiche 

  • Boissy Insoumise
  • EELV
  • ENSEMBLE
  • Fédération Libertaire de Lorraine
  • FUIQP
  • GA Insoumis de Montréjeau/Gourdan
  • GA LFi Pays de Gex
  • Gauche Écosocialiste
  • GDS
  • Génération.s
  • Jeune Garde Antifasciste 
  • Jeunes Communistes des Bouches du Rhône
  • Jeunesse Communiste de la Loire
  • La Gauche Ecosocialiste
  • Les Jeunes Écologistes
  • LFI
  • Nouvelle Donne
  • NPA
  • PCOF
  • PEPS
  • PG
  • Place Publique
  • POI
  • Rejoignons nous
  • REV
  • Solidaires par Nature 
  • UCL
  • Vivre Ensemble Solidaires en Métropole Tourangelle (VESEMT-37)