La “democrazia” americana alla prova del trumpismo

di Andrea Martini

Le elezioni presidenziali USA del 2024 offriranno agli elettori le stesse opzioni di quattro anni fa: Donald Trump o Joe Biden, che ormai sono certi di ottenere la nomination nelle prossime rispettive convention. Quella democratica, che investirà il ticket formato da Joe Biden e Kamala Harris, si terrà dal 19 al 22 agosto 2024 a Chicago, mentre quella repubblicana, che, dopo la rinuncia degli altri contendenti, indicherà certamente Donald Trump come candidato presidente, si svolgerà dal 15 al 18 luglio a Milwaukee, nel Wisconsin. Donald Trump non ha finora indicato nessun nome per il suo candidato vice. Sulla stampa e nelle indiscrezioni circolano numerosi nomi e sembra che quello che ormai è il boss del partito intenda scegliere o un afroamericano o una donna.

Il contesto dello scontro

Si tratta, per unanime e paradossale riconoscimento, di due candidati deboli, che avranno entrambi difficoltà a ottenere la maggioranza elettorale alle prossime elezioni generali. Inoltre, la riproposizione dello scenario di quattro anni fa, con la quasi inedita ripresentazione di un candidato sconfitto alla tornata precedente, indica che queste votazioni, per Trump e per i suoi, costituiscono una sorta di revanche sul mai accettato risultato del 2020.

Infatti Trump promette di tornare in carica con un programma di vendetta contro i suoi detrattori e contro i “traditori”, con un elenco di nemici che si allunga di giorno in giorno, compresi tutti coloro che lo hanno trascinato in tribunale con l’accusa di 91 reati.

Anche la debolezza di Biden è singolare. I risultati economici del suo quadriennio sono positivi: l’economia americana si è ripresa dalla pandemia di Covid-19 è ha prodigiosamente evitato una recessione. Ma Biden, con i suoi 81 anni, è continuamente bersaglio di domande e di battute malevole sulle sue capacità di tenuta fisica e mentale, senza contare i prezzi che sta pagando sul piano dei sondaggi con gli elettori di sinistra e con quelli di origine araba per il suo sostegno a Israele. 

Nei sondaggi più recenti, Trump prevale su Biden ed è dunque il favorito per tornare alla Casa Bianca. Nei suoi quattro anni di presidenza (2017-2020), Trump ha fatto vivere gli Stati Uniti in un continuo clima emergenziale e imprevedibile, con dichiarazioni e progetti strampalati e spesso estremi. Così, nel 2020, l’elettorato preferì la “normalità” e la promessa di “stabilità” di Biden, nonostante la sua evidente mancanza di carisma e la sua incapacità (forse una scelta) di riuscire a rimanere al centro della scena mediatica. 

Il contenuto della ricandidatura di Trump

Dopo la burrascosa sconfitta del novembre di quattro anni fa, Trump non ha fatto nulla per ammorbidire la sua immagine pubblica, presentandosi come vittima di una “truffa elettorale” e di una “guerra legale”.

Non va dimenticata la sua esplicita simpatia per Vladimir Putin, rilanciata anche recentemente in occasione della morte misteriosa di Aleksei Navalny nella prigione siberiana. Trump si è anche impegnato a sospendere gli aiuti all’Ucraina e a costringere Kiev al tavolo dei negoziati con la Russia, sostenendo che la guerra “non sarebbe mai avvenuta” se fosse stato lui presidente, dunque avallando le ricostruzioni putiniane secondo cui l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata motivata dalle provocazioni della NATO.

Ma soprattutto Trump non ha smentito le sue tendenze autoritarie. 

Negli Stati Uniti e nel mondo c’è un dibattito sulla natura del trumpismo, se il suo movimento possa essere definito “fascista”. A sostegno di questa definizione si portano la sua spavalderia, i suoi propositi minacciosi, il suo culto della personalità, il rifiuto di accettare i risultati delle elezioni quando perde e la sua esplicita disponibilità a usare la violenza contro gli avversari, le vicende del 6 gennaio 2021, con l’invasione del parlamento di Washington.

Ovviamente la definizione di “fascista”, con i suoi riferimenti ai movimenti politici europei degli anni 20 e 30 del secolo scorso, mettono in ombra le evidenti radici del trumpismo nella storia politica americana. Tuttavia, il candidato repubblicano che si ripropone offre a piene mani motivazioni a coloro che intendono definirlo “fascista”: pochi mesi fa, in un discorso di esaltazione dei veterani di guerra, gridò: “Vi promettiamo che sradicheremo i comunisti, i marxisti, i fascisti e i delinquenti della sinistra radicale che vivono come parassiti entro i confini del nostro paese e che mentono e imbrogliano alle elezioni. Faranno di tutto, legalmente o illegalmente, per distruggere l’America e distruggere il sogno americano”.

L’uso di parole come “parassiti” per squalificare i nemici politici – è stato sottolineato dai suoi critici – ricordava direttamente Adolf Hitler, ma Trump non ha fatto nulla per smentire questi collegamenti e si è vantato di voler diventare “dittatore per un giorno”, così da poter costruire un muro con il Messico, trivellare per estrarre il petrolio e avviare un processo di deportazione di massa degli immigrati.

All’ombra di Trump un’estrema destra in crescita

Ma più che attardarsi a scegliere la migliore definizione per Trump, va soprattutto considerata la devastante crescita delle idee e di personaggi fascisti all’interno del “suo” partito. Molti giovani funzionari portaborse dei parlamentari repubblicani si sono “formati” nelle comunità online di estrema destra, dove proliferano le ideologie esplicitamente razziste e suprematiste bianche. 

Alcuni studi sul personale politico repubblicano hanno verificato una particolare presenza di “individui incel (acronimo per “involontariamente celibi”), con riferimento a quella sottocultura online di maschi eterosessuali, caratterizzata da profondo risentimento, odio, ostilità, oggettivazione sessuale, misoginia, razzismo, culto dello stupro.

Sono molto presenti anche le “teorie della grande sostituzione” che sostengono che i democratici permetterebbero deliberatamente ai migranti di entrare nel paese per attirare nuovi elettori ed eliminare i bianchi. L’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk ha consentito e per certi versi stimolato la proliferazione di questo tipo di discorsi su una piattaforma social tra le più diffuse.

La delegazione di Fd’I alla CPAC del 2023

Neonazisti dichiarati e suprematisti bianchi sono circolati apertamente alla recente CPAC (Conservative Political Action Conference), a fianco di Trump e di altre figure della destra globale come Javier Milei, oltre che di una delegazione di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni, che fino al 2022 non si era mai persa una sessione della CPAC, negli ultimi due anni ha preferito farsi sostituire da una meno impegnativa delegazione, preferendo più o meno negli stessi giorni farsi fotografare abracciata amorevolmente con Joe Biden.

Tra i gadget prodotti dallo staff del deputato trumpista Mike Collins, legato al gruppo paramilitare di estrema destra dei Proud Boys, c’erano magliette con la scritta “Pinochet non ha fatto nulla di male” o con “Gli elicotteri di Pinochet” e sotto immagini di persone gettate nel vuoto, per evocare la maniera con cui i dittatori latinoamericani eliminavano gli oppositori. Ora, l’attivista antimusulmana Laura Loomer indossa magliette con la scritta “Donald Trump non ha fatto nulla di male”, con un evidente riferimento a Pinochet. 

Poche settimane fa, il deputato Collins ha commentato su Twitter l’episodio di un migrante arrestato a New York con l’accusa di aver aggredito un agente di polizia: “Sarebbe un ottimo primo passeggero per la nuova compagnia Pinochet Air”,  salvo che l’immigrato è stato assolto da tutte le accuse: era stata arrestata la persona sbagliata.

I repubblicani, un partito trumpizzato

I due partiti statunitensi che si alternano al potere sono in realtà ampie coalizioni di gruppi diversi. Trump e il suo Partito repubblicano godono del forte sostegno degli attivisti di destra e degli integralisti evangelici bianchi, che lo considerano lo strumento di Dio per restaurare una nazione cristiana. 

E’ un partito che ha vissuto un vero e proprio paradosso. Ha respinto a grandissima maggioranza la candidatura di Nikki Haley, ex ambasciatrice presso le Nazioni Unite ed ex governatore della Carolina del Sud, figlia di migranti indiani, rappresentante di un conservatorismo più tradizionale, meno autocratico, sostenuta da quella parte del partito insoddisfatta dal comportamento personale di Trump e dalla sua politica in economia e dai suoi orientamenti internazionali. Il partito ha condotto alla rinuncia la Haley, nonostante tutti i sondaggi mostrassero che alle elezioni avrebbe sicuramente vinto su Biden, cosa non certa con Trump.

Gli impacci legali di Trump

Risolto il problema del controllo sul partito, la vera minaccia alla candidatura di Trump sono i suoi crescenti problemi legali, in gran parte legati al suo inveterato comportamento narcisistico. Emblematico è il suo processo per violenza sessuale e diffamazione nei confronti dello scrittrice Elizabeth Jean Carroll, alla quale Trump dovrebbe versare un risarcimento di 83 milioni di dollari.

Ma Trump e la sua azienda sono anche stati ritenuti responsabili di frode finanziaria, per aver falsificato i documenti aziendali per beneficiare di tassi di interesse più bassi. 

E’ inoltre stato accusato di associazione a delinquere per aver tentato di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020 chiedendo al politico repubblicano Brad Raffensperger di “trovare 11.780 voti”, per vincere nello stato della Georgia e così vincere anche a livello federale. La difesa di Trump, per sostenere la tesi della manipolazione del voto, si è letteralmente arrampicata sugli specchi, arrivando ad affermare che i computer elettorali sarebbero stati “programmati da Hugo Chávez”, trascurando il fatto che il presidente venezuelano era morto nel 2013. Evidentemente il complottismo dei trumpiani vorrebbe dimostrare che il “furto delle elezioni” è frutto di una “manipolazione comunista”. 

Ma il problema processuale più significativo che si frappone tra i progetti di Trump e la sua possibilità di vincere le elezioni richiede un excursus storico, proprio sulle radici e sulle peculiarità dell’estrema destra statunitense

E’ evidente che questa norma costituzionale scritta per togliere oltre 150 anni fa l’eleggibilità ai capi “sudisti” sembra scritta proprio per Donald Trump, in particolare tenendo conto del ruolo che ha avuto nell’insurrezione del 6 gennaio a Capitol Hill. Ma Trump ha scelto di contrattaccare, definendo questi i processi intentati contro di lui in Colorado, Maine e Illinois come “spettacoli stalinisti condotti per volere di Joe Biden, che cerca di bruciare non solo il nostro sistema di governo ma anche centinaia di anni di tradizione giuridica occidentale” e, ad ogni buon fine, sostiene che quel ruolo l’ha svolto quando ancora era presidente (Joe Biden sarebbe subentrato poche ore più tardi) cosa che gli avrebbe attribuito un’immunità legale. Se sarà eletto, ha già dichiarato di voler usare i poteri presidenziali per “graziarsi”. 

Su queste eccezioni legali e sulla sua “immunità” la Corte Suprema si pronuncerà probabilmente a luglio e, grazie alla sua maggioranza conservatrice (sei giudici contro tre), già nella sessione preliminare, la Corte ha respinto ogni richiesta di eliminarlo preventivamente dalla corsa presidenziale. 

C’è infine un’altra questione legale che intralcia la ricandidatura di Trump, perché nel 2021, quando sloggiò dalla Casa Bianca, portò con sé scatole di documenti riservati, come fossero sua proprietà personale, rifiutandosi poi di restituirli all’archivio presidenziale e adducendo come scusa il fatto che anche altri presidenti al momento della fine del loro mandato avevano conservato documenti ufficiali. Anche questo caso sarà discusso in tribunale durante l’estate. 

I punti deboli di Biden

Quanto a Biden, le polemiche tendono a descriverlo come troppo vecchio (mai un 81enne ha rivestito la carica di presidente USA) e incapace di reggere il peso politico e fisico della funzione, con i fitti impegni che comporta. 

Certamente il presidente che si ricandida mostra i segni della sua età, anche se spesso sono i media ad amplificarli politicamente. E peraltro Trump non è significativamente più giovane (77 anni) e mostra anche lui segni di deterioramento mentale, anche se appare certamente più in grado di “commuovere” la folla.

Il problema del Partito democratico è che in questi anni, anche a causa del suo continuo scontro interno, non è riuscito a far emergere nessuna personalità più giovane in grado di competere sul piano presidenziale. La vicepresidente Kamala Harris, dopo le prime performance, non è cresciuta nel ruolo e gli altri aspiranti, come il governatore della California Gavin Newsom, appaiono troppo corrispondenti allo stereotipo del ricco democratico “liberal”. E Alexandria Ocasio-Cortez, che pure gode di un’innegabile carisma, è troppo a sinistra per una campagna nazionale. 

Inoltre, il bilancio delle politiche economiche e sociali di Biden è positivo per una parte dell’establishment e suffientemente convincente anche per le direzioni dei sindacati che sono in una fase di significativa crescita, con l’inflazione e le disuguaglianze che sono diminuite, con una disoccupazione molto bassa, con una discreta crescita del reddito per i lavoratori, soprattutto per quelli in fondo alla scala sociale, con azioni normative a favore dell’occupazione e dei consumatori, con la cancellazione del debito per gli studenti e con alcune seppur timide azioni sul clima, con la forte mobilitazione femminile a sostegno della volontà presidenziale di difendere e ripristinare il diritto di aborto messo gravemente in discussione dalla sentenza della Corte Suprema nel 2022. Tutto questo sembra coniugarsi il sempre più forte sentimento “anti-Trump”: tutti fattori che hanno giocato a favore della ricandidatura del presidente uscente.

Ma le preoccupazioni per i sostenitori di Biden sono forti. Il mercato immobiliare è sempre meno avvicinabile per i redditi bassi, e l’argomento demagogico secondo cui Trump non sarebbe un “politicante” ma un “uomo d’affari prestato alla politica” sembra convincente per molti elettori. Il settore più “socialdemocratico” del partito, quello che si è identificato con Bernie Sanders, appare in declino, anche a seguito del riflusso della grande mobilitazione contro il razzismo della polizia del movimento Black Lives Matter. Il numero degli iscritti ai Democratic Socialists of America (DSA), cresciuti esponenzialmente dai 7.000 del 1987 ai 95.000 del 2021, è in decremento (nel 2023 erano 78.000).

Una elezione mai così imprevedibile, nell’esito e nelle conseguenze

Ma le incognite sono tante, anche tenendo conto del macchinoso sistema elettorale delle presidenziali. Nel 18°, 19° e per buona parte del 20° secolo, il meccanismo del voto di secondo grado, che si basa sulla nomina di “grandi elettori” per ogni stato che poi vanno a Washington ad eleggere il presidente, poteva avere una qualche ragione. Oggi (ma già da svariati decenni), con gli strumenti di comunicazione e trasmissione esistenti, quel sistema appare sempre più anacronistico, peraltro anche a causa dei ripetuti conflitti tra i risultati nel voto popolare e quelli tra i “grandi elettori”. Sono noti i casi recenti nel 2000 di Al Gore e nel 2016 di Hillary Clinton, sconfitti rispettivamente da George W. Bush e da Donald Trump, nonostante avessero ottenuto la maggioranza nel voto popolare.

Però, sono le questioni di politica estera a creare i maggiori problemi alla campagna per la rielezione di Biden. La sua amministrazione e lui stesso sono ritenuti complici del genocidio in corso a Gaza da una parte significativa dell’elettorato democratico. Molti arabi americani si sentono traditi. La campagna per sollecitare al voto nullo gli elettori del Michigan, uno degli stati “in bilico”, quello con la più alta concentrazione di arabi americani (che rappresentano meno dell’1% dell’elettorato ma che potrebbero essere determinanti per la conquista dello stato), ha raccolto 100.000 firme.

Ma il nodo più intricato è quello sull’immigrazione, con un sentimento ostile ai migranti particolarmente diffuso nei ceti a basso reddito e con una critica “immeritata” nei confronti di Biden e del suo partito di volere le “frontiere aperte”.

Negli ultimi due anni, gli arresti al confine con il Messico hanno superato per la prima volta i due milioni di persone, con un numero enormemente crescente di migranti che fuggono dalla violenza dei paesi America Centrale o dal collasso economico del Venezuela e di Cuba, alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore per sé e per le loro famiglie. Non va dimenticato che tutti gli studi confermano come gli immigrati abbiano contribuito alla ripresa economica post-pandemia e che moltissimi degli immigrati, ai sensi delle leggi americane che riconoscono il diritto di asilo, non entrano illegalmente.

Al contrario, come in tante altre parti del mondo, la politica, anche quella dei democratici, cerca di nascondere il fenomeno epocale delle migrazioni sotto il tappeto. Le pratiche per la concessione del diritto di asilo durano anni; le città del nord, dove gli immigrati sperano di maggiori possibilità di trovare accoglienza e lavoro, senza uno status riconosciuto, li abbandonano all’economia informale e a una collocazione in accampamenti improvvisati e lungo le strade dei quartieri più disagiati; i media pubblicizzano con clamore ogni azione criminale più o meno fondatamente attribuibile a migranti. Con il risultato che il sindaco democratico di New York, Eric Adams, ha dichiarato che “i migranti distruggeranno la città”.

Biden ha proposto una legge che renderebbe più difficile presentare la richiesta di asilo e aumenterebbe lo schieramento di polizia alla frontiera sud, col’unico effetto di diminuire ulteriormente il sostegno di sinistra alla sua rielezione, senza ottenere nulla, visto che i deputati trumpiani si sono dichiarati ostili a questo progetto, anche al fine di mantenere l’argomento migranti utile per la campagna elettorale. 

Trump cerca di presentarsi come la “vera soluzione” del problema e, quando ha dichiarato di voler essere “dittatore almeno per un giorno”, ha lasciato intendere di voler rimettere in discussione proprio il 14° emendamento, decidendo la “chiusura ermetica delle frontiere”, affidando la gestione del “crimine di attraversamento non autorizzato delle frontiere” al livello statale, sottraendolo alla legislazione federale, e impegnandosi a porre fine alla “cittadinanza per diritto di nascita” per i figli di immigrati clandestini.

Dunque le incognite su quel che accadrà a novembre negli Stati Uniti (e sulle sue conseguenze planetarie) restano mastodontiche. Nel 2019, prima di essere sconfitto, Trump dichiarò che la sua eventuale rimozione dall’incarico avrebbe causato “una frattura simile a una guerra civile in questa nazione da cui gli Stati Uniti non sarebbero più guariti”. E poi accadde quello che accadde. 

Gli Stati Uniti dominano la classifica mondiale del possesso di armi da fuoco, grazie al Secondo Emendamento della Costituzione, che ne autorizza a chiunque la detenzione. “Solo” il 31% dei cittadini americani possiede un’arma, ma ogni 100 abitanti ci sono 120 armi (il secondo paese in questa classifica è lo Yemen, con meno della metà, 55 armi ogni 100 persone). Dunque negli USA le armi sono in ogni dove; le industrie delle armi propagandano, con annunci misogini e violenti, la vendita di fucili d’assalto esplicitamente finalizzati a “difendersi dall’oppressione governativa”

I ripetuti conflitti sugli emendamenti costituzionali introdotti dopo la guerra civile, l’eredità di quella guerra e dell’abolizione della schiavitù, la crescita di un’estrema destra che vuole tornare indietro su quelle scelte e che vede nel trumpismo un’occasione per andare in quella direzione, pesano molto in questi elezioni. E il “patto sociale e interetnico” basato su quegli emendamenti non è mai stato veramente digerito da una parte consistente di quel popolo e su questo si è realmente riaperta una crisi che contrappone le diverse “anime” degli Stati Uniti.

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