Cinema, “Civil War”, l’inquietante pre-visione di un’America divisa

di Simon Pearson, del comitato editoriale di Anti*Capitalist Resistance e attivista politico, da anticapitalistresistance.org

Gettandoci in un’America distrutta, devastata da un’orribile seconda guerra civile, il nuovo film distopico di Alex Garland, Civil War, affronta una delle domande fondamentali dell’arte: l’arte rispecchia la vita o la vita rispecchia l’arte?

Lo scenario da incubo ci costringe a confrontarci con sguardo terrificante sul futuro che ci attende ma anche sulle divisioni sociali che ci dividono oggi.

Non è un film con risposte politiche a buon mercato, né un’opera di banale didascalismo; Garland lascia allo spettatore il perché e il come. Tutto ciò fa eco alla ricorrente ambiguità di Garland, presente anche in altre sue opere, come Ex Machina e Annientamento, dove solleva analogamente domande esistenziali, invitando gli spettatori a trovare le proprie risposte all’interno delle inquietanti narrazioni.

L’attrice Kirsten Dunst (nella foto in alto in una scena del film) guida la storia nei panni di una famosa e sbiadita fotoreporter. Il suo personaggio promette un’oscura esplorazione della verità e della disillusione. Il suo cinismo potrebbe riflettere gli orrori di cui è stata testimone, sollevando domande su come la testimonianza di un conflitto plasmi la visione del mondo. Wagner Moura interpreta un altro giornalista, un compagno esperto del personaggio della Dunst. Il giornalismo è centrale perché Garland si concentra sulla costruzione della verità, sulla verità come qualcosa che deve essere prodotto nel mondo.

Poiché la verità è fatta, non costruita arbitrariamente ma comunque costruita, non è mai semplicemente pronta per l’uso. Di conseguenza, gli obiettivi di questi giornalisti divergono. Mentre Dunst cattura la brutale realtà della guerra, Moura insegue lo scoop definitivo: l’ultima intervista con il presidente degli Stati Uniti, alludendo a un potenziale conflitto tra verità artistica e sensazionalismo. Le condizioni in cui i media rappresentano il mondo sono importanti.

Garland incoraggia anche gli spettatori a costruire le loro interpretazioni, basandosi su indizi sottili e sparsi. Uno di questi si trova nel personaggio incombente del presidente degli Stati Uniti. La sua somiglianza con Trump, in particolare il suo apparente terzo mandato, suggerisce una rottura delle norme politiche degli Stati Uniti che porterebbe alla secessione del Texas e della California. La guerra, quindi, è un crogiolo per esaminare la disillusione, l’ambizione e il potere delle prospettive individuali nel plasmare la nostra comprensione del conflitto.

Un altro indizio viene da Sammi, un esperto scrittore di politica interpretato da Stephen McKinley Henderson. Quando sente la voce del presidente alla radio, la spegne disgustato, borbottando su “quella merda” e su come “le parole potrebbero anche essere casuali”.

Questa scena può essere interpretata come una battuta diretta alla retorica incendiaria di Trump, ma anche al rifiuto di comprendere un mondo di mostri del genere. Il film funge da esperimento di pensiero, permettendoci di esplorare le conseguenze di una nazione e di una realtà profondamente polarizzate e il ruolo dei media in un tale clima.

A sottolineare ulteriormente questa attenzione, Garland ha girato il film in stile documentaristico e la musica è usata in modo stridente; il risultato ricorda l’intensità inquietante delle opere di Darren Aronofsky. Poiché non scopriamo mai il perché, né dai protagonisti né dal cast di supporto, il risultato è una serie di vignette frammentate, che ci lasciano con un mistero persistente e il desiderio di ricomporre i frammenti da soli.

Il film ritrae una società all’indomani di un conflitto importante e non specificato. Indizi come l’uso come valuta corrente del dollaro canadese, un campo profughi che trabocca di sfollati e la strana vista di una boutique di abbigliamento aperta (“tendiamo a tenerci fuori da queste cose”, dice la donna dietro il bancone) indicano un drastico cambiamento di potere. Sebbene l’ambientazione abbia una spiccata estetica americana, questo collasso sociale, con i suoi saccheggiatori, attentatori suicidi e crimini di guerra, potrebbe scoppiare ovunque in un mondo di fascismo strisciante.

Cailee Spaeny, un’altra fotoreporter, ma giovane e piena di ambizioni, riesce a farsi dare un passaggio dai reporter più esperti. Dunst prende a malincuore Spaeny sotto la sua ala. L’ingenuo entusiasmo della Spaeny si contrappone al cinismo della Dunst, ormai stanca del mondo. Mentre il personaggio della Dunst viene approfondito attraverso i flashback, gli altri personaggi principali rimangono delle tele un po’ vuote, costringendo i riflettori della narrazione a concentrarsi sulla Dunst e sul suo complesso mondo interiore.

Se da un lato interroga il giornalismo, dall’altro Civil War lo difende, dipingendo i giornalisti nel loro complesso come imperfetti ma coraggiosi. In un mondo saturo di inganni e immagini manipolate, Garland descrive i sacrifici che i giornalisti fanno per lottare per l’accuratezza, per essere testimoni fedeli.

Senza cadere nel moralismo, c’è un tentativo di affrontare l’immagine che i media hanno di sé.

La conclusione del film alla Casa Bianca sembra una trappola e una disperazione: Hitler nel suo bunker? Forse una scelta più coraggiosa da parte di Garland sarebbe stata quella di ambientarlo in un luogo più contemporaneo, magari a Mar-a-Lago, la sede in Florida della villa di Donald Trump?

Forse il film è bloccato dalla sua stessa voluta ambiguità, il che significa che Civil War fatica a offrire una risoluzione soddisfacente ai problemi che pone. Al contrario, opta per i tropi più ovvi. Ma nonostante il finale prevedibile, il film offre abbastanza spunti da giustificare di andarlo a vedere e ulteriori riflessioni.

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