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L’Unione europea vara il patto anti migranti

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Iraele insiste contro l’UNRWA

Nel mirino del governo sionista non c’è tanto l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ma il loro diritto al ritorno

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Italia-Albania, esternalizzazione dei migranti. Alcune domande

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Gaza, sul blocco dei finanziamenti all’agenzia per i rifugiati

di Fabrizio Burattini

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Migranti, i rifugiati ambientali sono rifugiati

di Cristiano d’Orsidocente e ricercatore senior presso la Cattedra di ricerca sudafricana in diritto internazionale (SARCIL), Università di Johannesburg, da theconversation.com

Con il riscaldamento del nostro pianeta, stiamo assistendo a eventi meteorologici più frequenti e gravi, all’innalzamento del livello del mare, a siccità prolungate e all’alterazione degli ecosistemi. Questi cambiamenti ambientali influiscono direttamente sui mezzi di sussistenza delle persone, distruggendo i raccolti e impoverendo le fonti d’acqua. Inoltre, rendono inabitabili aree un tempo abitabili.

In risposta a queste sfide, molti individui e comunità non hanno altra scelta che abbandonare le loro case e cercare sicurezza altrove. La stragrande maggioranza rimarrà all’interno dei confini nazionali – si prevede che entro il 2050 fino a 86 milioni di africani migreranno all’interno del proprio paese a causa degli shock climatici. Ma alcuni attraverseranno le frontiere, facendo nascere il bisogno di protezione internazionale.

La sfida, tuttavia, è che le persone che attraversano i confini a causa delle condizioni meteorologiche non si qualificano come rifugiati secondo le principali leggi e convenzioni. Questo spostamento può essere dovuto a eventi improvvisi, come eruzioni vulcaniche o inondazioni, che possono rappresentare una minaccia immediata per la vita. Oppure potrebbe essere dovuto a eventi di lenta insorgenza, come la desertificazione o l’innalzamento del livello del mare, che potrebbero rendere la vita insostenibile.

È difficile dire con esattezza quante persone ne siano colpite, perché si tratta di un argomento complesso. Tuttavia, sappiamo che la migrazione transfrontaliera interessa decine di migliaia di persone ogni anno. Ad esempio, le condizioni di siccità del 2022, aggravate dall’insicurezza e dall’instabilità politica, hanno costretto almeno 180.000 rifugiati dalla Somalia e dal Sud Sudan a trasferirsi in alcune zone del Kenya e dell’Etiopia.

Si prevede (nell’Africa Climate Mobility Report) che il numero di sfollati a causa di cambiamenti climatici o disastri raggiungerà 1,2 milioni di persone entro il 2050. Questa cifra dipenderà dall’andamento dei cambiamenti climatici.

Senza lo status di rifugiato, coloro che sono costretti a spostarsi oltre confine a causa di eventi climatici potrebbero non ricevere un valido sostegno. A seconda del paese, il sostegno può includere il diritto di vivere e lavorare, l’accesso ai servizi sanitari o educativi e il diritto di muoversi liberamente.

Studio la protezione legale di richiedenti asilo, rifugiati, migranti e sfollati interni in Africa. Raccomando che le leggi e le convenzioni internazionali siano modificate per includere esplicitamente le persone costrette dagli eventi atmosferici a spostarsi oltre confine. Hanno bisogno di una piena protezione come rifugiati.

Mancanza di protezione

Una serie di leggi garantisce la tutela dei diritti umani fondamentali dei rifugiati. Il nucleo del “diritto dei rifugiati” è costituito dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 – un trattato multilaterale delle Nazioni Unite che definisce chi è un rifugiato – e dal suo Protocollo di New York del 1967. I rifugiati in Africa sono protetti anche dalla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) del 1969.

Queste leggi garantiscono loro un rifugio sicuro, l’accesso a procedure di asilo eque e la protezione dalla discriminazione. Le leggi nazionali di molti paesi africani incorporano questi principi internazionali. Ciò offre garanzie legali e sostegno ai rifugiati, aiutandoli a cercare sicurezza e a ricostruirsi una vita.

Come ho detto in un recente studio, il problema della Convenzione sui rifugiati è che esclude le persone “vittime di carestie o disastri naturali” a meno che non abbiano anche un “fondato timore di persecuzione”. Ad esempio, le persone fuggite dall’Etiopia tra il 1983 e il 1985 a causa della siccità sarebbero state considerate rifugiate perché temevano anche di essere perseguitate dalla dittatura militare (Derg) guidata da Mengistu Haile Mariam, che stava deliberatamente limitando le forniture di cibo in alcune zone del paese.

L’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di aiutare e proteggere i rifugiati, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), segue la definizione fornita dalla Convenzione sui Rifugiati. Lo stesso vale per il Patto globale sui rifugiati, un progetto guidato dalle Nazioni Unite per i governi, le organizzazioni internazionali e altre parti interessate.

Ciò significa che le persone sfollate con la forza solo a causa di disastri ambientali non hanno diritto allo status di rifugiato, anche se meritano una protezione temporanea.

In Africa si discute se la già richiamata Convenzione sui rifugiati dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) del 1969 includesse originariamente le persone sfollate a causa di disastri naturali nella definizione di “rifugiati”. Alcuni operatori ritengono di sì, anche se questa posizione sembra limitata ai disastri causati dall’uomo.

Per quanto riguarda le leggi nazionali, al momento non c’è nessun paese africano che riconosca come “rifugiato” chi fugge da disastri naturali.

Tuttavia, c’è un certo movimento. Le persone che fuggono dai disastri ambientali sono sempre più riconosciute dalle organizzazioni internazionali.

Per esempio, l’UNHCR le riconosce come una categoria di persone vulnerabili da proteggere. L’UNHCR ha sensibilizzato l’opinione pubblica sul cambiamento climatico come causa di sfollamento e sulla necessità di proteggere le persone sfollate nel contesto dei disastri. L’UNHCR sta inoltre lavorando per colmare le lacune giuridiche relative agli sfollamenti transfrontalieri causati da disastri.

Ma c’è ancora molto da fare.

Cosa deve cambiare

Le persone sfollate a causa di eventi meteorologici avversi dovrebbero ricevere una protezione più che temporanea. Ciò richiederà modifiche alle normative internazionali e alle leggi nazionali.

Per esempio, si dovrebbe aggiungere alla Convenzione dell’OUA del 1969 un protocollo sullo sfollamento indotto dal clima, in modo che gli sfollati che attraversano i confini internazionali siano legalmente coperti.

Nagorno-Karabakh, la storia e l'attualità

Il Nagorno Karabakh, o meglio, in armeno Artsakh, è stata la zona nella quale si sono sviluppate in epoca precristiana la civiltà e la cultura armena. Questa terra fu annessa dall’impero russo nel 1805, durante la guerra russo-persiana del 1804-1813, annessione poi confermata dal Trattato del Golestan del 1813, e nel 1868 entrò a far parte del governatorato zarista  di Elisavetpol.

Dopo la Prima guerra mondiale, il Nagorno-Karabakh fu conteso tra la Repubblica di Armenia e quella dell’Azerbaigian. Con il sostegno dell’imperialismo inglese, si installò al potere un governatore azero che dette il via al massacro degli armeni. La popolazione autoctona, con il sostegno dell’esercito armeno, si ribellò dando vita per un paio di anni (1918-1920) ad una Repubblica Armena di Montagna, esattamente nel territorio dell’attuale Nagorno-Karabakh.

Con l’integrazione dell’Azerbaigian nell’Unione sovietica nell’aprile del 1920 (e con la contemporanea integrazione nell’URSS dell’Armenia), l’esercito armeno che aveva fino ad allora consentito la sopravvivenza della Repubblica Armena di Montagna, fu costretto a ritirarsi. Nel 1921, Stalin, in qualità di commissario del popolo alle nazionalità, sostenne l’annessione del Nagorno-Karabakh alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian. 

Visto che comunque il 94% della popolazione della regione era armena, nel 1923 fu creato l’oblast’ autonomo del Nagorno-Karabakh, separato dall’Armenia da un “corridoio azero”. Secondo il censimento del 1989, nonostante decenni di “azerizzazione”, su una popolazione di 189.000 abitanti 145.500 erano armeni e 41.000 azeri. 

L’URSS ha congelato per 65 anni la situazione, fino al 1988 quando, approfittando della perestrojka e utilizzando la norma costituzionale sovietica sul diritto di autodeterminazione e di secessione, la regione dell’oblast’ autonomo del Nagorno-Karabakh si proclamò Repubblica socialista sovietica a tutti gli effetti, su un piano di parità con Armenia e Azerbaigian.

Nonostante l’intermediazione di Mikhail Gorbaciov, già nel 1988 scoppiarono violenze sia in Azerbaigian che in Armenia. Pogrom anti-armeni uccisero diverse centinaia di persone a Sumgait, vicino a Baku, e nella stessa Baku nel 1990.

A seguito della dissoluzione dell’URSS nel 1991, l’Azerbaigian e l’Armenia ottennero un’ndipendenza de facto. Così, anche l’Assemblea nazionale del Nagorno-Karabakh proclamò l’indipendenza del paese il 2 settembre dello stesso anno, mentre il parlamento azero la annullava due mesi dopo. Gli abitanti del Nagorno-Karabakh il 10 dicembre 1991 confermarono con il 99,98% di sì la scelta dell’indipendenza in un referendum a cui partecipò l’82% degli aventi diritto. 

Tra il 1990 e il 1992, nella regione si verificò un disastro umanitario a causa dell’intervento militare azero e del blocco che l’Azerbaigian impose. Gli scontri tra armeni e azeri causarono numerose vittime e massacri da entrambe le parti.

La crisi militare e umanitaria fece sì che il Consiglio di sicurezza dell’ONU adottò numerose risoluzioni sul tema.

Il “Gruppo di Minsk”, una coalizione de facto creata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), copresieduto da Russia, Francia e Stati Uniti, impose un cessate il fuoco nel 1994, che, salvo qualche sporadico incidente, resse fino al 2016, quando l’Azerbaigian intervenne di nuovo militarmente contro la Repubblica di Artsakh (la nuova denominazione assunta nel frattempo).

La nuova guerra vide un esplicito sostegno all’esercito azero da parte di Israele (con l’invio di armi) e da parte del regime turco (con l’invio di reparti di mercenari siriani e libici assoldati da Ankara).

Il 10 novembre 2020 venne firmato un nuovo accordo di cessate il fuoco e venne dispiegato un contingente di pace e di interposizione di 2.000 soldati russi.

Poi, è cronaca di queste settimane. Il 19 settembre 2023, l’Azerbaigian ha nuovamente attaccato il Nagorno-Karabakh con il pretesto di un’operazione “antiterroristica”, senza alcuna reazione del contingente russo di interposizione, obbligando così di fatto nei giorni successivi all’esodo forzato in Armenia di grandissima parte della popolazione. In pochi giorni sono arrivati in Armenia 65.000 profughi.

Il 28 settembre, le autorità della Repubblica di Artsakh, evidentemente con la pistola azera puntata alla tempia, hanno annunciato la dissoluzione dell’entità autonoma a partire dal 1° gennaio 2024.

Di seguito pubblichiamo un articolo di Vicken Cheterian, giornalista e analista politico, docente di relazioni internazionali alla Webster University di Ginevra.

La morte di una repubblica ribelle

di Vicken Cheterian, da alencontre.org

A mezzogiorno del 19 settembre 2023, l’esercito azero ha lanciato un attacco massiccio e immotivato sull’intera linea di fronte alle forze armene nella repubblica ribelle non riconosciuta del Nagorno Karabakh.

Droni turchi e israeliani hanno attaccato le difese aeree del Karabakh, missili balistici LORA di fabbricazione israeliana sono stati lanciati contro postazioni di artiglieria e le forze azere sono avanzate per tagliare le strade all’interno del Karabakh, isolando città e villaggi. Dopo una giornata di pesanti combattimenti, la leadership del Nagorno-Karabakh ha accettato una resa incondizionata come parte di un accordo mediato dalle “forze di pace” russe dispiegate nella regione.

Questa massiccia aggressione militare da parte dell’Azerbaigian era stata pianificata da tempo. Dal 12 dicembre 2022, l’Azerbaigian ha imposto un assedio al Nagorno-Karabakh, bloccando l’unica strada che collega la regione all’Armenia e quindi al mondo esterno. Questo blocco è stato inizialmente orchestrato da “attivisti ambientali”, che in realtà erano agenti del governo azero di Ilham Aliyev. 

Le “forze di pace” russe – nella misura in cui non sono intervenute in conformità al loro mandato, che comprendeva la garanzia di un passaggio sicuro attraverso il corridoio di Latchine – hanno rafforzato il blocco fino a quando la regione è stata completamente isolata dal mondo esterno. Di conseguenza, la regione e i suoi 120.000 abitanti hanno vissuto in condizioni di quasi fame, senza medicine per i malati e i feriti e senza carburante per il riscaldamento, le ambulanze e i veicoli militari.

Inoltre, l’Azerbaigian ha ripreso a importare armi da Israele, il che di solito prelude a una grave escalation militare. Secondo un rapporto (Haaretz, 13 settembre), da marzo Israele ha consegnato all’Azerbaigian 11 navi cargo Ilyushin-76 piene di armi, cinque delle quali nella prima metà di settembre. Ognuna era in grado di trasportare 40 tonnellate di armi. All’inizio di settembre, l’Azerbaigian ha anche iniziato ad ammassare truppe intorno a Karabakh e al confine con l’Armenia.

La guerra è stata prima annunciata e poi realizzata come previsto. Ilham Aliyev ha sempre voluto la guerra, non una pace negoziata.

L’arrivo di un lungo e freddo inverno

Le notti sono fredde sulle montagne del Karabakh, l’Artsakh armeno. Quando i nostri numerosi nemici hanno varcato i cancelli, i nostri amici se ne sono andati.

È difficile comprendere l’aggressività dell’Azerbaigian senza tenere conto della Turchia e del suo massiccio sostegno militare. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha fatto mistero del suo sostegno all’aggressione dell’Azerbaigian (Al-Monitor, 19 settembre), proprio come fece nel 2020 quando i soldati turchi furono direttamente coinvolti nella guerra. 

Dato che la Turchia ha continuato a imporre un blocco all’Armenia negli ultimi trent’anni, si ha l’impressione che non abbia perdonato agli armeni di essere sopravvissuti a un genocidio perpetrato durante la Prima guerra mondiale. 

I caschi blu russi si sono voltati dall’altra parte quando i soldati azeri hanno attaccato. La leadership russa è arrivata al punto di ordinare ai suoi propagandisti di incolpare l’Armenia – piuttosto che l’Azerbaigian – per le ultime ostilità scatenate dall’Azerbaigian (The Moscow Times, 20 settembre 2023). Con tali amici, non c’è bisogno di nemici.

L’Unione Europea – quella struttura che non sa che pesci pigliare – ha permesso all’Azerbaigian di aumentare le sue esportazioni di petrolio e gas l’anno scorso. Nel luglio 2022, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha visitato Baku per aumentare le importazioni di gas, mentre l’UE cercava alternative al gas russo. 

L’UE ha così pompato ancora più petrodollari in Azerbaigian e, pur discutendo “l’intera gamma delle nostre relazioni e della nostra cooperazione” (“Dichiarazione della Presidente von der Leyen con il Presidente azero Aliyev”, UE, 18 luglio 2022), Ursula von der Leyen non ha posto una sola precondizione per fermare la possibile pulizia etnica degli armeni del Karabakh. 

Per punire Putin per l’invasione dell’Ucraina, l’UE ha finanziato l’Azerbaigian e lo sterminio del Nagorno-Karabakh è stato solo un danno collaterale della sua realpolitik.

Dopo molte esitazioni, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito “genocidio” le atrocità commesse dagli ottomani contro gli armeni nel 1915 (“Statement by President Joe Biden on Armenian Remembrance Day”, Casa Bianca, 24 aprile 2022). È successo nel 2022, quindi è ancora fresco nella memoria di tutti. Ha avuto tutto il tempo e l’opportunità di avvertire Ilham Aliyev che avrebbe imposto sanzioni e che doveva fermare la pulizia etnica del Karabakh. Genocidio? Sì. Sì, ma sembra che il “mai più” non valga per gli armeni.

La politica internazionale oggi e nella vita quotidiana

Gli armeni hanno molte qualità, ma l’abilità politica non è una di queste. Hanno confuso la retorica e gli slogan patriottici con la politica. Per decenni, l’attivismo armeno ha cercato “giustizia”, come se la giustizia fosse possibile dopo il genocidio. Gli armeni hanno cercato riconoscimenti e parole, piuttosto che praticare la politica secondo le norme stabilite e sviluppare così una reale influenza.

L’errore fatale è stato che la leadership armena non ha seguito i cambiamenti in atto nella prassi politica internazionale. Essi contavano sulla Russia per moderare il conflitto e impedirne l’escalation. Ma la Russia di Putin era diversa da quella di Eltsin. Gli armeni contavano soprattutto sulla Russia per porre fine all’intervento diretto della Turchia nel Caucaso meridionale. Pensavano che questo avrebbe garantito un equilibrio di potere tra Armenia e Azerbaigian. Si sbagliavano. 

Quando l’Azerbaigian ha lanciato il suo massiccio attacco nel 2020, l’esercito turco è intervenuto, mentre la Russia è rimasta in attesa per 44 giorni, un tempo sufficiente per decimare le forze del Karabakh e l’esercito armeno.

Ma ciò che è più difficile è la continua incapacità dell’élite politica armena. Dalla “rivoluzione di velluto” del 2018, la politica armena si è polarizzata tra i sostenitori dei nuovi leader “rivoluzionari” [Nikol Pachinian, a seguito di una mobilitazione, è stato eletto primo ministro l’8 maggio 2018] e i sostenitori del vecchio ordine. 

Nel 2020, queste dispute interne hanno già impedito alla classe politica di vedere la tempesta in arrivo. Dopo la guerra e la sconfitta, c’era una nuova opportunità di fare appello all’unità nazionale, di concordare una piattaforma minima per lavorare insieme per salvare il Nagorno-Karabakh, o ciò che ne rimaneva.

Non tutti i politici sono statisti. La classe politica di Yerevan – governo e opposizione – sembra troppo assorbita dalle proprie beghe interne per rendersi conto che sta per perdere la propria patria (la culla della civiltà armena).

Per i piccoli stati e le piccole nazioni, un singolo errore, una singola sconfitta può essere fatale. Se guardiamo alla storia dell’Armenia, potremmo pensare che non c’è spazio per un singolo errore, che una singola sconfitta può essere fatale.

Quando il 19 settembre l’Azerbaigian ha attaccato l’aquila ferita dell’Artsakh [sullo stemma del Nagorno-Karabakh c’è un’aquila calva], nemmeno l’Armenia era presente per aiutare.

Oggi, l’intera popolazione del Karabakh è tenuta in ostaggio dall’esercito azero, mentre il leader azero Ilham Aliyev annuncia la sua “integrazione” forzata. Questo mi ricorda i campi di concentramento.

Riposa in pace, guerriero di montagna, il tuo coraggio e il tuo ostinato patriottismo non sono bastati a difendere la tua esistenza.

Russia, Ucraina, Europa

di Catherine Samary, da Les Possibles, rivista edita su iniziativa del Consiglio scientifico di Attac! Francia

Dagli effetti della guerra di aggressione della Russia all’urgenza di un’Europa radicalmente decoloniale

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin il 24 febbraio ha portato al contrario di tutti i suoi obiettivi. La resistenza a questa aggressione rivela ciò che sta accadendo in un’Ucraina che si supponeva appartenesse “all’unico popolo russo” e che, dalla crisi del 2013-2014, è considerata sottoposta a un “colpo di Stato nazista” sostenuto dall’Occidente che minaccia un genocidio contro la popolazione di lingua russa.

Condivido le critiche mosse a questa tesi da autori ucraini di sinistra, che sono criticamente indipendenti da tutti gli imperialismi e da tutta la propaganda pro-stato (compresa quella di Zelensky). Ovviamente, queste critiche non implicano che si trascuri l’importanza (in Ucraina come in Russia, in Francia e altrove nel mondo) delle forze di estrema destra, la loro evoluzione e differenziazione ideologica e il loro rapporto con le istituzioni e la violenza, i loro mezzi, … L’esito della guerra peserà anche su questi fattori. Dal punto di vista degli eccessi totalitari dell’apparato statale, l’Ucraina si confronta favorevolmente con la Federazione Russa e il suo controllo degli oligarchi, in contrapposizione al “pluralismo oligarchico” dell’Ucraina e ai suoi maggiori margini di libertà.

Una società mobilitata in difesa della propria dignità, sia in pace che in guerra.

Sono proprio questi margini, inesistenti in Russia, che hanno permesso agli autocrati al potere di essere sfidati alle urne e nelle strade in diverse occasioni. È il caso della Rivoluzione arancione del 2004, catalizzata dal rifiuto della corruzione e dei brogli elettorali e segnata dalla speranza popolare in nuovi partiti, presumibilmente democratici, che si dichiaravano europeisti. La delusione nei confronti di questi partiti, a loro volta afflitti dalla corruzione, spiega la successiva vittoria di Yanukovych (un cosiddetto filorusso) alle elezioni del 2010, con una politica che ha cercato di trovare un equilibrio tra Russia e UE. Ma il processo di verifica delle promesse, una volta al potere, è continuato di fronte alle pratiche del nuovo presidente oligarchico, alle sue decisioni dall’alto, all’arricchimento della sua famiglia e alla violenza delle sue forze repressive. Nel 2014, questa è la ragione profonda del suo discredito, anche nella sua stessa regione, e della sua fuga in Russia. Così, al di là degli episodi violenti e confusi, certamente segnati tanto dal sostegno occidentale quanto dalla muscolarità delle forze di sicurezza di estrema destra a protezione dei manifestanti nel 2014, la caduta di Yanukovich (ratificata dal Parlamento) è stata soprattutto dovuta a una nuova “liberazione” popolare, a prescindere dalla capitalizzazione dei vari partiti di destra.

Il carattere complesso di queste rivolte è simile a quello dei Gilet Gialli e di tanti altri movimenti di massa in contesti politici e sociali confusi. I limiti di questa rivoluzione erano altrettanto evidenti: il regime oligarchico non era affatto abolito. Ma l’etichetta rivoluzione esprime l’accumulo di esperienze che danno forza duratura e profonda alle mobilitazioni periodiche in una società alla ricerca di giustizia sociale.

La rivolta di massa del 2014 è stata definita come una rivoluzione della dignità, evocando le centinaia di migliaia di manifestanti che si sono organizzati per occupare Piazza Indipendenza (Maidan) esprimendo molteplici richieste. È stato anche chiamato in modo meno convincente Euromaidan, cercando di ridurre il movimento a una rivolta pro-europea. Ma a Mosca e da una parte della sinistra è stata assimilata alla rivoluzione colorata (come nel 2004), vedendola come una pedina strumentalizzata dalle potenze della NATO. Questo approccio (o meglio la sua ignoranza) si ritrova anche nella società in relazione alla guerra in corso.  Un’altra parte della sinistra ha scelto di unirsi a Maidan per combattere su vari fronti.

Tuttavia, le aspirazioni popolari e l’autonomia critica della società nei confronti dei partiti istituzionali hanno continuato a manifestarsi dopo il presunto golpe nazista, durante il mandato quinquennale del nuovo presidente e oligarca Petro Poroshenko eletto nel 2014: la mancata stabilizzazione del nuovo potere e il suo crollo finale nel 2019 lo testimoniano. Dopo l’annessione della Crimea e lo scoppio della guerra ibrida nel Donbass (in cui sono morte circa 15.000 persone), il paese ha sofferto di crisi di governo e scandali finanziari che hanno colpito questo presidente. Poroshenko non ha adottato quasi nessuna misura sociale per aiutare le migliaia di persone in fuga dai conflitti nel Donbass e non è riuscito a superare lo stallo degli accordi di Minsk. Cinque anni dopo il cosiddetto colpo di stato, presuntamente controllato dall’Occidente, la capacità autonoma della popolazione nei confronti del potere si è manifestata nuovamente con l’elezione a sorpresa di un attore ebreo esterno ai partiti politici esistenti e la cui lingua madre era il russo (Zelensky). Ha fatto una campagna elettorale con la promessa di risolvere pacificamente il conflitto del Donbass e di affrontare la corruzione, che gli ha fatto ottenere una maggioranza schiacciante senza precedenti in tutto il Paese (ben lontana dai temi di estrema destra che Poroshenko aveva in parte assunto).

La mobilitazione popolare contro l’invasione e la mobilitazione del governo di Zelensky alla sua testa – anch’essa imprevista dalle forze NATO – hanno consolidato la popolarità di Zelensky, in tutto lo spettro politico e in tutta l’Ucraina. In pratica, questa mobilitazione è stata la scelta popolare in difesa della sovranità ucraina. Questo vale soprattutto per la grande massa di popolazione russofona dell’est e del sud del Paese, che si diceva di voler “salvare dal genocidio nazista”. Le forze russe sono ben lontane dal controllare il territorio delle regioni annesse dopo i recenti pseudo-referendum e hanno difficoltà a trovare sindaci disposti a gestire le città.

Contrariamente alle interpretazioni (e alle molteplici citazioni) secondo cui la NATO starebbe spingendo l’Ucraina in una guerra infinita per finire la Russia, la situazione è piuttosto l’opposto: pressioni per temperare l’offensiva ucraina, come abbiamo visto all’inizio di novembre. È stato il personale della NATO a mitigare le accuse di Zelensky, attribuendo alla Russia gli attacchi che hanno ucciso due persone in Polonia. In realtà, se è vero che senza le armi e l’ovvia assistenza logistica fornita all’esercito ucraino, quest’ultimo si sarebbe trovato in una posizione di debolezza che lo avrebbe costretto ad arrendersi rapidamente, la forza della resistenza e le vittorie ottenute sono dovute – dietro le armi – alla determinazione di una popolazione che resiste a un’aggressione vissuta per quello che è: neocoloniale e imperiale.

Quale sinistra chiese ai vietnamiti di negoziare invece di vincere?

In Francia, la sinistra dubiterebbe della realtà della resistenza come lotta di liberazione nazionale se l’operazione militare fosse stata lanciata dalla Francia contro l’Algeria francese? Storicamente la forma assunta dalla colonizzazione russa, e poi dalla politica stalinista, pesa molto. Lo sottolinea la scrittrice e ricercatrice indiana Rohini Hensman:

Mentre le colonie delle potenze imperialiste dell’Europa occidentale si trovavano principalmente oltremare, gli imperi Moghul, dell’Europa orientale e ottomano condividevano paesi limitrofi, per cui era facile commettere l’errore di confondere la distinzione tra impero e stato. Mentre nessuno penserebbe all’India come parte dello Stato britannico, quando Putin considera l’Ucraina come parte dello stato russo, non è solo, e non è la prima volta [da Russie et Ukraine, l’internationalisme socialiste et la guerre en Ukraine, di Rohini Hensman].

Ma mette anche in evidenza, come fa molto chiaramente Bernard Dréano (che accosta anche Ucraina e Irlanda), i disaccordi che dividono i marxisti (e i bolscevichi) soprattutto sulle questioni nazionali.

L’ignoranza, l’occultamento o la denigrazione dell’Ucraina come attore determinante sia negli obiettivi di Putin sia nella resistenza alla sua aggressione sono alla base dell’errata assimilazione della guerra attuale a una guerra mondiale inter-imperialista, come lo fu la Prima guerra mondiale. Ovviamente, presentarlo come tale giustifica la ripresa dei grandi slogan del pacifismo e del disfattismo rivoluzionario dell’epoca e l’invito a rivoltarsi ovunque contro il nemico che abbiamo nel nostro proprio paese. Mi sono dissociata da questa interpretazione della guerra in corso non appena ho rifiutato di firmare l’appello internazionale delle femministe pacifiste che – giustamente – esprimeva solidarietà alle femministe pacifiste russe ma non riconosceva il diritto delle femministe ucraine a resistere. Numerosi testi (di donne e uomini ucraini di sinistra che difendono questo diritto – e il diritto di proteggersi, ora e in futuro, soprattutto con le armi) rendono esplicito questo dibattito in una raccolta di testi che vale la pena di leggere e discutere.

Questo diritto a resistere alla dominazione russa ha ovviamente effetti globalizzanti. Torneremo su questo punto. È importante sottolineare l’impatto specifico, essenziale per il futuro e l’esito di questa guerra, sulle ex repubbliche sovietiche nelle immediate vicinanze della Russia. Questo è ciò che stiamo semplicemente menzionando per richiamare l’attenzione su di esso. Si tratta della Bielorussia – associata a diversi progetti russi, tra cui l’Unione economica eurasiatica (UEE) – e del Kazakistan, essenziale per l’alleanza militare tra la Russia e diversi altri Stati (CSTO) che ha avuto luogo all’inizio del 2022 dopo i disordini senza precedenti del 2021.

Questioni geopolitiche in Eurasia. Bielorussia, tra l’unione organica con la Russia e l’UEE

La decisione di Putin non è stata segnata solo da un’errata valutazione della società ucraina. Si basava anche sull’esito dell’annessione della Crimea. Mentre l’annessione della Crimea è stata accolta con entusiasmo patriottico popolare in Russia, tra gli autocrati delle repubbliche alleate post-sovietiche ha prodotto una reazione completamente diversa.

Ma Putin ha sottovalutato questo fattore a causa dei recenti sviluppi in Bielorussia e Kazakistan.

In primo luogo, va ricordato che l’annessione della Crimea ha infranto il Memorandum di Budapest del 1994, firmato dalla Russia con l’Ucraina (e analogamente con Bielorussia e Kazakistan) con il sostegno degli Stati Uniti: l’accordo stabiliva che la Russia avrebbe ritirato tutte le armi nucleari di epoca sovietica, ma in cambio avrebbe rispettato i confini dei nuovi Stati indipendenti. Mentre questa annessione era popolare in Russia, gli oligarchi della Bielorussia e del Kazakistan, attaccati alla loro sovranità statale, la vedevano con sospetto.

Per questo motivo, l’orientamento di Putin ha giocato pragmaticamente con vari scenari e tipi di unioni.  Da un lato, sperava che l’Ucraina e la Bielorussia si avvicinassero alla Russia per consolidare un polo russo nella costruzione dell’Unione economica eurasiatica (UEE). Si ispira all’idea di un’Unione Europea con la sua dimensione di comunità condivisa e separata (nel rispetto della sovranità degli stati). Il progetto mirava a integrare tutti i Paesi ex sovietici situati tra la Russia e l’UE (tra cui la Georgia e l’Armenia, nonché la Bielorussia e l’Ucraina), esattamente gli stessi che sono stati selezionati per partecipare al progetto di partenariato orientale lanciato dall’UE nel 2009. È stata l’esitazione di Yanukovych e infine la sua decisione di non firmare l’accordo di associazione con l’UE a scatenare la crisi del 2013.

Dopo l’annessione della Crimea, il presidente Lukashenko, leader della Bielorussia per circa 25 anni, ha preso le distanze da Putin, avvicinandosi all’UE per diversificare le sue dipendenze e sfuggire alle sanzioni. L’autocrate ha preferito negoziare con una potenza russa indebolita da Eltsin piuttosto che con un Putin che aveva ristabilito il controllo sui propri oligarchi ed era chiaro sulle sue ambizioni. Ma non ha esitato a rivolgersi a lui quando il suo stesso potere è stato minacciato nel 2020-2021 dalla rivolta popolare contro i brogli elettorali.

I due leader hanno quindi avviato un processo di negoziazione tra loro per raggiungere una stretta unione che ha comportato modifiche costituzionali in Bielorussia per consentire la presenza di basi militari russe (anche nucleari), ma che ha riaffermato la neutralità del paese e quindi escluso (per ora) qualsiasi entrata diretta in guerra. Lukashenko è stato costretto a precisare che il Paese non è stato inghiottito.

Ma questo sviluppo sottolinea – lungi da interpretazioni fatalistiche dell’espansionismo russo – che questo recente riavvicinamento è andato controcorrente rispetto alle tensioni visibili tra il 2014 e il 2022. Questo è stato quindi un contesto chiave per comprendere l’ottimismo di Putin nel dispiegare truppe ai confini dell’Ucraina in Bielorussia all’inizio del 2022. Ma è stata anche l’instabilità del potere di Lukashenko nel suo paese a rendere evidente la ricerca di un tale avvicinamento ai vertici e alle forze armate. E questo sottolinea che è anche una potenziale fonte di debolezza per l’avventura bellica di Putin.

La resistenza incontrata in Ucraina e quindi la durata e la violenza della guerra implicano senza dubbio un corso repressivo interno più radicale in Russia e Bielorussia. Ma è tutt’altro che impeccabile. E questi difetti sono essenziali per il futuro. Nei primi giorni di guerra ci furono espressioni di solidarietà sindacale contro questa invasione. Sono stati rapidamente accolti con una repressione radicale (come in Russia), in particolare contro i leader del Congresso bielorusso dei sindacati democratici (BKDP) e dei sindacati metalmeccanici (SPM) e radiotelevisivi (REP). Questa repressione ha provocato proteste sindacali di solidarietà, soprattutto in Russia (da parte della KTR – Confederazione del Lavoro della Russia fondata nel 1995, a sua volta minacciata), e in Ucraina – da parte della Confederazione dei Sindacati Liberi dell’Ucraina KVPU. Infatti, i ferrovieri bielorussi hanno intrapreso azioni di tipo partigiano che sicuramente giocheranno un ruolo chiave in questa guerra: rendere difficile alle truppe russe l’ingresso di rinforzi e rifornimenti in Ucraina.

Nessuna nazione al mondo vuole la guerra. I popoli russo, ucraino e bielorusso non fanno eccezione. Pochi popoli al mondo hanno subito nella loro storia perdite così terribili e sacrificato la vita di decine di milioni di loro cittadini come i nostri tre popoli, popoli così vicini tra loro. E il fatto che oggi il governo russo abbia lanciato una guerra contro l’Ucraina non può essere compreso, giustificato o perdonato. Il fatto che l’aggressore abbia invaso l’Ucraina dal territorio della Bielorussia con il consenso delle autorità bielorusse non può essere giustificato o perdonato.

Sono accadute cose irreparabili, le cui conseguenze a lungo termine sulla vita di diverse generazioni avveleneranno le relazioni tra russi, ucraini e bielorussi. A nome dei membri dei sindacati indipendenti della Bielorussia, i lavoratori del nostro Paese si inchinano davanti a voi, nostri fratelli e sorelle ucraini. Ci scusiamo con voi per la vergogna che il governo bielorusso ha imposto a tutti i bielorussi diventando alleato dell’aggressore e aprendo il confine con l’Ucraina.

Tuttavia, vogliamo assicurarvi, cari ucraini, che la grande maggioranza dei bielorussi, compresi i lavoratori, condanna le azioni sconsiderate dell’attuale regime bielorusso che tollera l’aggressione russa contro l’Ucraina. Chiediamo l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina e dalla Bielorussia [“Dichiarazione del Comitato esecutivo del Congresso dei Sindacati democratici di Bielorussia“].

I progressi della resistenza ucraina avranno un impatto diretto specifico su tutte le società post-sovietiche, in particolare su quelle (aperte alle relazioni con Mosca, ma anche con la Cina e l’Occidente) con cui Mosca vuole stabilizzare ed espandere l’Unione economica eurasiatica (UEE). Quest’ultima è tenuta a rispettare la sovranità degli stati. La capacità di Mosca di sfruttare i conflitti interni di ciascuna società nel suo particolare ambiente (come l’Armenia nei suoi conflitti con l’Azerbaigian) non è una relazione puramente basata sul potere. Che si tratti dei poteri autocratici delle società post-sovietiche o di società che aspirano a una maggiore democrazia e giustizia sociale, l’indipendenza dei nuovi stati è una caratteristica importante della nuova fase storica post-sovietica.

Le dimensioni neocoloniali e brutali dell’intervento russo in Ucraina sono e saranno fattori destabilizzanti e di tensione nelle relazioni di Mosca con i suoi vicini. Lo stesso si può dire di ciò che accadrà oltre la Bielorussia con l’UEE e la sua controparte militare, l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO).

La CSTO e il test del Kazakistan prima e dopo l’invasione russa.

Questa alleanza militare comprende cinque ex repubbliche sovietiche (Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Tagikistan e Kirghizistan) e la Russia. È nata dal fallimento di progetti precedenti, molto più grandi.

Copiando la NATO e mirando a controbilanciare il suo peso o a negoziare le sfere di influenza, il suo articolo 4 è l’equivalente dell’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica: in caso di aggressione contro uno degli stati membri, tutti gli altri devono fornire l’assistenza necessaria, compresa quella militare. In pratica, però, questa alleanza militare non è intervenuta come tale fino all’inizio del 2022. Nel 2019 ha istituito una forza di reazione rapida di 20.000 uomini e una forza di pace riconosciuta dalle Nazioni Unite di 3.600 uomini.  Lotte di potere opache si sono intrecciate con disordini sociali senza precedenti per protestare contro gli aumenti dei prezzi del gas naturale liquefatto (che coinvolgono le multinazionali).

Alla fine del 2021, il presidente del Kazakistan ha chiesto l’intervento della CSTO dichiarando lo “stato di emergenza”, presuntamente causato da un “intervento straniero”. Il ritorno alla calma è stato facilitato da misure sociali. Ma le forze della CSTO sono intervenute all’inizio del gennaio 2022 e si sono ritirate dopo una settimana. Mosca contava senza dubbio di sfruttare quello che sembra un successo per il futuro di fronte al disordine globale e alla debacle della NATO in Afghanistan.

In effetti, è stato proprio il timore di interventi talebani dall’Afghanistan che, al termine dell’operazione CSTO in Kazakistan – e quindi poco prima dell’invasione dell’Ucraina – ha dato origine a proposte di consolidamento ed espansione degli interventi militari dell’Alleanza CSTO: il rappresentante russo presso l’Alleanza ha così evocato l’obiettivo di “creare una cintura di sicurezza non solo intorno all’Afghanistan, ma anche intorno alla CSTO”.

Tale scenario, senza dubbio auspicato da Putin, si inserisce molto bene nello scenario di una ricomposizione delle sfere di influenza negoziata sulla base di rapporti di forza consolidati per Mosca dall’unione con la Bielorussia e dal successo attribuito alla CSTO in Kazakistan di fronte alla crisi della NATO. È addirittura possibile ipotizzare che Putin si aspettasse che la sua operazione politica in Ucraina fosse, come quella della CSTO in Kazakistan, estremamente effimera ed efficace.

La resistenza ucraina ha fatto deragliare questo scenario. D’altra parte, il Kazakistan, che ha un ruolo centrale nella CSTO e nel suo futuro, non sostiene apertamente quella che è diventata una guerra. E, come il suo alleato cinese, non vuole bruciare tutte le sue carte nel rapporto con l’Occidente, né sostenere un perdente, tanto meno accettare una violazione ancora più grave di quella del 2014 del Protocollo di Budapest, secondo il quale Mosca rispettava i confini dei nuovi stati indipendenti ritirando le sue armi nucleari. Significativamente, in Kazakistan ci furono proteste popolari contro la guerra (senza repressione…), e il governo al potere mostrò neutralità piuttosto che un chiaro sostegno alla Russia.

Per illustrare la stessa questione (che potrebbe sollevare le stesse preoccupazioni per Putin), il leader cinese, che viene ritenuto suo alleato, ha visitato il Kazakistan a settembre. Xi Jinping ha persino sottolineato esplicitamente, nel primo giorno della sua visita nel paese centroasiatico, che aiuterà il Kazakistan a “salvaguardare la sua indipendenza nazionale, la sua sicurezza e la sua integrità territoriale”, prima di recarsi in Uzbekistan…

Così, la guerra in Ucraina incide profondamente sul peso della Russia nel suo vicinato, ben oltre il Kazakistan, come analizza Vicken Cheterian: “Dopo l’invasione russa dell’Ucraina” stiamo assistendo a “un’ondata di destabilizzazione dal Caucaso all’Asia centrale”.

La guerra in Ucraina continua a essere definita un’operazione militare orwelliana per minimizzare il suo reale significato e la sua evoluzione. Una dichiarazione di guerra esplicita (richiesta dai falchi dell’estrema destra russa) sarebbe pericolosa per la stabilità interna della Russia (come ha dimostrato la recente mobilitazione limitata); ma, come si è notato qui, sarebbe problematica anche per gli alleati più stretti della Russia.

Dal mantenimento della NATO alla costruzione dell’UE

Il fatto è che per tutte le correnti o i paesi lontani dalla Russia – e spesso ignari della lunga storia delle sue relazioni con l’Ucraina – i discorsi contro l’estensione della NATO alle porte della Russia e contro il suprematismo statunitense hanno un peso. Questo è vero anche quando viene denunciata l’invasione dell’Ucraina: spesso viene presentata come reattiva o difensiva di fronte a un’Alleanza Atlantica costruita contro la Russia e nel contesto dell’evidente superiorità economica e militare del regime imperialista statunitense. È qui che emerge il neocampismo (sostenere la parte di qualsiasi nemico del nemico principale).

Senza sfiorare l’aggressione russa, Tony Wood ha cercato di evidenziare la “matrice di guerra” su tre assi interagenti: Stati Uniti, NATO e Ucraina. Nella sua introduzione, cita una “responsabilità immediata” della Russia di Putin in questa guerra, che condanna, e quella che definisce una “responsabilità storica”: quella della NATO. Ma questa responsabilità è mal definita. O ci si riduce a un contesto che non spiega una vera e propria guerra, o si indicano le “armi” (della NATO) che combattono contro la Russia, omettendo di sottolineare che dietro le armi – e che le rendono più efficaci di quelle delle forze russe – ci sono le scelte e le motivazioni del popolo ucraino. Avrebbe dovuto rinunciare a resistere a quella che è ben descritta come un’aggressione; e se no, con quali armi [per difendersi]?

Inoltre, molte altre aree grigie e punti ciechi nelle analisi devono essere discusse se vogliamo comprendere la posta in gioco in una situazione senza precedenti storici.

Da un lato, dobbiamo parlare di una guerra concreta in una situazione concreta. Ed è piuttosto la crisi aperta e reale della NATO nel 2021 – e non la minaccia della NATO contro la Russia – a spiegare l’avventurismo dell’offensiva bellica di Putin. A ciò si aggiungono le cause dell’ottimismo di Putin, già menzionate in precedenza, relative alla fragilità di Zelensky, all’unione con la Bielorussia e al successo della CSTO in Kazakistan. La Russia non era minacciata.

Inoltre, l’obiettivo e la vittima di questa offensiva – e la resistenza che ha incontrato – possono essere compresi solo in termini di contenuto imperiale neocoloniale della Russia che nega il diritto all’autodeterminazione dell’Ucraina. Il passaggio a un’offensiva che concretizza tale rapporto è consentito dal contesto a breve termine percepito come favorevole da Putin, ma si tratta (come egli stesso ha spiegato) di una legittimazione che pretende di essere storica includendo la contestazione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina da parte di Lenin (Putin dice la “creazione”); a ciò si aggiunge l’argomento antinazista che mobilita la memoria della Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, si tratta di una questione indipendente dalla NATO.

Ma bisogna anche tenere conto dell’analisi specifica dell’Alleanza Atlantica e della sua evoluzione. Putin, come tutti, sapeva che i suoi membri dominanti non avrebbero votato a favore dell’adesione dell’Ucraina, proprio per proteggere gli interessi condivisi con Putin. Questo punto non è un dettaglio da poco. La sua omissione fa parte di una visione obsoleta ed essenzializzata di una NATO antirussa che fonde e oscura diversi contesti che qui possiamo solo accennare brevemente. Innanzitutto, la Russia non è né l’URSS (l’asse del male comunista) né la sua continuità. E proprio la Federazione Russa, guidata da Eltsin, è stata protagonista (insieme ai rappresentanti di Ucraina e Bielorussia) della dissoluzione dell’URSS e dello smantellamento del sistema di orientamento capitalistico, accolto a braccia aperte dagli Stati Uniti e dal FMI. Non si è trattato di un’aggressione esterna, ma di una decisione presa da una parte essenziale dell’ex nomenklatura comunista. Gli scenari di inserimento nella globalizzazione capitalistica non erano gli stessi per l’opaca unificazione tedesca, per la Russia di Eltsin o per la Cina, né per i diversi Paesi dell’ex URSS o dell’Europa orientale. La nuova Russia è stata accolta a braccia aperte dagli Stati Uniti – comprese le sue sporche guerre contro la Cecenia, compresa quella guidata da Putin che fa parte dell’ideologia di partnership con la NATO e le sue nuove “guerre di civiltà” contro il terrorismo islamico come sostituto del comunismo.

In effetti, la (nuova) Russia non è stata l’obiettivo della continuazione della NATO nel 1991 e, successivamente, dei primi cambiamenti nelle sue funzioni (con la prima guerra offensiva della NATO sul Kosovo nel 1999). In entrambi i contesti, è più credibile sottolineare quale fosse la motivazione principale di Washington: l’unificazione tedesca e la (contemporanea) costruzione di una nuova Unione Europea che incorporasse la Germania unificata. Fu una contingenza catalizzata dalla decisione di unificazione monetaria dopo la caduta del Muro di Berlino; una caduta storica, senza repressione da parte della DDR, perché sostenuta da Gorbaciov, che venne a negoziare i crediti con la Germania Ovest. Il leader dell’URSS sperava di costruire una “Casa comune europea”, non senza la simpatia di Mitterrand.  E mentre gli Stati Uniti (e il Regno Unito) volevano controllare una Germania unificata incorporandola nella NATO, la Francia stava negoziando con la nuova Germania la fine del marco tedesco e la costruzione di una nuova Unione Europea.

Ed è proprio contro il desiderio di autonomia politica dell’UE e la sua estensione all’Europa orientale che gli Stati Uniti hanno stabilito la propria agenda NATO. Quest’ultima era sull’orlo del collasso durante i primi attacchi contro la Jugoslavia di Slobodan Milosevic. Lo scenario della guerra di tre mesi in Kosovo è molto diverso da quello dell’Ucraina. L’intervento offensivo della NATO (senza un mandato delle Nazioni Unite) doveva essere limitato a pochi colpi. E per evitare la rottura dell’Alleanza e il peggiore dei fiaschi, è stato necessario inserire rapidamente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e quindi la Russia) nel processo di negoziazione della fine della guerra. La risoluzione 1244 – regolarmente richiesta da Milosevic (ma non dagli albanesi del Kosovo) – ha istituito un protettorato internazionale provvisorio profondamente instabile e corrotto.

Era possibile sostenere il diritto all’autodeterminazione degli albanesi kosovari – contro la regola che Milosevic voleva imporre – e allo stesso tempo criticare radicalmente la prosecuzione e i vicoli ciechi delle nuove funzioni che gli Stati Uniti stavano assegnando alla NATO, accompagnate da fake news per legittimarle. Nulla di tutto ciò costituiva una minaccia per la Russia. Le timide opzioni di alleanza di una parte degli albanesi del Kosovo (l’UCK) con gli Stati Uniti e la NATO non hanno messo in discussione la radice profonda del conflitto (storico e concreto recente) con Belgrado e quindi la questione dell’autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Questo si è espresso in contesti mutevoli, fino alla proclamazione dell’indipendenza da parte del parlamento del paese nel 2008, non ancora riconosciuta da Belgrado e quindi dall’ONU e dall’UE.

Come in Ucraina, la popolazione del Kosovo ha giudicato la profonda corruzione e il disastro economico del paese ai margini della posta in gioco geopolitica globale. Nel 2021, un voto popolare di massa senza precedenti ha emarginato gli storici partiti alleati degli Stati Uniti in questa ex provincia della Serbia, a favore del giovane partito di sinistra Autodeterminazione: esso ha condotto una campagna elettorale sulla base di una critica radicale della corruzione e in difesa di un programma sociale sostanziale, orientando al contempo le sue speranze verso l’UE. Così come l’Ucraina ha sollevato la questione dell’adesione all’UE… Come dovrebbe reagire la sinistra (critica nei confronti dell’UE) a questa richiesta?

Assi di solidarietà antiglobalizzazione

La richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE, la militarizzazione dei bilanci associata alla NATO e le sfide della transizione ecologica associate alla guerra sono i tre dossier che devono essere aperti e gestiti con urgenza, ma in modo stabile, a livello europeo e non solo, in una prospettiva di alter-globalizzazione. L’ampiezza delle crisi combinate che la guerra aggrava con effetti globalizzati, colpendo in primo luogo le popolazioni più povere, richiede risposte della stessa portata.

Dobbiamo affrontare le reali divergenze e la complessità della posta in gioco in queste diverse questioni in una prospettiva volutamente pluralista, per cercare di allargare gli orizzonti (e le diverse percezioni della posta in gioco a seconda delle regioni, dei paesi di cui si parla, delle storie vissute), la conoscenza necessariamente disomogenea di un passato e di un presente complessi, per far convergere i punti di vista e gli obiettivi prioritari, cercando di individuare ciò che ci permette di agire in comune.

Credo che sia possibile e necessario integrare le tre questioni sopra menzionate in un approccio generale verso/contro l’UE, che potrebbe trovare il suo posto nella rivitalizzazione di uno spazio pubblico e attivista di dibattiti europei come potrebbe essere stato l’Altersummit.

Approcci decolonizzanti all’Europa

Innanzitutto, bisogna essere consapevoli del danno che comporta ignorare un intero continente: L’Europa orientale, in senso lato, verso l’Eurasia. Decolonizzare le analisi e le risposte richiede una lotta semantica. Si tratta di rifiutare sistematicamente l’assimilazione dell’Europa all’UE, proprio come gli Stati Uniti si sono autoproclamati America, al punto che alle popolazioni dell’Europa orientale è stato proposto di entrare in Europa e i primi commenti radiofonici sulla guerra in Ucraina sono stati “alle porte dell’Europa”. Questo vocabolario ha diverse dimensioni: come si può criticare l’Europa senza diventare nazionalisti? Si trattava dello stigma e della scelta generalmente associati agli sconvolgimenti politici dell’Europa orientale. L’adesione all’Europa potrebbe essere solo una prova di progresso e di civiltà nei confronti della non-Europa (orientale, o comunista, o balcanica…). Ho criticato tale vocabolario nell’ambito del Forum sovversivo di Zagabria del 2012, a cui Attac ha partecipato, investendo la luce necessaria dalla periferia balcanizzata per criticare le “pratiche e il vocabolario civilizzanti” dell’UE nei confronti dei Balcani e dell’Europa orientale: “Il Forum sociale balcanico: un’opportunità per un’altra Europa”.

È nostra responsabilità – che dobbiamo condividere con i nostri colleghi e compagni di questi paesi – fare il punto sulle condizioni in cui questi paesi sono stati sfruttati (nel contesto dello smantellamento del loro sistema e della dittatura monopartitica), attraverso un radicale dumping sociale e fiscale che si supponeva mirasse a modernizzarli e democratizzarli.

Il fatto che Volodymyr Zelensky usi un vocabolario così apologetico nei suoi discorsi al Parlamento europeo non aiuta a convincere le sinistre, già inclini a mettere tra parentesi l’Ucraina, nel loro approccio alla guerra. Ma, a questo proposito, dobbiamo distinguere due aspetti: denunciare la guerra neocoloniale della Russia e riconoscere il diritto di autodifesa del paese attaccato non dipende dalla natura dei leader di quel paese (e non richiede un paese ideale); ma, ovviamente, siamo politicamente liberi di decidere come esprimere la nostra solidarietà.

Da questo punto di vista sottoscrivo e propongo di aderire alla Rete Europea di Solidarietà Ucraina che sostiene la seguente piattaforma:

Noi, collettivi di movimenti sociali, sindacati, organizzazioni e partiti, dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, contrari (…) alla guerra e a tutti i neocolonialismi del mondo, vogliamo costruire una rete dal basso, indipendente da qualsiasi governo per:

  • La difesa di un’Ucraina indipendente e democratica
  • Il ritiro immediato delle truppe russe da tutto il territorio ucraino; la fine della minaccia nucleare rappresentata dall’allarme sulle armi nucleari russe e il bombardamento delle centrali elettriche ucraine!
  • Sostegno alla resistenza (armata e non) del popolo ucraino nella sua diversità, in difesa del suo diritto all’autodeterminazione.
  • La cancellazione del debito estero dell’Ucraina
  • Accogliere senza discriminazioni tutti i rifugiati provenienti dall’Ucraina e da altri paesi!
  • Sostegno al movimento contro la guerra e la democrazia in Russia e garanzia dello status di rifugiato politico per gli oppositori di Putin e i soldati russi che disertano.
  • La confisca dei beni dei membri del governo russo, dei funzionari e degli oligarchi in Europa e nel mondo; l’applicazione di sanzioni finanziarie ed economiche che proteggano i più svantaggiati dai loro effetti.

Oltre a questo, ci battiamo anche, insieme a correnti affini in Ucraina e in Russia, per

  • Disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
  • Lo smantellamento dei blocchi militari.
  • Tutti gli aiuti all’Ucraina devono essere liberi dal controllo del FMI o dell’UE e dalle condizioni di austerità.
  • Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.

Come indicato all’inizio della piattaforma, la rete integra organicamente (nelle sue riunioni, campagne, dibattiti) componenti (associazioni, sindacalisti, partiti) dell’Europa orientale. In pratica, sono stati privilegiati i legami con l’ONG socialista Sotsianly Rukh (Movimento sociale), con i sindacalisti bielorussi e con le componenti della sinistra russa (con campagne di solidarietà con chi si oppone alla guerra in Russia o ne fugge).

Ciò significa che la lotta contro la guerra si combina con diverse campagne che possono essere unite: la richiesta di cancellazione del debito ucraino, un debito che perdona gli oligarchi e permette al FMI di spingere per lo smantellamento dei servizi pubblici e l’aumento delle tariffe energetiche; ma anche le campagne sindacali contro le leggi che sono state proposte e infine approvate, approfittando del contesto bellico, per smantellare i diritti sociali. Qui si può leggere (in inglese) anche l’analisi radicalmente critica del progetto di ricostruzione dell’Ucraina elaborato alla conferenza di Lugano del luglio 2022, che è orientato a uno sfruttamento socialmente ed ecologicamente disastroso dell’Ucraina subordinato alla logica del profitto (qui si può leggere in italiano il volantino distribuito a Lugano, durante il vertice, dalle/dai compagne/i svizzere/i del Movimento per il socialismo).

“La sinistra europea dovrebbe sostenere la richiesta di adesione dell’Ucraina all’UE?”, chiede un attivista di Sotsialny Rukh (SR), rispondendo positivamente – anche dal punto di vista collettivo della sua organizzazione – a questa domanda.  Non senza un’analisi lucida di cosa sia l’UE e di quali siano stati i suoi effetti sulla sua periferia orientale e meridionale. Scrive a questo proposito:

Possiamo imparare dall’esperienza di altri paesi dell’Europa orientale e meridionale. Polonia, Slovacchia e altri Paesi dell’UE hanno sperimentato la liberalizzazione in vari settori, direttamente incoraggiata o tollerata dall’UE. In molti paesi dell’Europa orientale, negli anni 2000 è aumentata la quota di contratti a tempo determinato, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diventati più rari. Allo stesso tempo, sono state attuate riforme per rendere più facile il licenziamento dei lavoratori, ad esempio, con la motivazione che ciò avrebbe creato nuovi posti di lavoro. Questi sviluppi si sono verificati, anche se in modo non uniforme, in tutti i paesi dell’Europa orientale e sono stati accelerati da crisi come quella finanziaria del 2008, che ha portato a un approfondimento delle politiche neoliberali nell’UE e a livello globale. Vale la pena menzionare anche il ruolo della Banca Centrale Europea nel promuovere il conservatorismo fiscale e le sue conseguenze sul benessere della popolazione, come abbiamo visto nell’esempio della Grecia.

Allora perché sostenere l’adesione all’UE? In realtà la domanda è superata, ma è interessante discuterne. È obsoleta, perché la domanda ufficiale di adesione era già stata presentata e quattro mesi dopo – lo scorso giugno – i 27 hanno accettato l’Ucraina e la Moldavia come candidati ufficiali. Ma la questione rimane interessante perché lo status di candidato non implica l’effettiva appartenenza al gruppo. Si apre un lungo processo negoziale, dal quale alcuni paesi balcanici sono rimasti bloccati per anni: dell’ex Jugoslavia, solo Slovenia e Croazia hanno aderito. Tutte le altre repubbliche sono in attesa della conclusione del processo (in parte sospeso nel caso della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo). I rappresentanti dei Balcani occidentali non vedrebbero di buon occhio che l’Ucraina si integri più velocemente di loro.

La vera questione è quindi quella delle condizioni per l’integrazione: cosa si sta negoziando e la sinistra ha qualche campagna di solidarietà da condurre su questo fronte?

Cosa ne pensa il nostro compagno ucraino? Da un lato, sottolinea che è possibile sfruttare la solidarietà espressa nei confronti dell’Ucraina di fronte alla guerra per legittimare con la forza condizioni specifiche per il Paese:

L’UE deve ammettere l’Ucraina a condizioni che garantiscano la possibilità di una ricostruzione sociale ed egualitaria e non creino ostacoli ad essa (…) Il diritto europeo della concorrenza e la restrizione radicale delle politiche protezionistiche creano grandi ostacoli ad una ricostruzione sociale e progressista dell’Ucraina. Pertanto, per l’Ucraina dovrebbero essere previste eccezioni a queste leggi. Non sarebbe il primo caso di questo tipo. Paesi come la Danimarca hanno addirittura aderito all’Unione con condizioni speciali che hanno creato eccezioni ad altre leggi.

Inoltre, sottolinea che le politiche neoliberali sono state promosse in Ucraina anche senza l’adesione all’UE, soprattutto nel quadro del “Partenariato orientale”. L’adesione conferirebbe almeno dei diritti e non sarebbe peggiore della periferizzazione assoluta senza diritti.

Inoltre, afferma, per il popolo ucraino:

L’adesione all’UE ha una grande importanza simbolica: è il principale obiettivo di politica estera del paese dal 2014. Opporsi sarebbe molto impopolare e richiederebbe chiare alternative equivalenti che attualmente non esistono.

Ritiene che i diritti europei siano per certi versi più progressisti di quelli ucraini e che quindi l’integrazione nell’UE favorisca la lotta per il progresso sociale.  Ancora più importante,

L’integrazione può facilitare il collegamento in rete di organizzazioni locali come Sotsialnyi Rukh con altri attori di sinistra e favorire lo sviluppo di relazioni a lungo termine, che a loro volta possono garantire che l’attenzione ai problemi dell’Ucraina non rimanga legata agli eventi della crisi.

In effetti, è proprio questo che la sinistra europea dovrebbe costruire: legami euro-europei con i paesi dell’Europa orientale e dei Balcani, per lottare a favore di diritti e obiettivi comuni. E per una revisione delle condizioni di adesione.  Per questo, è necessario mettere in discussione i trattati esistenti, le loro modifiche in corso (senza un processo costituente) e le politiche attuate di fronte alle grandi crisi intrecciate: ambientale, finanziaria (dal 2008 – quali trasformazioni e fragilità bancarie) e politica (effetti della guerra in corso).

Gli aiuti all’Ucraina non implicano la militarizzazione dei bilanci: le politiche di bilancio e militari di ogni paese devono essere soggette al controllo delle società.

È essenziale essere in grado di difendere una politica di solidarietà con la resistenza (armata e non armata) dell’Ucraina contro un’aggressione neocoloniale assassina e di mantenere un giudizio indipendente e critico sulle politiche dei nostri governi. Ho citato esplicitamente la piattaforma della Rete europea di solidarietà Ucraina (ESN/ENSU).  Ripeto gli ultimi punti:

  • Per il disarmo nucleare globale. Contro l’escalation militare e la militarizzazione delle menti.
  • Per lo smantellamento dei blocchi militari.
  • Che tutti gli aiuti all’Ucraina siano liberi dal controllo del FMI/UE e dalle condizioni di austerità.
  • Contro il produttivismo, il militarismo e la competizione imperialista per il potere e il profitto, che distruggono il nostro ambiente e i nostri diritti sociali e democratici.

Ma per lottare per questi obiettivi è necessario abbandonare un approccio generico ed essenzialista alla NATO e agli aiuti, e distinguere tra le varie questioni che devono essere discusse per costruire un’iniziativa globale per una pace giusta e duratura:

  • La NATO avrebbe dovuto essere sciolta con il Patto di Varsavia nel 1991. Il suo mantenimento e l’evoluzione delle sue funzioni (da alleanza difensiva ad alleanza offensiva che interviene ovunque) non sono stati processi trasparenti o democratici. La valutazione dei suoi interventi deve essere fatta in ogni paese coinvolto. Ma lo stesso vale per tutti i patti militari: bisogna opporsi alla logica della spartizione delle sfere di influenza basata su patti permanenti che mascherano malamente rapporti di dominio.
  • Tutti gli eserciti devono essere restituiti al loro territorio di origine e posti sotto il controllo dei paesi interessati. Questo aprirebbe un processo concreto di smilitarizzazione e un’analisi caso per caso degli aiuti militari per cause considerate giuste. In questo quadro, le forze armate di un paese possono anche partecipare, in base a un accordo internazionale, ad azioni di mantenimento della pace al di fuori del proprio territorio, sotto il controllo delle Nazioni Unite o dei paesi interessati.
  • La guerra in Ucraina è stata lanciata dalla Russia. Gli aiuti all’Ucraina non trasformano la guerra in una guerra inter-imperialista. Gli aiuti alla difesa dell’Ucraina sono legittimi e devono rimanere sotto il controllo del popolo ucraino e del suo giudizio sui termini del negoziato.
  • Ogni popolazione in ogni paese dovrebbe essere in grado di controllare quali bilanci vengono effettivamente spesi per l’Ucraina e per altri obiettivi e conflitti: un movimento globale progressista contro la guerra non può equiparare la guerra di aggressione di un paese dominante con la guerra difensiva di un paese attaccato. La lotta giusta – con le armi in pugno contro l’aggressione armata – deve essere difesa, riconoscendo anche l’obiezione di coscienza e la possibile opzione della resistenza non violenta. Questa opzione appartiene alle persone e ai popoli sotto attacco.

La ricostituzione di uno stato e di un regime autocratico in Russia, con dimensioni militari e di interventismo imperiale, pone evidenti problemi di sicurezza per i paesi vicini alla Russia e per le popolazioni della federazione suscettibili di ribellarsi alle relazioni di dominio. Questo è il caso della Cecenia. Il fatto che i paesi interessati percepiscano la NATO (a torto o a ragione) come un quadro protettivo rende impossibile per la sinistra mobilitarsi per lo scioglimento della NATO finché la minaccia della Russia continuerà. Ma questo non significa che non sia necessario criticare i piani della NATO e l’espansione dei suoi bilanci.

Dalle sanzioni contro il regime di Putin alle politiche ambientali dell’UE

L’emergenza climatica e la solidarietà contro questa guerra devono essere combinate con la nostra critica all’UE: il regime di Putin alimenta le sue politiche aggressive con i proventi dei combustibili fossili. Le sanzioni contro le importazioni russe devono allo stesso tempo accelerare il processo di transizione energetica e quindi respingere ovviamente l’aumento della produzione di combustibili fossili altrove e in particolare la diffusione della produzione e della distribuzione di gas naturale liquefatto.

Allo stesso tempo, questa politica richiede la tutela dei diritti sociali e dell’occupazione, il che implica un vasto progetto paneuropeo di pianificazione della conversione e di investimento nelle energie rinnovabili. Questo potrebbe rivolgersi alle popolazioni di tutti i paesi europei, compresa la Russia, a condizione che la guerra cessi.

Utopia? Trasformiamola in un’utopia concreta – e “se non ci lasciano sognare, restiamo svegli”…

Ucraina, di quale pace stiamo parlando?

Intervista di Stephen R. Shalom (“New Politics”) a Gilbert Achcar

da newpol.org, 10 dicembre 2022

Gilbert Achcar è da molti anni uno dei principali commentatori di sinistra degli affari internazionali. Cresciuto in Libano, ha vissuto e insegnato a Parigi, Berlino e Londra. Attualmente è professore di Studi sullo sviluppo e Relazioni internazionali presso la SOAS, Università di Londra. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo The Clash of Barbarisms (2002, 2006); Perilous Power: The Middle East and US Foreign Policy, scritto insieme a Noam Chomsky (2007); The Arabs and the Holocaust: The Arab-Israeli War of Narratives (2010); Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism (2013); e The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013, 2022). Il suo prossimo libro, The New Cold War: The United States, Russia and China from Kosovo to Ukraine, uscirà all’inizio del 2023. È stato intervistato dal 7 al 9 dicembre via e-mail da Stephen R. Shalom del comitato editoriale di New Politics e curatore di Perilous Power: The Middle East and U.S. Foreign Policy, una serie di dialoghi tra Noam Chomsky e Gilbert Achcar (Paradigm, 2009).

New Politics: Gilbert, il 30 novembre hai pubblicato un breve articolo intitolato “Per una posizione democratica contro la guerra sull’invasione dell’Ucraina” (qui in inglese). Inizi l’articolo distinguendo due posizioni comuni alla sinistra riguardo all’Ucraina. Una di queste posizioni si oppone alle forniture di armi da parte dei paesi della NATO all’Ucraina, sostenendo che come movimento pacifista dovremmo chiedere la diplomazia e la de-escalation piuttosto che le spedizioni di armi. Potresti spiegare cosa trovi di sbagliato in questa posizione?

Gilbert Achcar: La posizione principale che mi preoccupa a questo proposito riguarda la richiesta di un cessate il fuoco incondizionato. È spesso associata alla posizione che lei ha descritto. All’apparenza, è motivata dal desiderio di pace, un obiettivo davvero molto nobile. E non dubito che tra i sostenitori di questa posizione ci siano veri pacifisti e persone che sospettano legittimamente che i governi occidentali, in primo luogo quello statunitense, utilizzino gli ucraini come carne da macello in una guerra per procura contro la Russia, loro rivale imperialista. Naturalmente, sono meno ottimista nei confronti di coloro che hanno iniziato a sostenere un cessate il fuoco incondizionato solo quando le forze russe hanno proclamato di aver raggiunto il loro obiettivo principale o quando hanno iniziato a perdere terreno nel Donbas stesso.

Ci sono diverse questioni in gioco. La prima è che non ha molto senso chiedere la pace in astratto. Ciò pone la domanda: di quale pace stiamo parlando? La dominazione imperiale si è spesso definita “pace”, dai tempi della Pax Romana all’inizio dell’era volgare, se non molto prima, fino alla sinistra “pacificazione” attuata dalle truppe coloniali francesi in Algeria o statunitensi in Vietnam. La pace deve sempre essere qualificata: contro le guerre di conquista, la posizione corretta cerca una pace giusta e duratura, che può essere solo una pace senza annessioni. La richiesta di un cessate il fuoco incondizionato non è conforme a questo standard quando può significare il perpetuarsi della conquista e dell’acquisizione di territori con la forza. Diventa palesemente sospetta quando viene sollevata proprio nel momento in cui l’invaso inizia a respingere l’invasore, come se cercasse di preservare la maggior parte possibile del territorio conquistato sotto il controllo dell’invasore.

Se si guarda alle cose dal punto di vista di una pace giusta, l’unica posizione conforme a questo obiettivo è la richiesta di un cessate il fuoco accompagnata dal ritiro delle truppe d’invasione nelle loro posizioni prebelliche. Tutto il resto deriva da lì: chi è per una pace giusta, chi è contro le guerre di conquista e sostiene le guerre di liberazione come legittima autodifesa, non può opporsi alla consegna di armi difensive alle vittime di aggressioni e invasioni. Non dovrebbero opporsi a tali consegne fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco associato alla condizione che ho menzionato, e fino a quando le vittime non avranno i mezzi per scoraggiare ulteriori aggressioni al loro territorio.

Questo non contraddice minimamente l’invito ai governi occidentali a impegnarsi in sforzi genuini per portare la Russia al tavolo dei negoziati. Mi sembra evidente che l’amministrazione Biden non ha perseguito questo obiettivo in modo genuino e attivo, a differenza dei governi di Parigi o Berlino. Ma la verità è che è la Russia ad aver assunto la posizione più bellicosa, bloccando la prospettiva di pace. La migliore illustrazione di questo e di tutto ciò che ho spiegato sulla richiesta di un cessate il fuoco è il discorso di Vladimir Putin alla cerimonia che ha concluso l’annessione dei quattro oblast’ ucraini di Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia alla fine di settembre. Putin ha detto:

Chiediamo al regime di Kiev di cessare immediatamente il fuoco e tutte le ostilità; di porre fine alla guerra che ha scatenato nel 2014 e di tornare al tavolo dei negoziati. Siamo pronti a questo, come abbiamo detto più di una volta. Ma la scelta dei cittadini di Donetsk, Lugansk, Zaporozhye e Kherson non sarà discussa. La decisione è stata presa e la Russia non la tradirà. Le attuali autorità di Kiev dovrebbero rispettare questa libera espressione della volontà popolare; non c’è altro modo. Questa è l’unica via per la pace.

È ovvio che se chiedete un cessate il fuoco affermando che l’unica pace a vostro avviso è quella che include il riconoscimento della vostra acquisizione forzata di terra, e che questa annessione – che dipingete come il risultato della “libera espressione della volontà del popolo” – non può nemmeno essere discussa, state sbattendo la porta in faccia a qualsiasi prospettiva di negoziati di pace. Spetta al governo russo dimostrare di essere veramente aperto ai negoziati per una soluzione pacifica, il che richiede la sua disponibilità a rimettere tutto sul tavolo, non a chiedere il riconoscimento della sua conquista come un fatto compiuto.

NP: Tu affermi che chi crede nel diritto di autodifesa in una guerra giusta non può opporsi alla consegna di armi “difensive” alle vittime di aggressioni e invasioni. Cosa intendi con il termine “difensivo”? L’artiglieria rientra in questa definizione? Cosa è escluso?

GA: La mia posizione è stata fin dall’inizio quella di porre l’accento sullo scopo difensivo delle forniture di armi all’Ucraina. È vero che non esistono confini netti tra armi difensive e offensive, ma le distinzioni più chiare sono di due tipi: una si riferisce all’intera gamma di armi “anti”: antiaeree, anticarro, antimissile, che sono difensive per definizione. Sono pienamente favorevole alla fornitura di tali armi. L’altra distinzione si riferisce alla portata delle armi. Non sono favorevole a che la NATO fornisca all’Ucraina armi di una portata tale da permettere alle sue forze armate di colpire in profondità il territorio russo. Non perché sarebbe ingiusto: L’Ucraina ha in realtà il pieno diritto morale di colpire in profondità la Russia, dal momento che quest’ultima sta bombardando il territorio ucraino, commettendo così palesemente crimini di guerra nel distruggere deliberatamente le infrastrutture civili dell’Ucraina. Mosca sta ovviamente cercando di costringere la popolazione ucraina al freddo, all’oscurità e ad altre difficoltà, con conseguenze omicide, per costringerla alla capitolazione. I recenti attacchi ucraini alla Russia per mezzo di vecchi droni riconvertiti sono tanto più legittimi in quanto non hanno preso di mira civili russi, ma basi militari da cui decollano gli aerei che bombardano l’Ucraina.

Non sarei favorevole a che la NATO fornisse all’Ucraina missili e aerei a lungo raggio, piuttosto che solo armi antimissile e antiaeree. Non appoggerei nemmeno l’imposizione da parte della NATO di una no-fly zone sull’Ucraina. Tali misure rappresenterebbero una pericolosa escalation del coinvolgimento della NATO in questa guerra, e nessun territorio al mondo vale la pena di rischiare una grande guerra globale e un confronto nucleare per il suo bene. Si noti che Washington stessa vuole evitare questa escalation qualitativa, ed è per questo che si è astenuta dal consegnare armi a lungo raggio all’Ucraina. Coloro che incolpano Washington per questo e chiedono che non ci siano limitazioni sul tipo di armi consegnate si trovano principalmente tra gli ultranazionalisti ucraini e nei paesi vicini dove il risentimento anti-russo è massimo per ragioni storiche. A questi si aggiungono i guerrafondai della NATO, che sono l’immagine speculare di quelli russi. Un esempio è l’ex Comandante supremo delle forze alleate della NATO, il generale statunitense in pensione Philip Breedlove, che ha chiesto fin dall’inizio un coinvolgimento diretto della NATO nella guerra e l’imposizione di una no-fly zone sull’Ucraina. Questo generale Breedlove mi sembra molto simile al dottor Stranamore. È assolutamente irresponsabile.

NP: Nel tuo articolo del 30 novembre hai criticato non solo coloro che chiedono un cessate il fuoco incondizionato, ma anche coloro che “pongono la barra della pace troppo in alto”. Puoi descrivere questo punto di vista e cosa ci trovi di sbagliato?

GA: Mi riferivo a dichiarazioni del tipo che non menzionano nemmeno il cessate il fuoco e le sue condizioni, mentre affermano che non ci può essere pace senza un ritiro completo delle truppe russe da tutti i territori occupati dal 2014, Crimea compresa. Ciò equivale a una richiesta di una guerra totale contro la Russia, che non può essere condotta, e tanto meno vinta, senza un grado molto più elevato di coinvolgimento della NATO, sia militare che economico. Ci sono tre problemi principali con queste posizioni.

Il primo, il più ovvio, è che ciò che sostengono non è approvato dalla maggior parte degli stati occidentali, compresi i più potenti, e dalle maggioranze dell’opinione pubblica di quegli stati. I sostenitori di tale posizione dovrebbero unirsi a personaggi come il Generale Breedlove/Dottor Stranamore nella campagna per un salto di qualità nel coinvolgimento della NATO, che è una posizione guerrafondaia a prescindere dai principi legittimi che può invocare. La strada per l’inferno, come tutti sanno, è lastricata di buone intenzioni.

Il secondo problema è che, definendo condizioni massimaliste per la pace senza nemmeno menzionare un cessate il fuoco, tale posizione fa il gioco di quella opposta, quella di cui ho parlato in risposta alla tua prima domanda. I suoi sostenitori rischiano di apparire agli occhi dell’opinione pubblica come guerrafondai senza cervello in sintonia con gli integralisti nazionalisti ucraini, mentre la posizione opposta apparirebbe come l’unica preoccupata di salvare vite umane, poiché sarebbe l’unica a chiedere un cessate il fuoco – anche se il cessate il fuoco che chiede potrebbe essere in realtà simile al cessate il fuoco annessionista chiesto da Putin.

Il terzo problema è che come progressisti anti-guerra, o internazionalisti, crediamo che quando ci sono dispute legittime sullo status di un territorio, la questione dovrebbe essere decisa democraticamente dalla genuina “libera espressione della volontà del popolo” – non da un finto esercizio messo in scena sotto occupazione dagli invasori. Quindi, ovviamente, i “referendum” svolti sotto il controllo russo in Crimea e in alcune parti del Donbas nel 2014 e nel 2022 non hanno alcuna validità morale o giuridica, per non parlare di quelli svolti anche quest’anno in alcune parti degli oblast di Kherson e Zaporizhzhia. Tuttavia, da una prospettiva internazionalista, mi sembra ovvio che ci siano questioni legittime riguardanti lo status della Crimea e anche di quelle parti del Donbas identificate dall’accordo di Minsk II del 2015. Sono contrario a qualsiasi “soluzione” di questi problemi attraverso la guerra, e a favore di una soluzione democratica pacifica sulla base dell’autodeterminazione dei popoli. Ovviamente, la volontà da esprimere deve essere quella della popolazione originaria di questi territori così come era composta prima del cambiamento forzato del loro status, cioè prima del 2014.

È su queste basi che ho definito quello che ritengo essere il tipo di posizione che gli internazionalisti anti-guerra dovrebbero adottare sulla questione del cessate il fuoco e dei negoziati di pace. Ecco di nuovo i tre punti che ho presentato per una piattaforma democratica contro la guerra:

  • Cessate il fuoco con il ritiro delle truppe russe sulle posizioni del 23 febbraio 2022.
  • Riaffermazione del principio dell’inammissibilità dell’acquisizione di territori con la forza.
  • Negoziati sotto l’egida dell’ONU per una soluzione pacifica e duratura basata sul diritto dei popoli all’autodeterminazione: dispiegamento di caschi blu in tutti i territori contesi, sia nel Donbas che in Crimea, e organizzazione da parte dell’ONU di referendum liberi e democratici che includano il voto dei rifugiati e degli sfollati di questi territori.
Ora, ci vuole un serio errore di lettura della situazione reale per vedere in questo un’inversione della mia posizione anti-invasione, per non parlare di un tradimento della causa ucraina. Il fatto è che porre come condizione per un cessate il fuoco il ritiro delle truppe russe dalle loro posizioni del 23 febbraio significa già porre l’asticella molto in alto. Infatti, come ho spiegato nel mio testo di novembre, ciò richiede un’importante amplificazione della controffensiva ucraina, con un sostegno sostanzialmente maggiore da parte dei paesi della NATO e un aumento della loro pressione economica sulla Russia. Tuttavia, è l’unica condizione accettabile per un cessate il fuoco in una prospettiva che ripudia l’acquisizione del territorio con la forza. Solo la parte ucraina ha il diritto di accettare un cessate il fuoco inferiore, se le condizioni effettive la portano a questo. Per quanto riguarda la guerra fino alla riconquista dell’intero Donbas e della Crimea, se l’Ucraina avesse lanciato un’offensiva del genere prima dell’invasione russa del 24 febbraio, l’avrei certamente considerata un avventurismo nazionalista sconsiderato, per quanto legittimo potesse essere. È per lo stesso motivo che non condivido l’invito a proseguire la guerra finché l’Ucraina non avrà recuperato tutti questi territori.

NP: Il tuo terzo punto si basa sulle Nazioni Unite. Ma dato il potere di veto della Russia in seno al Consiglio di Sicurezza, non staresti di fatto permettendo a Mosca di fare la sua strada nelle aree contese?

GA: Permettimi di chiederti innanzitutto: Quale alternativa c’è alle Nazioni Unite per supervisionare una soluzione democratica e pacifica del conflitto? Potrebbe essere la NATO questa alternativa? Porre la domanda significa rispondere. Per quanto riguarda il cosiddetto “Formato Normandia” (il gruppo di rappresentanti di Germania, Russia, Ucraina e Francia che si sono incontrati informalmente durante la celebrazione del D-Day nel 2014 appunto in Normandia, ndt), è fallito irrimediabilmente. A meno di un crollo del regime di Putin che cambierebbe radicalmente la situazione, l’unico modo per convincere la Russia a rispettare le condizioni di un accordo pacifico è quello di farlo passare attraverso le Nazioni Unite, dove sarebbe necessaria l’approvazione della Russia e della Cina. Naturalmente, la Russia non accetterà tale accordo a meno che non sia costretta dalla situazione militare sul campo e dalla sua situazione economica. Ma obiettare che procedere attraverso le Nazioni Unite darebbe a Mosca un potere di veto equivale a dire che un accordo può essere imposto alla Russia contro la sua volontà. Questo ci riporterebbe allo scenario apocalittico dei guerrafondai.

La questione va vista in modo diverso: una soluzione controllata dalle Nazioni Unite è quella che prevede un accordo tra le principali potenze della NATO da un lato, la Russia dall’altro e la Cina. Ovviamente, non ci può essere una soluzione pacifica che ponga fine alla guerra senza un tale accordo. Il dispiegamento di truppe ONU nei territori contesi – idealmente insieme al ritiro delle forze russe, ma anche se ciò si rivelasse impossibile da ottenere prima della procedura di autodeterminazione ed esse dovessero rimanere fino al suo completamento, a condizione di essere confinate nelle loro basi e caserme – è l’unico mezzo per ottenere veri referendum di autodeterminazione organizzati da un organismo incaricato dalle Nazioni Unite. Solo una soluzione di questo tipo può essere sostenuta dalla legalità internazionale e dal consenso delle grandi potenze. È difficile immaginare un altro scenario per una soluzione democratica pacifica.

NP: Nel tuo articolo del 30 novembre affermi che il movimento contro la guerra dovrebbe cercare di fare pressione sulla Cina per un sostegno alla conclusione positiva della guerra. Come si potrebbe esercitare questa pressione e perché pensi che la Cina potrebbe giocare un ruolo del genere?

GA: La via più breve, e meno costosa in termini di vite umane e distruzione, per arrivare a un cessate il fuoco nelle condizioni sopra descritte è che le potenze della NATO convincano la Cina ad aggiungere alle loro pressioni militari ed economiche quelle “amichevoli” su Mosca. Berlino e Parigi hanno fatto dei tentativi in tal senso, ma sono ostacolati dall’atteggiamento provocatorio di Washington nei confronti di Pechino, che Donald Trump ha portato all’apice e che Joe Biden ha proseguito. La Cina è chiaramente insoddisfatta della guerra in corso, che va contro i suoi interessi economici e ha già rafforzato notevolmente il fronte geopolitico occidentale che gli Stati Uniti si sforzano di costruire contro Pechino e la sua “eterna amicizia” con Mosca. Ciò significa che la Cina potrebbe rendersi conto che Putin sta rendendo un pessimo servizio alla loro opposizione congiunta all'”egemonismo” statunitense e che lasciarlo continuare a portare avanti la sua invasione malriuscita può solo aumentare il danno. Inoltre, il silenzio di Pechino su questa invasione contraddice palesemente il suo dichiarato impegno nei confronti del diritto internazionale e dei principi di sovranità e integrità degli Stati.

Tutti i documenti di politica estera cinese sottolineano il ruolo centrale che le Nazioni Unite dovrebbero svolgere nella politica mondiale, eppure la Cina finora non ha fatto alcuno sforzo presso le Nazioni Unite per farle svolgere un ruolo chiave nel fermare la guerra, che è ciò per cui le Nazioni Unite sono state principalmente concepite. Al contrario, Pechino si è rifugiata nell’astensione di fronte alla più grave minaccia alla pace globale della storia recente, un atteggiamento che non è certo degno della seconda potenza del pianeta. In questo contesto, credo che il movimento contro la guerra dovrebbe fare pressione non solo su Mosca e Washington, come fa, o più precisamente come fanno diversi settori di esso, su una o l’altra di queste due capitali, ma anche su Pechino, che ha una parte importante di responsabilità per la continuazione della guerra con la sua scelta di non agire per fermarla. Il movimento contro la guerra dovrebbe rendersi conto che anche la Cina – sempre più spesso – è una delle potenze globali responsabili dello stato del mondo.

Le truppe di Putin fuori dall'Ucraina

Sabato 10 dicembre, manifestazione a Parigi, dal Trocadero verso l’ambasciata di Russia

Una crisi umanitaria senza precedenti minaccia la popolazione ucraina in questo inverno. Dal febbraio 2022 e dall’invasione di territorio ucraino da parte delle forze di Vladimir Putin, le vittime si contano a decine di migliaia, gli sfollati a milioni, i danni in decine di miliardi di euro.

Oltre all’occupazione di ampie porzioni del territorio ucraino da parte delle forze di invasione, si aggiungono la distruzione sistematica e continua delle fonti di energia, compresa l’elettricità, l’approvvigionamento idrico e alcune infrastrutture vitali dell’intero paese, lo sfollamento forzato delle persone nei territori occupati anche in territorio russo, compresa la deportazione di migliaia di bambini, spesso separati dai loro genitori separati dai loro genitori, stupri…

In Russia, le persone vengono arruolate o costrette a combattere in guerra. Centinaia di migliaia di giovani vogliono giustamente evitarlo, altri scelgono coraggiosamente di opporsi esplicitamente. 

L’invasione deve finire e con essa questa guerra!

Per questo motivo manifestiamo e vi invitiamo a farlo. Sabato 10 dicembre 2022 alle 14:00 per chiedere l’allontanamento delle truppe di Putin dall’intero territorio dell’Ucraina! 

Hanno aderito finora:


Union des Ukrainiens de France
Russie Liberté
Socialistes russes contre la guerre
Association des Géorgiens en France
Géorgie vue de France
Collectif pour une Syrie libre et démocratique CPSLD
Coordination des Syriens de France
CSDH Iran
A Manca
Assemblée européenne des citoyens
Association autogestion
Aplutsoc
ATTAC France
Cedetim
Club
Politique Bastille
Confédération générale du travail (CGT)
Coopératives Longo Maï
Éditions Syllepse
Émancipation Lyon 69
Ensemble !
Europe Écologie Les Verts (EELV)
Entre les lignes entre les mots
Fédération internationale des Sound Libertaires
Fondation Copernic
Forum civique européen
Fédération syndicale unitaire (FSU)
Gauche démocratique et sociale
Gauche écosocialiste
Ligue des droits de l’Homme (LDH)
L’Insurgé
Les Humanités
Mémorial 98
Mouvement national lycéen (MNL)
Nouveau Parti anticapitaliste (NPA)
Pour l’Ukraine, pour leur liberté et la nôtre
Pour une écologie populaire & sociale (PEPS)
Régions et peuples solidaires (RPS)
Rejoignons-nous
Réseau syndical international de solidarité et de luttes
RESU France (Réseau européen de solidarité avec l’Ukraine)
Réseau Penser l’émancipation
Union syndicale Solidaires

Ucraina, l'annessione di altri territori da parte di Putin


di Dan La Botz, da 
newpol.org

Il dittatore russo Vladimir Putin ha firmato, nel corso di una cerimonia formale nella Sala di San Giorgio al Cremlino, i documenti per annettere formalmente e incorporare alla Russia ampie porzioni dell’Ucraina, pari al 20% del territorio di quest’ultimo paese. Quel territorio e quella popolazione cessano così ufficialmente di essere ucraini.

Su ordine di Putin, la Russia ha organizzato frettolosamente dei finti referendum in queste province dove centinaia di migliaia di persone sono fuggite e dove decine di migliaia di altre vivono sotto occupazione, alcune nella più totale miseria. Altri ucraini in questa regione – alcuni rapporti parlano di un milione, tra cui migliaia di bambini – sono stati radunati da soldati russi e agenti di polizia dell’FSB e inviati in Russia. Chiaramente, come il mondo ha potuto vedere, in queste condizioni estreme la gente di quelle regioni non poteva decidere liberamente del proprio destino.

Eppure Putin si è presentato in sala e ha pronunciato un discorso assurdo, rivendicando questi territori per “della Russia per sempre”.

“Il popolo ha fatto la sua scelta”, ha detto. “E questa scelta non sarà tradita. Voglio che le autorità di Kiev e i loro veri padroni in Occidente mi ascoltino: i residenti di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson stanno diventando nostri cittadini. Per sempre”.

Come ha detto il Segretario generale delle Nazioni unite António Guterres, tuttavia, “Qualsiasi annessione del territorio di uno Stato da parte di un altro Stato, derivante dalla minaccia o dall’uso della forza, è una violazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Qualsiasi decisione di procedere all’annessione delle regioni ucraine di Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia non avrebbe alcun valore legale e merita di essere condannata”.

Questi falsi referendum e la rappresentazione teatrale di Putin al Cremlino, circondato da funzionari russi e dalle marionette che ha messo al potere nei territori conquistati, costituiscono l’ultimo episodio di una guerra di etnocidio e genocidio in corso contro il popolo ucraino. Fanno parte di un processo di russificazione e di cancellazione dell’identità del popolo ucraino che dura da centinaia di anni. Ironia della sorte, questo avviene mentre il popolo ucraino si è unito come mai prima d’ora ed è riuscito a frustrare gli obiettivi militari di Putin. Il discorso di Putin, avvenuto mentre ordinava l’arruolamento di centinaia di migliaia di persone per combattere in Ucraina, è stato accompagnato dalla fuga all’estero di 200.000 uomini russi e da proteste di piazza in tutto il Paese, con migliaia di persone arrestate.

La guerra della Russia contro l’Ucraina ha avuto fin dall’inizio un carattere genocida, secondo la definizione delle Nazioni unite, che cito integralmente affinché il lettore possa rendersi conto della presenza di tutti questi elementi, come dimostrerò.

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:

    • Uccidere i membri del gruppo;
    • causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;
    • infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
    • Imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
    • trasferire con la forza i bambini del gruppo a un altro gruppo.

Tutte queste pratiche, tranne la quarta, si sono verificate in Ucraina.

La definizione dell’ONU non è in linea con la nostra concezione popolare di genocidio, più indelebilmente impressa nelle nostre menti dall’olocausto ebraico. Tuttavia, la definizione ufficiale coglie che il genocidio ha un’intenzione e una traiettoria e che attraverso un processo questi elementi si fondono in una realtà orribile.

Come guardiamo noi di sinistra, noi socialisti, a questo peggior crimine immaginabile, il tentativo di cancellare culturalmente o annientare fisicamente un intero popolo? E come ci poniamo?

Imperialismo e genocidio

L’attuale campagna di etnocidio, di cancellazione culturale, è guidata dall’imperialismo russo. L’imperialismo è una delle cause frequenti di etnocidio o genocidio. L’espansione di uno Stato con l’obiettivo di conquistare e sottomettere un altro popolo o una nazione – che si tratti di uno Stato antico, medievale o moderno, cioè precapitalista, capitalista, collettivista burocratico (ad esempio stalinista) – ha spesso comportato un genocidio.

Potremmo prendere come paradigma il caso della Spagna a partire dalla fine del XV secolo. Con la sua ideologia di pureza de sangre (sangue puro) e il suo ruolo di difensore e propagatore della fede cattolica, la Spagna asburgica iniziò a espandersi. Alla ricerca dell’impero, gli spagnoli combatterono i musulmani e i protestanti in Europa e i pagani delle Americhe con l’intento di estirpare le loro credenze religiose.

Nel 1492, lo stesso anno in cui Colombo salpò dalla Spagna e si imbatté nelle Americhe, gli spagnoli cacciarono gli infedeli, ebrei e musulmani, dalla penisola iberica o, con campagne etnocide, ne imposero la conversione a colpi di spada. Arrivati nel Nuovo Mondo, i conquistadores spagnoli sconfissero gli imperi indigeni, gli Aztechi e gli Inca, e molti stati e tribù meno potenti, e imposero il loro dominio razziale, la loro religione e la loro lingua, oltre, naturalmente, a impadronirsi delle ricchezze e delle terre delle popolazioni indigene. Nel corso della conquista, in alcuni casi, hanno praticamente sterminato interi gruppi etnici, come i Tainos dei Caraibi e molti altri. Sotto il dominio spagnolo altri gruppi persero il loro carattere etnico distintivo, la loro religione e la loro lingua e furono trasformati culturalmente.

Gli spagnoli, ovviamente, non erano soli. All’epoca, le classi dirigenti inglesi, olandesi, francesi e di altri Paesi europei avevano nozioni simili sulla loro superiorità etnica, religiosa e culturale, così come i governanti dei grandi imperi territoriali dell’Impero Ottomano e della Russia. Anche se, naturalmente, in ogni caso era il loro sangue a essere puro, la loro religione – protestante, ortodossa orientale o musulmana – a essere la vera fede e la loro civiltà a dover governare. Molto prima dell’arrivo del capitalismo moderno, ad esempio, l’impero russo zarista assorbì l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Finlandia e la Polonia a ovest e praticamente tutta la Siberia e l’Asia centrale a sud e a est, in nome della superiorità russa incarnata dalla fede ortodossa e dimostrata dalla conquista. Mentre le colonie britanniche del Nord America e poi gli Stati Uniti annientarono alcune popolazioni indigene e ne costrinsero altre a lasciare le loro terre tradizionali e a trasferirsi in “riserve”.

Alla fine del XIX secolo, il concetto di superiorità civile è stato giustificato dal razzismo pseudo-scientifico del darwinismo sociale, secondo il quale gli europei erano i più evoluti, dotati di un’intelligenza superiore e di una moralità superiore. I francesi, ad esempio, dissero al mondo e alle decine di milioni di africani, asiatici e abitanti delle isole del Pacifico nelle loro colonie che il loro impero aveva una missione civilizzatrice, così come i britannici, con il più grande impero “su cui non è mai tramontato il sole”, si assunsero, secondo le parole di Rudyard Kipling, “il fardello dell’uomo bianco” di portare pace e abbondanza ai “silenziosi popoli arcigni”. Nell’Europa orientale di quel periodo, la Russia zarista impose la sua lingua e la sua cultura all’Ucraina, ma contro un sentimento nazionale ucraino in ascesa, che divenne una forza rivoluzionaria alla fine della Prima Guerra Mondiale.

In realtà, alla fine del XIX secolo non erano più gli ideali a prevalere, ma gli interessi; gli imperi territoriali (ottomano e russo), i più vecchi imperi capitalistici, commerciali e industriali (Inghilterra, Olanda e Francia) e i più recenti (Stati Uniti, Germania e Giappone) si contendevano il controllo delle terre e dei mari del mondo, delle risorse naturali e della manodopera, portando a due guerre mondiali. Nel corso di questa evoluzione dell’imperialismo, l’ideologia della superiorità etnica e culturale ha continuato a giustificare omicidi di massa e campagne genocide nelle colonie o nelle guerre in Europa. Sotto il re Leopoldo del Belgio, che si atteggiava a grande umanista, circa dieci milioni di congolesi furono uccisi per la ricerca della terra e del caucciù. Gli olandesi e gli inglesi condussero guerre genocide contro il popolo San (chiamato Boscimani) nella colonia del Capo di Buona Speranza. In Europa, l’Unione Sovietica di Stalin, né capitalista né socialista, collaborando con la Germania nazista di Adolf Hitler, si impegnò in un genocidio anche in Ucraina. Hitler ordinò la “soluzione finale” che, attraverso la fame, i plotoni di esecuzione e le camere a gas, uccise sei milioni di ebrei europei.

Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, mentre il movimento anticoloniale cresceva tra i popoli assoggettati dell’Asia, dell’Africa e dei Caraibi, gli Stati Uniti e l’Europa continuarono a impegnarsi in interventi imperialisti in nome delle loro civiltà superiori basate sul capitalismo, la democrazia e i diritti umani, mentre l’Unione Sovietica lo faceva in nome del comunismo, del progresso e della solidarietà internazionale. I francesi hanno combattuto guerre per mantenere le loro colonie in Vietnam e Algeria. Gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra in Vietnam, che ha ucciso due milioni di asiatici e ha provocato il più grande genocidio contemporaneo nella vicina Cambogia, uccidendo tra 1,5 e 2 milioni di persone. L’Unione Sovietica invase e occupò l’Afghanistan. La Cina ha conquistato il Tibet. Anche la “guerra al terrore” degli Stati Uniti, comprese le guerre in Iraq e in Afghanistan, ha ucciso centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini (la stima è di 890.000).

Le argomentazioni di Putin a favore dell’imperialismo, dell’etnocidio e del genocidio

Quindi, consapevoli di questa storia, quando oggi ascoltiamo le nozioni ataviche di Vladimir Putin sul ruolo della Russia tra i popoli slavi e più in generale in Europa e in Asia, riconosciamo subito che abbiamo a che fare con un’ideologia imperialista, anche se le sue argomentazioni assomigliano più a quelle della Spagna del XVI secolo che ai moderni concetti imperialisti. Putin lamenta il crollo dell’Unione sovietica e la disgregazione del suo impero nell’Europa orientale. “Per quanto riguarda il popolo russo, il crollo dell’Unione sovietica è diventato una vera e propria tragedia. Decine di milioni di nostri concittadini e compatrioti si sono ritrovati ai margini del territorio russo. L’epidemia del collasso si è riversata sulla Russia stessa”, ha detto.

In realtà, l’ideologia imperiale di Putin è un ritorno alla Russia zarista. Putin – influenzato da intellettuali di destra come Lev Gumilev e Alexander Dugin – crede (o sostiene di credere) nella Russia millenaria. Vede la Russia del vecchio impero zarista, infusa da una forza cosmica di “potenza appassionata” (Gumilev), ispirata dalla Chiesa ortodossa russa, l’archetipo della nazione slava, che parla russo e che guida gli altri popoli slavi e i vicini asiatici nella creazione di una potenza eurasiatica in grado di fermare, sfidare e sconfiggere l’Occidente. Questa ideologia etno-nazionalista e civilizzatrice è stata usata da Putin per giustificare la conquista, l’omicidio di massa e l’etnocidio.

Putin ritiene quindi che l’impero russo debba essere ricreato e che quei “concittadini e compatrioti che si sono trovati al di là dei confini del territorio russo” debbano essere salvati e reincorporati nella Russia. I più importanti sono gli ucraini, una nazione grande come la Francia, con una popolazione di oltre quaranta milioni di persone, con una propria storia, lingua e cultura di cui Putin ha negato l’esistenza. Nel 2019, Putin ha dichiarato al regista Oliver Stone: “Credo che russi e ucraini siano un unico popolo… un’unica nazione”, ha detto Putin. “Quando queste terre che ora sono il nucleo dell’Ucraina si sono unite alla Russia… nessuno pensava a se stesso come a qualcosa di diverso dai russi”.

Putin rifiuta l’idea di un popolo e di una nazione ucraina, sostenendo che l’Ucraina è una creazione artificiale. “L’Ucraina moderna è stata interamente e completamente creata dalla Russia, più precisamente dalla Russia bolscevica e comunista”, ha dichiarato Putin nel 2021. “Questo processo è iniziato praticamente subito dopo la rivoluzione del 1917, e per di più Lenin e i suoi associati lo hanno fatto nel modo più sciatto in relazione alla Russia – dividendo, strappandole pezzi del suo stesso territorio storico”. Ha anche scritto un articolo in cui sostiene questa posizione. La sua posizione nega quindi al popolo ucraino qualsiasi potere, qualsiasi capacità di decidere della propria identità. È chiaro che questa posizione diventa una giustificazione per la guerra contro gli ucraini per costringerli a diventare parte della Russia. È un argomento per l’etnocidio e persino per il genocidio.

Se si vuole commettere un omicidio di massa o un genocidio, gli aggressori trovano necessario negare l’umanità di coloro che intendono uccidere o eliminare del tutto. Per motivare il loro popolo e i loro soldati, devono sostenere che coloro che saranno uccisi sono meno che umani, a causa della loro razza, della loro religione o delle loro opinioni politiche. Quando ha lanciato la sua guerra contro l’Ucraina nel febbraio 2022, Putin ha dichiarato: “A tal fine, cercheremo di smilitarizzare e denazificare l’Ucraina e di consegnare alla giustizia coloro che hanno commesso numerosi crimini sanguinosi contro persone pacifiche, compresi i cittadini russi”. Chiamare gli ucraini nazisti li disumanizza, soprattutto se si considera la storia della guerra di Adolf Hitler contro l’Unione sovietica, lanciata nel 1941, che ha ucciso 27 milioni di persone, non solo russi ma anche molti altri gruppi etnici sovietici e in particolare gli ucraini. Ironia della sorte, mentre in Ucraina ci sono alcuni nazisti – come oggi quasi ovunque – le forze militari di Putin includono non solo i mercenari neonazisti della famigerata milizia Wagner, ma anche un battaglione regolare dell’esercito russo sotto l’autoproclamato comandante neonazista Alexeï Milchakov.

La guerra come prova di etnocidio e genocidio

La guerra russa contro l’Ucraina è stata fin dall’inizio – anche se non è stato così ovunque – un esempio di quella che a volte viene chiamata “guerra totale”, cioè una guerra sia contro i militari che contro i civili, cosa che comporta il fuoco dell’artiglieria o il bombardamento aereo delle città, la distruzione di uffici e impianti industriali e di miniere, nonché di campi e strutture agricole, l’uccisione di massa sia di soldati che di civili (adulti e bambini), e nel corso della quale sono stati uccisi migliaia di soldati e di civili, sono stati usati la tortura e lo stupro, il tutto allo scopo di creare terrore tra la popolazione. Di conseguenza, 7,4 milioni di ucraini sono fuggiti in altre nazioni europee, anche se forse tre milioni sono ora tornati. Altri sette milioni di ucraini sono stati sfollati dalle loro case in altri luoghi del loro Paese. Tra gli sfollati che sono partiti e quelli che sono rimasti ci sono circa 3 milioni di bambini. La guerra totale in Ucraina ha anche distrutto l’economia e lasciato milioni di disoccupati. Sebbene tutte queste atrocità siano state comuni nelle guerre moderne e non costituiscano di per sé un etnocidio o un genocidio, esse possono costituirne la base.

Le preoccupazioni per l’etnocidio e il genocidio sono aumentate dal ritrovamento di centinaia di corpi in fosse comuni. Una Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sull’Ucraina, istituita dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha rilevato che i soldati russi hanno commesso crimini di guerra, tra cui molti casi di tortura, esecuzioni, stupri (anche di bambini), bombardamenti di aree civili che talvolta hanno portato alla separazione delle famiglie dai loro figli. La commissione sta anche esaminando l’adozione di bambini ucraini da parte di famiglie russe.

Come si fa a provare il genocidio, visto che la convenzione delle Nazioni Unite recita che questo si traduce “nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Credo che si tratti di esaminare, come abbiamo fatto in questo caso, tutti gli elementi che circondano il caso in questione.

Mentre la guerra porta sempre ad atrocità, in questo caso la combinazione dell’ideologia di Putin, delle sue affermazioni sull’inesistenza dell’Ucraina o degli ucraini, della sua guerra totale al popolo ucraino e dei crimini di guerra registrati rende chiaro che stiamo assistendo a un etnocidio e a un genocidio. Tutto questo ci spinge come socialisti, e dovrebbe spingere gli altri, a stare dalla parte dell’Ucraina, a sostenere la sua guerra per l’autodeterminazione e il suo diritto ad acquistare armi, e allo stesso tempo ci porta a sostenere il movimento contro la guerra e i resistenti alla guerra in Russia.