Pubblichiamo questo appello ai lavoratori e agli attivisti europei (tratto dal sito del Movimento Sociale Ucraino, Sotsialnyi Rukh, organizzazione ucraina simpatizzante della Quarta Internazionale), sottoscritto da militanti e dirigenti sindacali ucraini di Kryvih Rih, la città industriale dell’Ucraina meridionale, e da rappresentanti di varie associazioni democratiche del paese. L’appello esprime molto bene lo stato d’animo e gli auspici di molti sindacalisti e associazioni ucraini, nonché le questioni che desiderano comunicare alle loro controparti in altri paesi, a meno di un mese dalle elezioni del parlamento della Unione europea.
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Ucraina-Svizzera, lettera al presidente della Confederazione elvetica Alain Berset
Egregio signor Presidente della Confederazione,
da più di un anno l’aggressione della Russia all’Ucraina sta provocato sofferenze incalcolabili e un disastro umano di dimensioni gigantesche, tra militari e civili uccisi, feriti, prigionieri, scomparsi, rapiti. A questo si aggiunge un disastro economico e ambientale che richiederà sforzi enormi da parte della comunità internazionale. È infatti escluso che l’Ucraina da sola riuscirà a ricucire queste profonde ferite nella società e nel territorio.
La Svizzera ha aderito alle sanzioni contro l’aggressore in data 28 febbraio 2022, con alcuni giorni di ritardo rispetto ai paesi dell’Unione Europea e agli Stati Uniti. Abbiamo criticato questo ritardo, ma abbiamo pure appoggiato la decisione di aderire, convinti che isolare la Russia di Putin con sanzioni economiche mirate avrebbe aumentato le pressioni e contribuito a mettere in difficoltà la macchina da guerra russa. La condizione era ed evidentemente rimane, che queste sanzioni vengano davvero attuate con grande rigore. In caso contrario il loro effetto sarebbe di molto ridotto e toglierebbe molta credibilità alle dichiarazioni di solidarietà nei confronti della popolazione ucraina.
Il nostro comitato “Contro la guerra e contro il riarmo”, sezione Ticino, ha seguito da vicino l’applicazione delle sanzioni ed è intervenuto a diverse riprese per denunciare una certa lassitudine, carenze nei controlli, poca efficacia.
A titolo d’esempio ricordiamo le nostre prese di posizione, assieme a molti altri, riguardo gli averi degli oligarchi russi nelle banche svizzere (stimati dalle banche stesse a circa 150/200 miliardi di franchi) e di cui ne sono stati bloccati a fine 2022 solo 7.5 miliardi. Una cifra irrisoria dal nostro punto di vista.
Ricordiamo anche, sempre a titolo d’esempio, il fiorente commercio di materie prime in Svizzera che ha stabilito in diversi settori bilanci record proprio durante l’anno della guerra. Notoriamente questo commercio avviene in gran parte con oligarchi russi vicini a Putin e a lui fedeli.
Abbiamo protestato lo scorso mese di settembre per il commercio record di oro russo registrato in Svizzera quel mese (5.6 tonnellate per un valore di 312 milioni di franchi).
Alla fine del 2022 ci siamo indignati pubblicamente per i risultati di un’indagine inglese che documentava la presenza di componenti prodotti in Svizzera nei missili russi denominati Kh-101, impiegati ancora qualche giorno prima (23 novembre 2022) per bombardare Kiev. La portavoce della SECO affermava in quell’occasione che questi componenti, probabilmente, erano stati fabbricati in siti di produzione esteri e quindi non soggetti alle sanzioni. Questa risposta meritava, secondo noi, una censura da parte del Consiglio federale.
Ancora negli scorsi giorni, fonti giornalistiche che non sono state smentite, hanno indicato con chiarezza e nei particolari che microchip “made in Svizzera” sono stati trovati su droni di ricognizione russi tipo “Orlan”. Questi droni segnalano alle truppe russe le posizioni dell’artiglieria ucraina. Il resto lo possiamo immaginare tutti.
Come se non bastasse, alcuni dati doganali visionati da queste fonti giornalistiche, indicano anche la fornitura di beni di “duplice impiego” alla Russia di Putin (macchinari utensili, pezzi di ricambio, strumenti di precisione), cioè beni utilizzati dal settore civile e militare. A questo riguardo la ditta implicata, la GF Machining Solutions, con sede anche a Losone, e la SECO, non hanno fornito risposte esaustive.
Come cittadine e cittadini, militanti attive e attivi nella solidarietà con il popolo ucraino, non possiamo che protestare per questi scandalosi scambi commerciali che vedono implicate imprese svizzere.
Tutto ciò è in flagrante contraddizione con le numerose dichiarazioni di vicinanza al popolo ucraino che il Consiglio federale ha espresso in questi 14 mesi di guerra.
Tutto ciò è in flagrante contraddizione con il rispetto delle sanzioni adottate a partire dallo scorso 28 febbraio 2022.
La fine di questa guerra sarà determinata, oltre che da quanto succederà sul campo, anche dalla portata e dal rigore nell’applicazione delle sanzioni decise. Disarmare economicamente Putin è essenziale per porre fine alle tremende sofferenze del popolo ucraino. La Svizzera non può venir meno a questo impegno.
Chiediamo al Consiglio federale, tramite il suo presidente, di adoperarsi con tutti gli strumenti a sua disposizione per porre termine a questi scandalosi episodi di non rispetto delle sanzioni e di adoperarsi nello stesso modo verso i cantoni per quanto di loro competenza.
Ringraziamo per l’attenzione che verrà portata alla nostra richiesta e salutiamo cordialmente.
Russia, per quanto tempo ancora potrà andare avanti?
di Boris Kagarlitsky, da
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Business putinista
Le aziende straniere non hanno fretta di lasciare il mercato russo
Uno studio condotto dall’Università di San Gallo in Svizzera ha rivelato che le aziende straniere che hanno applicato le sanzioni deliberate dalle potenze occidentali e che dunque hanno lasciato la Russia chiudendo le proprie filiali ammontano a meno del 9% del totale, dall’inizio della guerra.
Le filiali russe coinvolte dalle sanzioni sarebbero dovute ammontare a 2.405, di proprietà 1.404 società con sede in paesi dell’UE e del G7. Secondo la ricerca svizzera, le aziende statunitensi hanno chiuso solo il 18% delle proprie filiali, quelle giapponesi il 15% e quelle europee l’8,3%.
Non è dunque vero che vi sia stato quel vasto esodo di imprese occidentali dalla Russia putiniana e in guerra.
La ricerca, inoltre, in base al dettaglio dei dati raccolti, mette in luce che molte delle chiusure è legata alla bassa redditività delle filiali russe piuttosto che al rispetto delle sanzioni. Le aziende infatti hanno lasciato operative soprattutto le filiali più produttive e redditizie. Infatti, a fronte di una chiusura dell’8,6% delle filiali, queste filiali rappresentano solo il 6,5% dell’utile totale al lordo delle imposte di tutte le imprese dell’UE e del G7 con operazioni commerciali attive in Russia.
La quota del 18% delle filiali chiuse di aziende statunitensi, pur essendo largamente al di sotto delle cifre auspicate, mostra che le corporation statunitensi (e in parte anche quelle giapponesi) hanno applicato le sanzioni in misura leggermente maggiore dei loro concorrenti europei.
Il mondo degli affari, dunque, come sempre predilige il profitto e se ne sbatte della pace.