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E’ nata la “Sinistra Verde” dell’Europa centrale e orientale

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A ottant'anni dal 1943, Varsavia e il suo ghetto, 63 giorni eroici, una lezione per il nostro tempo


Giusto 80 anni fa, precisamente il 19 aprile 1943, il ghetto ebraico di Varsavia si rivoltava contro le criminali vessazioni naziste. Questo articolo è stato pubblicato il 4 aprile 1949 su Labor Action, quello che era l’organo del Workers Party (USA), un’organizzazione che si era separata dal Socialist Worker Party nell’aprile del 1940, a seguito di una sostanziale divergenza sulla natura di classe dell’URSS, che il Workers Party vedeva inizialmente come uno stato governato da un “nuovo tipo di classe”. 

I membri più noti del Workers Party erano: Max Shachtman (i suoi scritti sono disponibili su marxists.org), Hal Draper (autore, tra l’altro, di Karl Marx’s Theory of Revolution), C.L.R. James (autore, tra l’altro, di The Black Jacobins, scritto nel 1938).

di  Jacques, da alencontre

In aprile [si parla ovviamente dell’aprile 1949] non si terrà a Varsavia alcun incontro commemorativo per ricordare la disperata rivolta del ghetto ebraico avvenuta il 19 aprile 1943. I 50.000 lavoratori ebrei ancora in vita rappresentavano solo il 10% di coloro che erano stati schiacciati dai nazisti nel ghetto murato di Varsavia nell’ottobre 1940. Gli altri erano stati braccati in gruppi come parte della caccia all’uomo permanente delle SS (le truppe d’assalto di Hitler), per essere sterminati nelle camere a gas di Treblinka.

La lotta armata senza speranza di questo residuo della comunità ebraica non fu solo un atto di disperazione per vendere a caro prezzo la propria vita piuttosto che essere sterminati in silenzio e senza opporre resistenza. 

Era anche questo. Ma soprattutto era una richiesta di aiuto ai lavoratori polacchi dall’esterno. Si trattava anche di raggiungere il mondo esterno come ultimo grido dalle profondità di un inferno barbarico che il mondo non aveva mai immaginato, una richiesta di aiuto in una situazione estrema.

Era un grido per risvegliare le coscienze di un mondo in guerra e non permettere l’ultimo, atroce strangolamento di un popolo totalmente indifeso.

Questo appello è rimasto completamente inascoltato. La “civiltà” assistette con incredibile indifferenza all’uso da parte dei tedeschi di artiglieria a lungo raggio, carri armati, lanciafiamme e gas velenosi per annientare i combattenti del ghetto. Le rovine vennero bruciate fino a ridurre l’intero complesso a una vasta distesa di macerie alte tre piani. La maggior parte dei combattenti ebrei venne sepolta in queste rovine.

I Bundisti

I leader del gruppo socialista ebraico Bund [1] lanciarono un appello diretto all’organizzazione clandestina dei lavoratori polacchi affinché li aiutassero, se non con le armi, almeno con uno sciopero di protesta. I polacchi rifiutarono. Erano divisi dall’antisemitismo. Molti erano solidali con gli ebrei, ma altri dissero senza mezzi termini: “Grazie a Dio i tedeschi stanno facendo questo per noi”.

Questo atteggiamento non è limitato alla classe superiore. L’arretratezza della classe operaia polacca, come di molte altre, può essere misurata dal grado di antisemitismo.

I rappresentanti del Bund ebraico lasciarono il ghetto clandestinamente per cercare aiuto all’estero. Artur Ziegelboim [2] si trovava a Londra durante la rivolta e si rivolse al governo polacco in esilio e al governo Churchill. Fece un bilancio della sua missione, del suo totale e spietato fallimento, suicidandosi il 12 maggio 1943 e accusando il mondo “civilizzato” per la sua mancanza di umanità nella sua sconvolgente lettera [3]. Questa lettera è molto più eloquente di tutti i discorsi contro il genocidio pronunciati alle riunioni dell’ONU dai diplomatici di entrambi i lati della cortina di ferro.

I polacchi stessi avrebbero sperimentato l’amarezza, non solo l’indifferenza, ma il vero e proprio tradimento, poco più di un anno dopo. Il 1° agosto 1944, l’intera Varsavia, compresi gli ultimi resti ebraici, si sollevò come un sol uomo contro l’oppressore nazista. 

Il Consiglio nazionale polacco non aveva dubbi che questa rivolta, ripetutamente chiamata dalla radio russa, sarebbe stata aiutata dall’avanzata dell’Armata Rossa, la cui artiglieria poteva essere udita nelle vicinanze. 

La rivolta durò 63 terribili giorni durante i quali l’Armata Rossa rimase totalmente inattiva su questo fronte. I russi non permisero nemmeno agli aerei britannici inviati, con qualche aiuto, di atterrare sui campi d’aviazione russi! 

Varsavia è stata ridotta in macerie, così come il ghetto. Ai nazisti fu permesso di eliminare l’Armia Kryova (l’esercito clandestino polacco) e i suoi leader per non lasciare questo compito ai russi. L’NKVD completò quel poco che rimaneva quando l’Armata Rossa marciò finalmente sulle rovine nel gennaio 1945 [4].

No, i polacchi sotto il governo stalinista non commemoreranno la rivolta del ghetto di Varsavia, né i russi li esorteranno a farlo. Né la manciata di ebrei rimasti in tutta la Polonia si preoccuperà di farlo, soprattutto se una falsa colorazione stalinista viene data a una celebrazione “ufficiale”. Ma coloro che hanno a cuore la resistenza degli oppressi contro gli oppressori si meraviglieranno ancora una volta dell’incredibile impresa dei lavoratori ebrei del ghetto.

Tutta la vantata efficienza della Gestapo, tutta la barbarie del terrore che ha scatenato in un’esplosione di sadica crudeltà, non ha potuto impedire ai leader della classe operaia ebraica di organizzarsi nella clandestinità, di entrare in contatto con i lavoratori polacchi organizzati, di contrabbandare e nascondere armi nei bunker del ghetto. 

È merito eterno del Bund socialista ebraico se i suoi leader e altri, tra cui sionisti di sinistra (Linke Poaley Tsiyon di cui era membro Emmanuel Ringelblum, ndr) e sionisti di destra, hanno portato a termine questo compito apparentemente impossibile.

In prima linea tra questi leader c’è una figura ormai leggendaria: Bernard Goldstein, organizzatore della milizia del Bund. Il suo libro Die Sterne sind Zeugen (Le stelle testimoniano) dovrebbe essere letto da chiunque voglia capire come si possano realizzare miracoli organizzativi contro ostacoli giganteschi [5]. In esso si trova il significato profondo della leadership, una leadership di comprensione, di altruismo e di sacrificio totale, di capacità di continuare a vivere e a organizzare la resistenza anche in mezzo a un’esistenza che nessun incubo potrebbe evocare.

Il “compagno Bernard” aveva alle spalle l’esperienza di una generazione di lotta, prima contro lo zarismo, poi contro i proprietari terrieri polacchi. Ha aiutato a organizzare i lavoratori più oppressi in sindacati militanti. Organizzò la prima milizia operaia polacca per difendere i sindacati dagli attacchi e per combattere i pogromisti. 

Non è un caso che sia stato uno dei leader che organizzarono lo sciopero di protesta contro il famigerato processo per omicidio rituale di Menachem Mendel Beylis (l’ebreo ucraino accusato di aver commesso un crimine rituale nel 1911, quando molti intellettuali e attivisti dell’epoca denunciarono la campagna antisemita sviluppata in quell’occasione, da Maxim Gorky ad Alexander Blok a George Bernard Shaw, ndr).

No, non è un caso che un sindacalista socialista, vicino al popolo, totalmente immerso nelle sue tradizioni, abbia guidato la disperata lotta armata degli ebrei contro i nazisti e tenuto in scacco un intero esercito. Quest’uomo era l’unico in grado di assicurarsi l’aiuto volontario dei lavoratori polacchi, l’unico ad avere la loro fiducia. 

Le sue imprese, conosciute non direttamente dal suo libro (è troppo modesto per raccontarle tutte) ma da testimonianze oculari, lo rendono il Chapayev del ghetto. (Vasilij Chapayev era un eroe bolscevico della guerra civile del 1918-1921, ndr).

La storia della rivolta del ghetto di Varsavia è storica. L’umanità è in qualche modo sopravvissuta, non solo nel senso dell’esistenza, ma in tutto il suo significato culturale, in tutta la sua umanità. Come si può pensare all’umorismo sotto lo sguardo sadico dei cacciatori tedeschi nella giungla del ghetto? Eppure c’è la storia del borseggiatore ebreo che, per divertire gli abitanti di questo recinto murato – che tremano tutti per la loro vita – dimostra la sua abilità agli altri. E Varsavia, si potrebbe aggiungere, era famosa per questa abilità!

Hanna Krishtal è sopravvissuta con la sua bambina e si trova a New York oggi [nel 1949] solo perché Bernard Goldstein si è preso cura di lei nel bel mezzo dei combattimenti mentre era in travaglio. In qualche modo ha trovato il tempo di occuparsi di lei. Solo più tardi confidò ad Hanna di essere interiormente combattuto dalla sua decisione di sbarazzarsi della bambina, in modo che Hanna stessa potesse fuggire viva dal ghetto!

Bernard Goldstein è ancora vivo (è fuggito negli Stati Uniti e ha vissuto fino al 1959, ndr), ma non ha una vita. La vita che conosceva in Polonia e a Varsavia è scomparsa per sempre. Questa vita sopravvive solo negli archivi di Y.L. Peretz [1852-1915], di Sholom Aleichem [1859-1916] – (che ha creato il substrato della moderna letteratura yiddish, ndr) e nella storia della rivolta del ghetto.

Il tocco finale di ironia è l’arresto di Bernard da parte dell’NKVD, il braccio armato dei “liberatori” russi. Lo rilasciano ma lo tengono sotto osservazione nella speranza che tradisca la sua organizzazione. Gli stalinisti non temono nulla quanto i rivoluzionari onesti ed esperti, soprattutto quelli con una grande esperienza di organizzazione nella clandestinità come il compagno Bernard. Egli è dovuto fuggire da questi nuovi oppressori, non tanto per salvarsi la vita, quanto per evitare di tradire coloro che avrebbero potuto entrare in contatto con lui.

Un simbolo

Varsavia è un simbolo profondo del nostro tempo. Schiacciata da un lato dalle forze della reazione capitalista sotto forma di nazismo e dall’altro dalla controrivoluzione russa sotto forma di stalinismo, questa città tradita è il riflesso della civiltà moderna in decadenza. In questo senso, è un punto di osservazione delle possibilità di sopravvivenza dell’umanità civilizzata.

L’indifferenza del mondo per il destino degli ebrei durante e dopo la guerra è un cattivo presagio per la società. Il crollo totale di ogni decenza umana nel ghetto non è un fenomeno passeggero. È piuttosto un segno della terribile velocità con cui la decadenza può diffondersi e la barbarie può sostituire la civiltà moderna. Varsavia è allo stesso tempo un’ulteriore ed eclatante prova che lo stalinismo, lungi dall’arrestare la decadenza sociale, è esso stesso l’incarnazione di tale decadenza.

È impossibile studiare il terribile destino del ghetto di Varsavia e del resto della città senza stringere i pugni e provare un’ondata di rabbia e di odio contro le forze che danno vita a un simile orrore. Varsavia è una lezione brutale sulla disumanità che si nutre malignamente di antisemitismo e di dottrine razziali.

Questa lezione deve essere profondamente radicata nella coscienza di tutti i combattenti della classe operaia contro lo sfruttamento e l’oppressione. La società è destinata ad affondare se non viene completamente ripulita dalla malattia che ha reso e continua a rendere possibile un sadismo così brutale.

Questa malattia ha le sue radici nello sfruttamento di classe. Qualsiasi classe dirigente è disposta a sacrificare milioni di membri per mantenere i propri poteri e privilegi. Perché allora non le persone di altre “razze” contro le quali è molto più facile accendere il fuoco del pregiudizio?

Varsavia è una macchia sulla civiltà. Non deve mai essere dimenticata. Può e deve essere vendicata! Il ripetersi di una simile brutalità può essere evitato solo da un profondo cambiamento della società, dal passaggio dal capitalismo, che genera odio, al socialismo, che genera fratellanza e umanità, nonostante l’esperienza russa della controrivoluzione.

Note della redazione di alencontre.org

Sulla storia del Bund si veda il libro di Henri Minczeles, Histoire générale du Bund: un mouvement révolutionnaire juif, Ed. L’Echappée, 16 settembre 2022. Si veda anche dello stesso autore Une histoire des Juifs de Pologne. Religion, culture, politique, La Découverte, 2006. 

Quanto a Artur Ziegelboim, Nathan Weinstock, in Le pain de misère. Histoire du mouvement ouvrier juif en Europe, Volume III. L’Europe centrale et occidentale 1914-1945 (Ed. La Découverte, 1986) scrive: “Come altrove, i nazisti installarono [nel ghetto di Varsavia] uno Judenrat destinato a sostenere la loro politica. Ma il delegato del Bund che fu nominato, [Schmuel Artur] Ziegelboym [che era un dirigente sindacale del Bund], si rifiutò di essere complice dei nuovi padroni: usò la sua posizione per arringare la folla di 10.000 persone riunite intorno all’edificio dello Judenrat a Varsavia e per esortarle a rifiutare gli ordini nazisti, in particolare quello di raggrupparsi nel ghetto (Jüdisches Wohnbezirk). In collaborazione con la resistenza polacca, la leadership del Bund riuscì a organizzare la sua fuga in Occidente perché la Gestapo lo stava cercando. Ziegelboym divenne così il rappresentante del Bund nel Parlamento polacco in esilio a Londra”

Nathan Weinstock cita anche la lettera di Artur Ziegelboim: “Non posso rimanere in silenzio. Non posso continuare a vivere mentre gli ultimi resti del popolo ebraico polacco, al quale anch’io ho l’onore di appartenere, vengono sterminati. I miei compagni nel ghetto di Varsavia sono caduti in una lotta eroica. Non mi è stato dato di morire come loro, o in mezzo a loro. Ma appartengo a loro e alla loro tomba comune. Da parte mia, vorrei, per l’ultima volta, protestare contro la passività di un mondo che assiste e accetta lo sterminio del popolo ebraico. Sento il valore infinitesimale di una vita umana in questi tempi, ma non avendo potuto realizzare nulla in vita, potrei usare la mia morte per contribuire a rompere l’indifferenza di coloro la cui ultima possibilità potrebbe essere quella di salvare gli ultimi ebrei polacchi sopravvissuti. La mia vita appartiene al popolo ebraico polacco ed è per questo che la sto sacrificando a loro. Spero che la manciata di ebrei rimasti dei pochi milioni che vivevano in Polonia prima della guerra vivranno per vedere la liberazione di un nuovo mondo dove regneranno la libertà e la giustizia del vero socialismo. Credo che una tale Polonia sorgerà e che un tale mondo nascerà”

Sul tradimento stalinano si veda il notevole libro di Norman Davies: Rising ’44: The Battle for Warsaw, Ed. Vicking, 2003.

Di Bernard Goldstein è stato ripubblicato L’ultime combat. Nos années au ghetto de Varsovie (1947), Paris, La Découverte-Zones, 2008

Sul lavoro invisibile delle comunità di migranti ucraini


di Daria Krivonos, da lefteast.org

Daria Krivonos è sociologa e ricercatrice post-dottorato presso l’Università di Helsinki. La sua ricerca esplora la migrazione all’intersezione tra razzializzazione, lavoro, classe e genere. Il suo attuale progetto di ricerca esamina il lavoro dei giovani migranti ucraini e la precarietà nel contesto dell’economia dei servizi polacca. Twitta come @KrivonosDaria

Una delle principali stazioni ferroviarie di Varsavia, che funge da punto di informazione per gli ucraini in fuga dall’invasione russa, era piena di gente. Era l’inizio di maggio e la folla si era ridotta perché il numero di coloro che attraversavano il confine tra Polonia e Ucraina era diminuito. Tuttavia, c’era un estremo bisogno di volontari che parlassero ucraino e russo, pronti a fornire assistenza. I volontari sono rimasti alla stazione 24 ore su 24, fornendo informazioni su documenti, cibo, alloggi e trasporti. 

Ciò che spesso non viene detto in queste descrizioni ampiamente diffuse del sostegno ai rifugiati di guerra[*] dall’Ucraina nel contesto dell’invasione russa è che la stragrande maggioranza di questi volontari – almeno nel caso dei principali punti di Varsavia – erano ucraini, molti dei quali erano fuggiti dalla guerra. Poiché la recente discussione sull’arrivo dei rifugiati ucraini è incentrata sulla rapida mobilitazione della solidarietà nelle comunità locali delle “società ospitanti”, è importante chiedersi chi sia riconosciuto come parte di queste “comunità locali”. Sebbene la risposta immediata e il sostegno della maggioranza polacca debbano essere applauditi, in questa sede vorrei chiedere chi sosterrà i costi della riproduzione sociale nella migrazione dei rifugiati ucraini in una prospettiva a lungo termine, una volta che le “società ospitanti” saranno affaticate dalla guerra e i sentimenti umanitari svaniranno. Abbiamo già osservato come le “comunità locali” siano meno disposte a ospitare gli sfollati e gli Stati (quello polacco, per esempio) ritirino gli aiuti a chi accoglie i rifugiati nelle proprie case. Poiché fin dall’inizio questa solidarietà si è basata in gran parte sulla costruzione instabile della “europeità” e della “bianchezza”, ci si può porre una domanda, formulata in modo appropriato da uno dei miei interlocutori di ricerca ucraini: “Quanto durerà questa solidarietà? Quando inizieranno a trattarci (gli ucraini) come i rifugiati siriani?”. Con una protezione temporanea che non dà accesso a diritti più ampi in materia di protezione dei rifugiati e di welfare, insieme a una stanchezza delle “società ospitanti”, la domanda da porsi è chi ricostruirà le vite degli ucraini in fuga dalla guerra, visto che è improbabile che la guerra finisca presto.

Per rispondere a queste domande sarebbe necessario riconoscere oltre un milione di cittadini ucraini che vivevano già in Polonia quando è iniziata la guerra e che ora sosterranno i costi della riproduzione sociale ospitando i loro familiari, parenti e amici in piccoli appartamenti in mezzo all’aumento vertiginoso del costo della vita. Come molti altri, Andrii, fresco di laurea in un’università polacca e impiegato in un magazzino di un supermercato, mi ha raccontato di aver ospitato sua nonna e suo fratello minore in un piccolo monolocale per un periodo di tempo indefinito. Nel proseguire le conversazioni sull’accoglienza dei rifugiati ucraini in Europa, è essenziale astenersi dal ricollocare una figura europea bianca “al fianco dell’Ucraina” – con tutte le sue risorse distribuite in modo ineguale per la solidarietà razziale – e tenere presente il lavoro dei migranti ucraini che da tempo alimenta le economie dell’UE. Questo lavoro svolto da corpi apparentemente bianchi e in gran parte invisibilizzati è stato a lungo necessario nella UE come l’aria. Pur rimanendo ampiamente trascurati dagli studiosi di migrazione a livello internazionale, i cittadini ucraini sono stati tra i primi destinatari dei permessi di soggiorno per motivi di lavoro che alimentano le economie della UE, mentre la Polonia è diventata il primo destinatario della migrazione per motivi di lavoro nella UE dal 2014. Ogni anno sono stati rilasciati oltre 500.000 primi permessi di soggiorno a cittadini ucraini, quasi esclusivamente dallo Stato confinante, la Polonia. È solo con l’interruzione della “normalità” durante la pandemia COVID-19 che la dipendenza dell’Europa da questa manodopera migrante è diventata pubblicamente visibile, poiché questi lavoratori non hanno potuto raggiungere i loro posti di lavoro, per essere nuovamente dimenticati quando l’emergenza è “finita”. L’onere dell’assistenza nel contesto dello sfollamento ricade anche sulle comunità di migranti ucraini e su persone come Andrii, troppo spesso impiegate in un’economia precaria e poco retribuita.

L’invisibilità del lavoro migrante ucraino continua a riprodursi nell’attuale spettacolo dell’accoglienza nell’UE. Anche se spesso il tono autocelebrativo della UE di “stare dalla parte dell’Ucraina” passa in secondo piano, molti ucraini hanno lavorato nelle principali stazioni di Varsavia per giorni interi, fornendo informazioni, spostando i bagagli, trovando itinerari di viaggio verso altri Paesi, aiutando con i documenti, i biglietti del treno e dell’autobus, traducendo e compilando le domande di visto. Alcuni di loro erano studenti-lavoratori ucraini, che avevano già vissuto in Polonia prima dell’invasione su larga scala e i cui contratti di alloggio e visti per studenti stavano per scadere. Una di queste studentesse, Anna, ha preso in considerazione l’idea di tornare in Ucraina per l’estate, poiché trovare e pagare un alloggio a Varsavia è diventato ancora più difficile. Non era facile nemmeno prima della guerra per coloro che avevano “accento ucraino”, nomi e cognomi, quando si rispondeva alle offerte di alloggio “per soli polacchi”. A differenza di altri cittadini ucraini che hanno attraversato il confine della UE dopo il 24 febbraio, le persone come Anna non hanno diritto alla protezione temporanea e ad altri benefici (ad esempio, trasporti pubblici e ferroviari gratuiti). Prima che i benefici venissero rimossi, all’ingresso delle mense gratuite e delle biglietterie veniva controllato il timbro sul passaporto ucraino che attestava l’attraversamento del confine dopo l’inizio della guerra, dividendo la linea di demarcazione tra gli ucraini meritevoli di maggiore sostegno e quelli che si aspettavano di essere sistemati.

Le teoriche femministe della riproduzione sociale sostengono da tempo come il lavoro invisibile per sostenere la vita quotidiana sia stato esternalizzato alle comunità operaie razzializzate. Questa concezione mette in discussione la nozione di lavoro come sinonimo di retribuzione e occupazione, spostando l’attenzione su forme di lavoro non retribuite e non riconosciute. Come in altri casi, con il lavoro dei volontari che viene riformulato come non-lavoro, la storia di queste forme di lavoro riproduttivo è la storia dell’abbandono e del non riconoscimento. Il lavoro dei volontari è stato recentemente teorizzato e problematizzato come “non lavoro”, come atti d’amore e di servizio, opportunità di formazione ed esperienza. Vorrei anche suggerire che queste forme di non lavoro hanno un riconoscimento e un valore di scambio diversi a seconda del corpo lavorativo che svolge questo “non lavoro”. Il volontariato e la solidarietà ottengono un riconoscimento pubblico e un valore diverso a seconda dei meccanismi socioculturali legati alla razza, al genere, alla nazionalità e alla cittadinanza. Alcuni volontari della stazione di Varsavia, che provenivano dal Nord America, hanno parlato del volontariato come di un “aiuto” spinto dall’incapacità di rimanere fermi di fronte a un disastro; ma molti avevano anche capitali economici e di tempo che potevano impiegare per trascorrere diverse settimane alla stazione, considerando che per loro il costo della vita a Varsavia era più che accessibile. Alcuni lavoravano per ONG occidentali, il cui funzionamento è stato possibile solo grazie all'”aiuto” di traduttori ucraini, il cui lavoro era prevalentemente non retribuito ma disponibile “naturalmente”. Alcuni volontari provenienti dall’estero erano studenti di studi sull’Europa orientale, di lingua russa e ucraina, che stavano acquisendo un’importante esperienza e pratica linguistica per il futuro. 

Nel frattempo, una giovane ucraina che faceva volontariato alla stazione ha detto: “È un peccato che non avrò nemmeno un certificato o un’altra prova del fatto che ho fatto volontariato qui”. Lo ha detto mentre preparava il suo curriculum per una serie di domande di lavoro. Oltre alla fatica emotiva e alle competenze nella ricerca di informazioni, il sostegno a lungo termine della vita quotidiana attraverso la fornitura di informazioni si basa ampiamente sulle competenze linguistiche, troppo spesso ignorate come “naturali” per il semplice fatto di “venire dall’Ucraina”. L’esperienza di volontariato degli ucraini come “non-lavoro” ha poco valore di scambio ed è piuttosto vista come naturalmente disponibile semplicemente in virtù del fatto di “essere ucraini” e di avere una competenza linguistica naturale. Questo lavoro è reso invisibile perché è svolto da una “rifugiata ucraina” stessa. Mentre stavo al banco informazioni e le nostre conversazioni venivano interrotte da persone che facevano domande su alloggi, visti e trasporti, ho trascorso molte ore a parlare con i giovani volontari ucraini delle loro strategie per trovare un lavoro retribuito che permettesse loro di guadagnarsi da vivere nella UE. Molti non immaginavano una permanenza a lungo termine in Polonia a causa delle deprimenti opportunità del mercato del lavoro per chi si era appena trasferito, mentre la migrazione in altri Paesi era spesso vista come un’opzione solo da chi aveva parenti e amici che già vivevano lì. 

A differenza di altri volontari, molte di queste persone – per lo più giovani e soprattutto donne – non avevano un posto dove tornare, e il loro lavoro non è applaudito come una risposta della “comunità locale”, né ha un valore di scambio come nel caso di altri volontari non ucraini. Il lavoro degli ucraini – sia pagato che non pagato – rischia di essere trascurato ancora una volta nelle narrazioni autocelebrative dell’Europa, che inquadrano gli ucraini solo come destinatari degli aiuti, come è accaduto in altri contesti di sfollamento. 

*Anche se qui uso il termine “rifugiati”, è importante ricordare che a queste persone non è stato riconosciuto lo status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951.