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Ucraina, 24 febbraio, un anno di guerra

Il 24 Febbraio sarà passato esattamente un anno dall’inizio della criminale invasione russa dell’Ucraina. Una guerra spaventosa, sia per la ferocia sul campo da parte dell’invasore che per le ripercussioni globali e le conseguenti inquietanti possibilità di estensione del conflitto.


Le morti sono già alcune centinaia di migliaia, i rifugiati sono oltre 10 milioni, in un conflitto che vede bruciare proiettili e bombe ad un ritmo che non si vedeva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Il popolo ucraino da un anno resiste riuscendo a fare saltare i piani di conquista di Putin, ma lo stallo sul campo e l’inasprimento della contrapposizione tra blocchi pone sempre più il problema del rischio di escalation globale e il potenziale uso di bombe nucleari da parte della Russia.


In questo scenario complesso ed estremo che non vede facili formule risolutive all’orizzonte, si è purtroppo vista l’assenza di un internazionalismo di sinistra anticapitalista a sostegno dellɜ oppressɜ dell’est Europa risucchiatɜ nel gorgo della guerra e del dispotismo. Le voci della sinistra dell’Est sono spesso ignorate, con conseguente sottovalutazione dell’imperialismo russo, e la narrazione è spesso tutta schiacciata sulla geopolitica, facendo scomparire i popoli, le classi sociali, l’oppressione eteropatriarcale, il dominio coloniale.

Abbiamo perciò deciso di dare voce a chi è direttamente coinvolt@ da questa terribile situazione, per parlare di cosa sta succedendo in Ucraina e in Russia, dell’opposizione di sinistra in questi paesi, della resistenza e della lotta dal basso dellɜ oppressɜ, della solidarietà internazionalista e delle prospettive future.

Domenica 26 Febbraio h17, presso la Libreria Alegre, circonvallazione Casilina 72, intervengono:

  • Oleksandr Pechenkin (Соціальний рух), militante della sinistra radicale ucraina
  • Alexander Bikbov (Centre d’études des Mondes Russe, Caucasien & Centre-Européen) sociologo russo

Ucraina, quale pace?

di Yorgos Mitralias


Chi poteva prevedere, il 24 o 25 febbraio 2022, che un anno dopo gli ucraini sarebbero stati sottoposti a una valanga di proposte di pace e di cessate il fuoco da parte dei loro nemici ma anche dei loro amici? La risposta non è difficile: praticamente nessuno, perché tutti, nemici ma anche amici, non credevano che un anno dopo ci sarebbe stato ancora un paese indipendente chiamato Ucraina in grado di negoziare seriamente qualcosa con l’onnipotente Federazione Russa. Insomma, se oggi si parla di pace, lo si deve alla resistenza eroica e del tutto “imprevista” del popolo ucraino all’aggressione dell’imperialismo della Grande Russia, che ha sconfitto i piani iniziali di entrambe le parti.

Detto questo, queste proposte di pace sono problematiche. Provenendo dai nemici dell’Ucraina, equivalgono a un chiaro ultimatum: incontrarsi ora per la pace oggi! O questa variante: incontrarsi per fermare l’inutile massacro di ucraini… di cui gli ucraini sarebbero gli unici responsabili. Pronunciato quasi giorno dopo giorno da eminenze del Cremlino come Medvedev, Soloviev o lo stesso Putin, questo ultimatum non fa che illustrare il cinismo e l’arroganza di questi sinistri personaggi. Ma ripetuto da persone che si definiscono di sinistra, non fa che scandalizzare qualsiasi persona normale: com’è possibile che una proposta di pace richieda che una delle due parti coinvolte accetti volontariamente la sua scomparsa? E, inoltre, come è possibile che una proposta di pace richieda che una delle due parti non si armi adeguatamente per affrontare la “seconda potenza militare” del mondo?

Ma l’ipocrisia di questi cosiddetti “pacifisti” appare in tutto il suo macabro splendore quando questi “sinistri” si dispiacciono per il tragico destino degli unici ucraini presumibilmente “inutilmente sacrificati” dai loro leader, e non dicono nulla sul massacro dei giovani russi che servono come carne da cannone per il padrone del Cremlino. Se volessero davvero la pace, potrebbero benissimo iniziare a chiedere a Putin di smettere di sacrificare i suoi compatrioti in una guerra imperialista e non agli ucraini che stanno solo difendendo il loro diritto più elementare: il diritto di esistere…

Se queste “proposte di pace” dei nemici degli ucraini sono pura propaganda per sciocchi, lo stesso non si può dire delle proposte di pace degli amici (o sedicenti tali) occidentali degli ucraini. Predicando – in un modo o nell’altro – la necessità di “non umiliare Putin”, la maggior parte di queste proposte di pace sono condizionate dalla necessità delle grandi potenze occidentali di non tagliare i legami con la Russia, il suo mercato e le sue materie prime. Ecco perché gli aiuti militari offerti dai paesi occidentali all’Ucraina ricordano impercettibilmente quelli offerti dai paesi del “socialismo reale” al Vietnam che combatteva contro l’aggressione americana: abbastanza per non essere sconfitti, ma non abbastanza per vincere…

Naturalmente, la resistenza (inaspettata) del popolo ucraino in armi ha una grande influenza sulla politica degli occidentali sull’Ucraina, costringendola a moderare o addirittura a “dimenticare” per un po’ la pressione su Kiev. Tuttavia, questa pressione riemerge periodicamente, soprattutto quando gli ucraini incontrano difficoltà con l’esercito russo. In questo caso assumono la forma di proposte (o piani) di pace che consigliano agli ucraini di “moderare” le loro ambizioni (ad esempio, cedendo la Crimea alla Russia) per non creare troppe difficoltà a Putin e al suo potere all’interno della Russia.

Lo scopo di tali proposte di pace è ovvio: ammorbidire Putin per renderlo più “ragionevole”! Purtroppo, questa tattica ha almeno due grandi punti deboli, che la rendono in definitiva inefficace. In primo luogo, non tiene conto delle popolazioni interessate (ad esempio i tatari di Crimea) e non se ne cura, con la logica conseguenza di incontrare il loro rifiuto e la loro resistenza. E in secondo luogo, che ignora i disastri a cui tali “politiche di appeasement” hanno portato nel XX secolo a tiranni come Hitler o addirittura allo stesso Putin in un passato molto più recente!

Sterili per queste ragioni, questi “piani di pace” sono anche e soprattutto immorali perché paternalistici e intrisi dell’arroganza della grande potenza. Volendo decidere il destino del popolo ucraino al posto suo, non fanno altro che confermare che, al di là degli accordi e delle alleanze temporanee, il popolo ucraino può contare solo sulle proprie forze. Esattamente come hanno fatto dall’inizio di questa guerra. E naturalmente sull’attiva solidarietà internazionalista degli oppressi e di “coloro che stanno in basso” in Russia e Bielorussia, in Europa e nel mondo intero…

Pacifismo 2003-2023: dov’è finita la “seconda potenza mondiale”?

Vent’anni fa milioni di persone in tutto il mondo scrissero una pagina della storia del pacifismo mondiale, scendendo in piazza contro la guerra globale di Bush. Che cosa ne rimane, vent’anni dopo?

di Fabrizio Burattini, da Micromega 

Giusto vent’anni fa, il 15 febbraio 2003, si svolse in tutto il mondo, in quasi mille città, la prima (e per ora unica) manifestazione “mondiale” della storia dei movimenti, del pacifismo e, per certi versi, della storia dell’umanità. Oltre 100 milioni di persone sfilarono in tutte le piazze del mondo per dire “No alla guerra senza se e senza ma”, per manifestare la loro opposizione intransigente nei confronti della “guerra globale permanente” iniziata dall’allora presidente statunitense George W. Bush nel 1990, con le operazioni Desert Storm e Desert Shield (a cui parteciparono anche militari italiani), e poi proseguita alla fine del 2001 con l’invasione dell’Afghanistan.


Esattamente vent’anni fa, il 15 febbraio 2003, si svolse in tutto il mondo, in quasi mille città, la prima (e per ora unica) manifestazione “mondiale” della storia dei movimenti e, per certi versi, della storia dell’umanità. Oltre 100 milioni di persone sfilarono in tutte le piazze del mondo per dire “No alla guerra senza se e senza ma”, per manifestare la loro opposizione intransigente nei confronti della “guerra globale permanente” iniziata dall’allora presidente statunitense George W. Bush nel 1990, con le operazioni Desert Storm e Desert Shield (a cui parteciparono anche militari italiani), e poi proseguita alla fine del 2001 con l’invasione dell’Afghanistan.

In quella fine di inverno (febbraio 2003), l’amministrazione americana con i suoi alleati stavano preparando la seconda guerra del golfo (che poi effettivamente scoppiò a fine marzo con l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione di “volenterosi” a guida statunitense). Per giustificare quelle guerre vennero utilizzati tutti gli argomenti: liberare il Kuwait, illecitamente invaso dall’Iraq, difendere l’Arabia saudita dalla minaccia irakena, cercare e annientare i responsabili e i mandanti dell’eccidio delle Torri gemelle, combattere il terrorismo, portare la democrazia in Afghanistan, abbattere il regime di Saddam Hussein prima che lui potesse usare le “armi di distruzione di massa” che lo si accusava di detenere, ecc.

Ma nessuno di quei pretesti e di quelle che oggi definiremmo fake news fu in grado di disinnescare il movimento antiguerra. Peraltro, le guerre nei Balcani (nelle quali l’Italia si era impegnata a fondo tradendo in maniera esplicita quanto stabilito dall’articolo 11 della Costituzione) avevano già ampiamente chiarito che la fine della Guerra fredda (1989) non avrebbe affatto aperto la porta verso la “pace universale”.

Così, l’indicazione di massima che l’anno prima in Brasile, a Porto Alegre, aveva adottato il Forum Sociale Mondiale si trasformò in un’iniziativa concreta, e, dunque, nella decisione di organizzare manifestazioni pacifiste contemporanee e sincronizzate in tutto il pianeta. A Roma, in particolare, si svolse la manifestazione nazionale italiana nella quale vennero contati 3 milioni di partecipanti. Il percorso concordato non riuscì a contenere tutti i partecipanti che dovettero invadere tutte le vie della capitale, che restò totalmente bloccata e con milioni di persone che non riuscirono neanche a muoversi dalle piazze di partenza. A Roma arrivarono 27 treni speciali colmi di manifestanti, e migliaia di pullman. Milioni di finestre e di balconi furono addobbati per mesi e mesi con le bandiere arcobaleno.

I “Democratici di Sinistra” e il loro leader Massimo D’Alema, nonostante avessero avuto un ruolo centrale nella partecipazione italiana alle guerre nei Balcani, vista la straordinaria pressione dal basso, decisero di partecipare a quell’enorme evento, che, al contrario, la destra al governo (allora guidata da Berlusconi e Fini) definì “frutto di antiamericanismo ideologico, di pacifismo totalitario, di ignavia di fronte al terrorismo”.

Quella giornata fu così straordinaria da indurre l’editorialista del News York Times Patrick Tyler a scrivere: “Le enormi manifestazioni contro la guerra in tutto il mondo ci ricordano che potrebbero esserci ancora due superpotenze sul pianeta: gli Stati Uniti e l’opinione pubblica mondiale”.

Oggi, ad un anno dall’aggressione e dall’invasione russa dell’Ucraina, ci troviamo ancora una volta di fronte ad una guerra, con le sue atrocità, le sue sofferenze, con le argomentazioni e le fake news (la negazione di una specificità nazionale dell’Ucraina, la difesa dell’autodeterminazione del Donbass, la denazificazione del paese, ecc.), che chi le ha dato inizio accampa. Ci troviamo di fronte alla obiettiva necessità di una risposta dell’opinione pubblica mondiale all’altezza, una risposta che tenti di essere all’altezza di quella che scese in campo venti anni fa…

Ma, occorre riconoscerlo con amarezza ma anche con obiettività, non nulla di tutto ciò si è palesato né, dopo 12 mesi di guerra guerreggiata, sembra profilarsi. Eppure, in Russia, migliaia di giovani, soprattutto di donne hanno sfidato la repressione del regime putiniano per denunciare che quella che l’autocrate del Cremlino si ostina spudoratamente a definire “operazione militare speciale” è in realtà una guerra, una guerra che ha provocato decine di migliaia di morti tra i militari e tra i civili: non ci cimentiamo nella inevitabile guerra di cifre tra le parti, ma tutti, al di là delle cifre sulle vittime, possono constatare l’immensa tragedia in corso. Senza dimenticare il dramma umanitario degli 8 milioni di ucraine e di ucraini che sono scappati dal paese e dei 6 milioni di sfollati interni.

In Italia abbiamo avuto alcune importanti manifestazioni nei primi giorni di guerra, ricordiamo quella del 5 marzo a Roma, una decina di giorni dopo lo scoppio della guerra. E poi quella del 5 novembre scorso quando circa 100.000 persone sfilarono ancora una volta nella capitale. Ma nessuna di quelle iniziative è stata minimamente comparabile a quelle di venti anni fa. Nessuna di esse è stata in grado di mettere in moto un “popolo della pace”, ma neanche di avviarne una ricostruzione. Peraltro, già altre guerre, più recenti di quelle di venti anni fa, ad esempio l’invasione della Libia, la guerra in Siria, il bombardamento dello Yemen, per non parlare della guerra permanente di Israele contro i palestinesi, non sono state accompagnate da alcuna mobilitazione pacifista. Quasi si sia creata anche tra gli attivisti più impegnati una sorta di assuefazione alle bombe e alle loro conseguenze.

E la guerra, da un anno a questa parte, è ancora più vicina, è in Europa e più che mai fa incombere sul pianeta la minaccia di un’escalation generale e nucleare. Dunque, perché quel movimento non c’è e non occupa come sarebbe necessario la scena politica? Naturalmente, come tutto nel nostro Paese, anche il movimento pacifista sconta la crisi della partecipazione politica. E questo non è un fenomeno solo degli ultimissimi tempi.Il movimento  di venti anni fa si collocava in un contesto profondamente segnato dalla crescita del “movimento altermondialista”, il movimento “no-global” che aveva gremito le strade di tante città, da Seattle (novembre 1999) a Genova (luglio 2021), con centinaia di migliaia di giovani che si attivizzavano contro quelle politiche neoliberali che toglievano potere alle persone e alle comunità, che aumentavano le disuguaglianze economiche e sociali, che danneggiavano l’ambiente e accrescevano il divario tra il Nord e il Sud del mondo.

E nello specifico dell’Italia, la mobilitazione pacifista si intrecciava anche con la lotta sindacale condotta dalla Cgil di Sergio Cofferati contro le politiche del secondo governo Berlusconi, lotta che aveva portato anch’essa, giusto nel marzo 2022, milioni di persone in piazza in difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Oggi il contesto è totalmente opposto. L’articolo 18, con le sue garanzie contro i licenziamenti arbitrari non esiste più, e non per responsabilità della destra politica, ma grazie ad una legge (il Jobs Act) voluta e votata dal centrosinistra; i sindacati confederali italiani sembrano paralizzati e rassegnati alle peggiori conseguenze delle politiche neoliberali: il paragone con quel che sta accadendo in questi giorni in Francia contro la riforma previdenziale voluta dal governo Macron è stridente.

Esiste una significativa mobilitazione giovanile di massa contro la devastazione ambientale, raccolta soprattutto attorno a Friday For Future, ma sembra sedimentare poca partecipazione politica e poca attenzione alle tematiche non strettamente connesse con il cambiamento climatico.

All’inizio del 21° secolo, a livello politico esisteva un partito, Rifondazione comunista, che, tra luci ed ombre, offriva una sponda politica al movimento altermondialista e alle mobilitazioni pacifiste. Oggi la rottura tra quel che resta dei movimenti e in particolare le giovani generazioni da un lato e la politica dei partiti dall’altro sembra totalmente consumata. Basta guardare le sconfortanti percentuali di partecipazione alle recentissime elezioni regionali (soprattutto proprio tra i giovani). E poi, occorre riconoscerlo, nella sinistra politica e, dunque, anche tra gli attivisti che potrebbero lavorare per ricostruire un movimento pacifista esiste largamente una lettura falsa o  di quel che è accaduto nel mondo in questi anni e di quel che accade in Ucraina. La fine della guerra fredda è stata letta anche da politologi assai autorevoli a sinistra (ad esempio Toni Negri) alla fine del Novecento come l’inizio dell’era dell’ “impero” (quello statunitense, ovviamente) a cui la fine del mondo “bipolare” spianava la strada. In realtà, la storia successiva ha chiarito come non ci fosse nessun “impero” unico, come la stessa potenza americana uscisse azzoppata dalle numerose sconfitte che aveva accumulato dopo il disastro della sua aggressione al Vietnam, indebolita da una crisi economica che si avvita tra recessioni e “ripresine”, insidiata dall’emergere di nuove potenze economiche e politiche. Una situazione nella quale l’equilibrio bipolare che aveva governato il pianeta per oltre 40 anni (dal 1945 al 1989) veniva sostituito dal caos geopolitico. La sinistra, soprattutto in Italia, è rimasta abbarbicata ad una lettura per la quale tutto quel che avviene nel mondo è in conseguenza dell’iniziativa statunitense. E, dunque, che tutto quel che sembra contrapporsi all’iniziativa statunitense è positivo, proprio perché contrasta o sembra contrastare l’impero. Così, ad esempio, la Cina, con la sua crescita economica che sfida l’economia occidentale, nonostante si basi sul supersfruttamento e sull’oppressione di centinaia di milioni di operai e contadini cinesi, diventa un fattore positivo del “mondo multipolare”. E le ribellioni antiautoritarie, come ad esempio, l’insurrezione dei siriani contro Assad (e in generale le “primavere arabe”) vengono bollate di “filoccidentalismo” e, dunque, i sanguinari bombardamenti russi su Aleppo e su tante altre città siriane in rivolta vengono ritenuti necessari e “salutari”. Fino a guardare con sospetto le lotte delle donne e dei giovani iraniani contro la teocrazia degli ayatollah.

E il bellicismo sciovinista grande russo di Putin è stato più o meno esplicitamente considerato da buona parte della sinistra italiana come un bastone tra le ruote nell’egemonia statunitense: un’inversione della realtà, visto che proprio l’iniziativa dell’autocrate moscovita ha offerto un formidabile assist a Washington per rilanciare la sua centralità e rivivificare il ruolo della NATO.

Con questa visione falsata del mondo, di un mondo che ormai sfugge totalmente ai vecchi schemi interpretativi, la sinistra si trova spiazzata. E non ha fatto nulla per interloquire e intercettare il moto di indignazione che ha scosso l’opinione pubblica di fronte alle notizie e alle immagini delle atrocità dell’invasione russa in Ucraina e ha lasciato che quella indignazione venisse largamente incanalata dalla propaganda atlantista.

E questo non ha solo contribuito ad impedire la creazione di un movimento contro la guerra in Ucraina ma costituisce anche uno degli aspetti della generalizzata incapacità della sinistra radicale italiana di stabilire una “connessione sentimentale” con porzioni significative dell’opinione pubblica. E possiamo constatarlo elezione dopo elezione… Tanto da trovarsi in un’imbarazzante e frequente sintonia con alcuni espliciti avversari dell’indipendenza ucraina ed estimatori di Putin, come Berlusconi.

Ucraina, che cosa fa e pensa la sinistra di quel paese?

di Jan Ole Arps, versione ridotta di un reportage redatto al ritorno da un soggiorno a Kiev e pubblicato su analyse & kritik Zeitung für linke Debatte & Praxis 


Sulla questione se si debba andare al rifugio in caso di allerta aerea, le opinioni divergono. “Se posso, vado sempre”, dice Brie, un’attivista di sinistra che lavora alla ricostruzione nelle regioni liberate dell’Ucraina. “Non sono mai stato in un rifugio”, annuncia con orgoglio Aleksandr Skyba. “Bisogna essere davvero sfortunati per essere colpiti – e poi, cos’è questa schifezza?”.

Skyba è un macchinista di locomotive e conduce treni merci attraverso il paese; all’inizio della guerra trasportavano generi di soccorso e persone in fuga, ora sono materiali da costruzione o attrezzature militari. Il fatto che non si preoccupi troppo degli attacchi missilistici gli torna utile nel suo lavoro: i treni circolano, con o senza raid aerei. Per esempio, mercoledì 23 novembre, quando il sistema di allerta inizierà a urlare poco dopo le 13:00.

Quel giorno Skyba ci ha invitato a visitare il deposito ferroviario, compreso il viaggio in treno. Nel deposito a est di Dnipro, a Kiev, ci sono carri merci. È qui che i macchinisti vengono a ritirare i moduli per il trasporto. L’atmosfera è tranquilla. All’inizio della guerra, gli orari di lavoro da 20 a 30 ore non erano rari, ma oggi è diverso. Dopo quasi un anno di guerra, l’economia è al collasso, le ore di lavoro sono state ridotte, molti ferrovieri lavorano solo un terzo delle ore abituali – e quindi sono pagati meno. La maggior parte dei colleghi ha problemi finanziari, riferisce Skyba. Lavorare sulle vecchie locomotive è pericoloso e gli infortuni non sono rari. La locomotiva nella cui cabina si sta effettuando la manutenzione risale agli anni ’70, modello WL80. WL sta per Vladimir Lenin.

Skyba è il rappresentante a Kiev del Sindacato libero dei lavoratori ferroviari dell’Ucraina (VPZU), l’alternativa più radicale al grande FPTU (Federazione dei sindacati dei trasporti dell’Ucraina). Finora sono riusciti a evitare i licenziamenti. Come? “Minacciamo la direzione”, sorride Skyba. Con cosa? “Abbiamo i nostri metodi”. Non vuole dire altro. Poi salta la corrente, la locomotiva si ferma in un piccolo bosco a sud-est di Kiev. I missili hanno interrotto l’elettricità in tutto il paese. A un certo punto, Skyba dice: “Forza, andiamo a piedi”. E cammina in avanti nella neve.

Tutte le centrali elettriche, ad eccezione dei tre reattori nucleari rimasti in Ucraina, sono state colpite dai missili, le sottostazioni elettriche distrutte. Per non sovraccaricare la rete, tutte le famiglie sono prive di elettricità a orari fissi, per diverse ore al giorno. I più ricchi hanno investito in generatori il cui ronzio si sente ovunque. Il centro città offre quindi un’immagine di relativa normalità: i negozi sono illuminati, i cartelloni pubblicitari brillano, bar e ristoranti sono aperti. Più ci si allontana dal centro, più le strade diventano buie.

Fate pagare gli oligarchi!

Inizialmente dichiarati da Mosca come reazione all’esplosione del ponte di Crimea, gli attacchi missilistici sono nel frattempo diventati una tattica di guerra permanente del Cremlino. La distruzione delle forniture energetiche è un atto di terrore contro la popolazione civile e, in quanto attacco mirato contro obiettivi civili, un crimine di guerra. Ma la Russia non ha il monopolio su questo. La Turchia sta attaccando la rete energetica nelle aree curde della Siria settentrionale. L’Arabia Saudita ha distrutto le infrastrutture civili in Yemen nel 2015. La NATO ha utilizzato questo metodo nel 1999 nella guerra contro la Serbia. Un portavoce della NATO ha spiegato che questo dimostra che la NATO può “interrompere i sistemi di rifornimento quando vuole”. La minaccia di un blackout in Ucraina fa riflettere anche chi è abituato da tempo alla situazione. “Non ci si abitua alle sparatorie”, dice Brie, un’attivista del Socialny Rukh (Movimento sociale). “Gli attacchi sono sempre stressanti. Ma non riesco a immaginare come possa essere quando tre milioni di persone non hanno acqua e si trovano in appartamenti gelati”.

Socialny Rukh è una piccola organizzazione di sinistra con sede a Kiev. È stata fondata nel 2015 per costruire una “nuova sinistra” – socialista, democratica, femminista, ecologica. Non è così semplice in questi tempi, dice Vitaliy Dudin, presidente dell’organizzazione: la legge marziale rende più facile per la polizia disperdere le manifestazioni; c’è una sensazione generale che la società debba mostrarsi unita per non compromettere la propria difesa. “Ci vorrà molto tempo prima che si possa tornare alla normale vita politica con manifestazioni e scioperi”. Il Socialny Rukh si accontenta quindi di criticare i piani socio-politici del governo, non la difesa militare che sostiene. L’organizzazione di sinistra sostiene le proteste contro la chiusura delle istituzioni culturali di Kiev, i cui fondi sono stati tagliati, e le azioni delle infermiere dell’Ucraina occidentale, che chiedono stipendi non pagati. Negli ultimi mesi, il governo di Kiev ha decostruito le leggi sul lavoro. I sussidi di disoccupazione sono stati ridotti a 6.700 grivna, pari a circa 180 euro, e la durata dei sussidi è stata limitata a 90 giorni. Lo stato sta finendo i soldi. Le entrate sono crollate, gli aiuti finanziari internazionali sono assorbiti dalle elevate spese per la difesa.

“Il neoliberismo bellicoso del governo non offre prospettive”, afferma Dudin. “Invece di ottenere denaro dagli oligarchi, rafforzare il settore pubblico e sviluppare la nostra industria di armi pubbliche, rende la nostra società più debole e più dipendente dai paesi della NATO. Non credo che le persone che sono fuggite all’estero saranno molto propense a lavorare qui dopo la guerra per salari bassi. Molti cercheranno di rimanere all’estero”.

Gli attivisti di Socialny Rukh sono convinti che nella società ci sia sostegno per le idee di sinistra. Gli ucraini hanno sperimentato che l’unica cosa che funziona bene sono le ferrovie pubbliche, che hanno portato in salvo decine di migliaia di persone. Lo stesso non si può dire dell’economia privata. “In questo momento stiamo vivendo la più grave crisi nella fornitura di energia e di elettricità”, afferma Vitaly Dudin. “Sì, la Russia è responsabile di questo. Ma ci si chiede perché queste aziende siano ancora in mani private. Perché possono ancora trarre profitto dalle nostre forniture?”.

Negli ultimi anni, il governo ha messo al bando molti partiti di sinistra, accusandoli di essere uno strumento di Mosca. Anche se gli attivisti di Socialny Rukh non considerano molti di questi partiti come organizzazioni di sinistra: il segno di uguaglianza sinistra = nostalgico dell’Unione Sovietica = filorusso è un’arma politica che può essere usata contro qualsiasi orientamento progressista. L’ascesa dei sentimenti nazionalisti in Ucraina è accompagnata dal rifiuto di tutto ciò che è considerato russo.

Alla fine di ottobre, Oleksij Danilov, segretario del Consiglio nazionale di difesa dell’Ucraina, ha chiesto di bandire la lingua russa dalla sfera pubblica. Quando Socialny Rukh si è opposto, il gruppo ha subito un attacco massiccio da destra e da sinistra. “Gran parte della nostra società civile sta attualmente assumendo una posizione molto favorevole all’Ucraina”, afferma Sergei Movtschan. “Molti, anche a sinistra, sono d’accordo con la messa al bando della cultura e della lingua russa dalla vita pubblica”. Sergei Movtschan è anarchico e attivo in Solidarity Collectives, una rete di supporto per i combattenti di sinistra dell’esercito ucraino. In passato ha documentato le attività dell’estrema destra. Osserva con preoccupazione l’ascesa del nazionalismo ucraino. “In Ucraina ci sono molte persone che parlano russo e vorrebbero continuare a farlo. E loro?”

Sergei Mowtschan ritiene che l’attrattiva dei partiti filorussi derivi principalmente dal fatto che molte persone volevano vedere protetta la loro cultura quotidiana. “La maggior parte delle persone non ha votato per questi partiti perché erano a favore di Putin, ma perché questi partiti rappresentano questa idea: ‘Noi rappresentiamo i tuoi interessi di russofono’. La gente vuole proteggere la propria lingua, la propria cultura, la propria comprensione della storia, ma non vuole i soldati russi qui”.

La minaccia da destra

Sergei Mowtschan è preoccupato per la direzione che sta prendendo la società ucraina in guerra. Gli attivisti di sinistra in Occidente si sono spesso chiesti se non sia soprattutto la destra a trarre profitto dalla guerra. “Per questo pensiamo che sia così importante che anche le persone di sinistra combattano nell’esercito”, dice Sergei Mowtschan. “Se noi, la sinistra, non siamo parte visibile di questa lotta, non abbiamo futuro”. Mowtschan prevede che dopo la guerra inizierà una competizione tra le forze politiche; chi non potrà presentare dei combattenti non avrà alcuna possibilità.

Chi vincerà questa competizione? “Nessuno può dirlo al momento. Personalmente, penso che se l’Ucraina vincerà la guerra o raggiungerà una buona soluzione negoziale, questo sarà considerato un successo per Zelensky. Anche se il suo astro declinerà rapidamente, almeno offrirà la possibilità di uno sviluppo democratico. Ma se l’Ucraina perde, se l’esito dei negoziati è negativo, il revanscismo aumenterà in modo massiccio, e naturalmente l’estrema destra guiderà questa ondata. So che molti temono che una vittoria ucraina possa fomentare il nazionalismo. Dal mio punto di vista, è il contrario: se l’Ucraina perde, ci sarà un’enorme mobilitazione di destra nelle strade qui, forse un’irruzione della destra in politica”.

Chi la vede diversamente è Yuri Shelyashenko, portavoce del Movimento per la pace ucraino, la dimensione della cui adesione rimane incerta. “Quasi nessuno vuole partecipare alla guerra”, dice Sheliashenko. “Alla gente non piace combattere, uccidere e morire. Anche se attualmente, secondo i sondaggi, l’80% è favorevole alla guerra, pochi sono disposti ad arruolarsi. La maggior parte ignora le lettere di convocazione o trova altre ragioni per non partecipare alla lotta. Se ne parla poco. Nella nostra cultura militarizzata, l’obiezione di coscienza è stigmatizzata”. [Finora comunque si registra solo un caso di obiettore di coscienza incarcerato, ndt]. Yuri Shelyashenko vede l’Ucraina come una preda da contendere agli “atlantisti” e ai rappresentanti di una “Grande Eurasia”.

Questo non convince gli attivisti di Socialny Rukh. Il fatto che molti attivisti di sinistra in Occidente siano scettici sulla lotta contro l’imperialismo russo li delude: “Sarebbe certamente più facile per voi se gli Stati Uniti ci avessero invaso”, dice Vladislav Starodoubtsev, studente di storia e anch’egli membro di Socialny Rukh. “Ma purtroppo non possiamo offrirvi questo”. Non è che ci sia molto entusiasmo nell’andare in guerra da soli. Alcuni membri del gruppo si sono arruolati nell’esercito, la maggior parte no. Il reclutamento forzato non è all’ordine del giorno a Kiev, almeno finora. Tuttavia, Brie spiega che ci sono soldati che vogliono lasciare l’esercito, ma non possono. È un problema di cui sente parlare anche nella sua cerchia. Ma nessuno qui dubita della necessità di opporsi all’esercito russo. In Ucraina ci sono ancora libertà politiche, mentre in Russia vige una dittatura. “Per un serio negoziato di pace”, afferma Vitaly Dudin, “l’esercito ucraino dovrà ottenere ulteriori successi”

(Riduzione dell’articolo a cura di A l’Encontre).

Russia-Ucraina. Come nell'agosto del 1914… la guerra spacca di nuovo la sinistra!

di Yorgos Mitralias


Dal punto di vista della sinistra internazionale, la guerra di Putin contro l’Ucraina è iniziata come la Prima Guerra Mondiale e non è escluso che finisca come quella. In effetti, fin dal loro primo giorno, entrambi hanno provocato la spaccatura e la divisione della sinistra internazionale in due campi sempre più divergenti, opposti e inconciliabili. Già all’inizio della guerra scrivevo che “è sempre più chiaro che il marzo 2022 tende a fratturare la sinistra internazionale antiliberale quanto o quasi quanto l’agosto 1914!” Oggi, undici mesi dopo, tutto indica che il marzo 2022 è davvero l’equivalente per la sinistra internazionale del XXI secolo di ciò che l’agosto 1914 fu per il XX!

Eppure, mentre quasi nessuno contesta privatamente l’esistenza di questa frattura, sono troppo pochi i membri della sinistra che hanno il coraggio di parlarne apertamente e ancora meno quelli che osano esaminare seriamente i lati positivi e negativi di questa divisione storica della sinistra internazionale. In breve, è chiaro che l’intero mondo della sinistra preferisce esorcizzare piuttosto che affrontare la sua profonda divisione…

In realtà, sia nel 1914 che nel 2022, la guerra fu solo la goccia che fece traboccare il vaso di dissensi preesistenti nelle file della sinistra internazionale. E in entrambi i casi, con poche eccezioni, la brusca rottura della sinistra e la meno brusca rivelazione delle abissali differenze che la attraversavano hanno colto tutti di sorpresa. Ecco perché oggi siamo prima increduli, poi scioccati e profondamente traumatizzati nello scoprire che compagni con cui abbiamo lottato insieme per molti anni si dimostrano ora totalmente insensibili sia alle terribili sofferenze imposte al popolo ucraino dal putinismo imperialista della Grande Russia, sia alla feroce repressione di ogni dissenso democratico e progressista all’interno della Russia da parte di quello stesso putinismo tirannico.

Per consolarci, resta la storia di Lenin, in esilio in Svizzera, che rimase totalmente incredulo quando vide la prima pagina del quotidiano socialdemocratico tedesco Vorwaerts, che annunciava il voto a favore dei crediti di guerra da parte dei parlamentari della socialdemocrazia tedesca, il 5 agosto 1914. Tanto incredulo da credere per qualche giorno che questo numero di Vorwaerts potesse essere solo un falso fabbricato dallo stato maggiore dell’esercito tedesco per disorientare il nemico. Ma, una volta convinto della verità della triste notizia e del tradimento anche del suo mentore Kautsky, che per opportunismo non voleva mettersi contro i burocrati del partito, Lenin non esitò a scrivere due mesi dopo: “D’ora in poi odio e disprezzo Kautsky più di chiunque altro, con la sua vile, sporca e autocompiaciuta ipocrisia”. Quanto lo capiamo meglio oggi…

Proprio come accadde all’inizio della Prima Guerra Mondiale nella sinistra internazionale, una volta ripresisi dal primo shock, cercammo una spiegazione a ciò che ci stava accadendo. E scavando nel passato, abbiamo scoperto – piuttosto facilmente – che in fondo non c’era nulla di sorprendente in questa conversione al putinismo di una parte della sinistra internazionale. Perché? Perché il campismo di questa sinistra ha le sue radici nelle reali affinità ideologiche elettive che esistono tra essa e il putinismo, con il quale condivide una visione del mondo che non ha assolutamente nulla di progressista!

In effetti, come ho scritto il 1° luglio 2022“l’attrazione o meglio il fascino che Putin esercita su questa parte della sinistra non può essere pienamente spiegato se non si tiene conto di alcune delle loro… affinità elettive”. E abbiamo continuato a elencare alcuni dei difetti di questa sinistra, che rendono questi campisti profondamente conservatori e quindi compatibili con il putinismo: “E per chiamare le cose con il loro nome, è noto che si sono sempre – e spesso apparentemente – astenuti da tutti i grandi movimenti sociali del nostro tempo, come quelli femministi e LGBTQ+, pro-immigrati e pro-rifugiati, ecologici e contro i disastri climatici, mentre non si sono mai distinti per il loro fervente sostegno ai movimenti per i diritti umani e delle minoranze di ogni genere, spesso non esitando a definirli addirittura una finzione e un’invenzione dell’imperialismo, cosa che dicono anche del cambiamento climatico!”

Tutte queste caratteristiche di questa corrente della sinistra internazionale erano note da tempo, ma sono state poco discusse fino a quando non si è persa la grande opportunità storica di affermarle in modo forte e aggressivo. Questa opportunità è stata offerta loro dalla guerra di Putin contro l’Ucraina. Così come il profondo conservatorismo della socialdemocrazia tedesca e francese, che all’inizio del XX secolo passò praticamente inosservato senza fare scalpore, venne alla luce solo quando giunse l’ora della verità, con il voto sui crediti di guerra all’inizio dell’agosto 1914!

Ma, ahimè, il problema attuale non si limita all’esistenza di questi sostenitori incondizionati del padrone del Cremlino. C’è anche un’altra corrente della sinistra internazionale che pone un problema, quella di coloro che professano la pace a tutti i costi. Pur condannando l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, si oppongono all’armamento degli ucraini da parte dell’Occidente, guidato dalla NATO e dagli Stati Uniti, e consigliano agli ucraini di resistere contro il secondo esercito più potente del mondo, solo … passivamente, considerando che questa resistenza passiva sarà molto più efficace nel lungo periodo di quella armata.

Qualche giorno fa, traducendo in greco l’importante testo di Ernest Mandel “Marx, Engels e il problema della doppia morale”, ci siamo subito resi conto che l’autore non solo argomentava in modo molto convincente contro questa corrente che professa la pace in Ucraina ad ogni costo, ma che lo faceva anche in nome della stessa morale rivendicata da chi si oppone alla resistenza armata degli ucraini. Ascoltiamo quindi Ernest Mandel, di cui si celebra il centenario nel 2023. Ha cose importanti e utili da dire e da ricordare:

“Chi non si oppone attivamente alla violenza dei governanti, chi non cerca di eliminare questa violenza qui e ora, diventa oggettivamente complice del trionfo (temporaneo) di questa violenza. Questo anche se si postula che a lungo termine la resistenza non violenta darebbe risultati superiori. In pratica, ciò equivale a sacrificare un’intera generazione, o addirittura generazioni successive di persone, a un ideale a lungo termine, la cui realizzazione non è certa”.

E Mandel prosegue illustrando le sue parole con un precedente storico i cui protagonisti professavano la stessa resistenza passiva delle vittime ai loro aguzzini imperialisti:

“L’esempio più chiaro è quello del Terzo Reich durante la Seconda Guerra Mondiale. Coloro che (come Gandhi) proponevano una resistenza passiva nei territori occupati per minare il dominio nazista a lungo termine, dimenticavano che nel frattempo tutti gli ebrei, gli zingari, le ‘razze inferiori’, i marxisti, i sindacalisti, gli umanisti, ecc. sarebbero stati letteralmente sterminati. Questi pacifisti erano pronti a sacrificare decine di milioni di vite umane per il trionfo di un’idea. Così, anche per i pacifisti, il fine giustifica i mezzi (disumani). Altrettanto assurda fu l’infame dichiarazione dei leader socialdemocratici tedeschi nelle settimane decisive della presa del potere da parte di Hitler: ‘Non vogliamo uno sciopero generale o una resistenza armata, perché non vogliamo versare il sangue dei lavoratori’. Ma lasciando che Hitler salisse al potere senza fare ogni sforzo per impedirlo, fu versato il sangue di milioni di lavoratori, certamente più di quanto sarebbe stato versato in uno sciopero generale armato nell’inverno 1932-33”.

E Mandel concluse la sua argomentazione in modo conciso e tagliente:

“Non c’è modo di uscire da questo dilemma. Di fronte al terrore e alla violenza usati dalla classe dominante e dai suoi stati per perpetuare lo sfruttamento, la coercizione e il dominio, gli sfruttati e gli oppressi non hanno altra scelta che usare tutti i mezzi possibili per la loro liberazione. I mezzi efficaci includono alcuni mezzi che vanno contro le regole etiche che solitamente governano le relazioni tra gli individui. Per quanto riguarda l’aspetto etico dell’atteggiamento marxista nei confronti della violenza organizzata, il punto di partenza è che è moralmente irresponsabile e inaccettabile identificare la violenza usata dagli schiavisti per perpetuare la schiavitù con la violenza usata dagli schiavi per liberarsi”.

La nostra conclusione: Ben detto compagno Ernest…