Nelle ultime settimane si sono verificati importanti spostamenti di forze a livello internazionale che riflettono la lotta per una nuova correlazione di forze tra i principali stati del mondo. Ho pensato perciò di dedicare questo articolo ad una per quanto sommaria analisi di quel che accade a livello delle relazioni internazionali.
La situazione Cina-Taiwan
Una settimana fa, ancora una volta si è intensificata la pressione cinese su Taiwan, con lo svolgimento di importanti esercitazioni militari durate tre giorni, che hanno simulato un assedio dell’isola. Stando alle valutazioni del ministero della Difesa di Taiwan, nella regione erano presenti una settantina di aerei cinesi, tra cui caccia Sukhoi Su-30 e bombardieri Xian H-6, oltre a 11 navi. Anche i movimenti di truppe sono stati intensi sul lato cinese dello Stretto di Taiwan, con il dispiegamento di unità missilistiche e di artiglieria a lungo raggio che hanno messo in atto azioni dimostrative contro l’isola dalla terraferma.
La reazione taiwanese e occidentale all’esercitazione cinese è stata immediata. Il governo degli Stati Uniti ha chiesto alla Cina di limitare le sue azioni e ha inviato sul teatro degli eventi il cacciatorpediniere USS Milius, che ha pattugliato un’importante regione del Mar cinese meridionale. Commentando il movimento generale delle forze, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha avvertito che “l’indipendenza di Taiwan (che, lo ricordiamo, dista non più di 150 chilometri dalle coste continentali) e la pace e la stabilità nello Stretto sono cose che si escludono a vicenda”.
L’esercitazione cinese fa seguito al ritorno della presidente taiwanese Tsai Ingwen da una breve visita negli Stati Uniti e in America Centrale, dove ha incontrato vari capi di stato centroamericani e il presidente della Camera dei rappresentanti USA, Kevin McCarthy.
Il governo taiwanese, infatti, è molto preoccupato per l’offensiva economica e diplomatica cinese in America Latina. Solo una decina di giorni fa, l’Honduras è diventato il quinto (dopo Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador e Nicaragua) dei paesi latinoamericani che in soli sei anni hanno tagliato le relazioni diplomatiche con Taiwan e stabilito legami con Pechino. La situazione diplomatica per Taiwan è una delle peggiori della sua storia. Ad oggi sono solo 13 i paesi al mondo che mantengono ancora relazioni formali con l’isola: Paraguay, Guatemala, Haiti, Belize, Vaticano e piccole isole dei Caraibi e del Pacifico.
La visita di Tsai Ingwen in America Centrale non ha prodotto granché per la la “Cina nazionalista”. Ma non si può dire lo stesso quanto all’incontro con il presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti Kevin McCarthy, che fa seguito a quella a Taiwan dell’allora speaker dei deputati USA Nancy Pelosi nell’agosto 2022.
Stati Uniti e NATO su Taiwan
Fino ad allora gli Stati Uniti si erano mantenuti sulla linea diplomatica ultradecennale definita della “ambiguità strategica”, che combinava cioè il riconoscimento formale dell’esistenza di un’unica Cina con il mantenimento di forti legami economici, culturali, scientifici e persino militari con l’isola collocata dall’altra parte dello stretto.
Negli ultimi tempi, la retorica statunitense sulla questione di Taiwan è diventata sempre più veemente. Nel maggio 2022, ad esempio, Biden aveva affermato di essere disposto a usare la forza per difendere Taiwan in caso di attacco cinese. “È questo l’impegno che abbiamo preso”, ha dichiarato all’epoca, aggiungendo che gli Stati Uniti sono d’accordo con la visione di una sola Cina, ma che questa visione non dà a Pechino il diritto di prendere l’isola con la forza.
Biden sembra temere che la Cina approfitti del delicato momento internazionale segnato dalla guerra in Ucraina per concretizzare quello che in Cina è considerato una sorta di “diritto storico”: la riunificazione del paese, attraverso la presa di Taiwan. Lo stesso Biden ha dichiarato: “Sarebbe un’azione simile a quella che è avvenuta in Ucraina”.
In si tratta di un’ennesima dimostrazione del doppiopesismo degli USA, pronti a difendere l’autonomia dell’isola cinese mentre viene giustamente deprecato il pretesto della salvaguardia dell’autonomia delle regioni “russofone” dal “nazionalismo ucraino” addotto da Putin per la sua invasione.
Quanto alla NATO, sulla questione di Taiwan non esiste la stessa unità di intenti che sembra per il momento regnare sulla questione ucraina. Emmanuel Macron nel suo recente viaggio in Cina, ha dichiarato che l’Europa non può essere ostaggio della politica statunitense o cinese su Taiwan, ma deve cercare una propria posizione. Un discorso che è piaciuto molto a Pechino e che è stato molto apprezzato dalla stampa e dai funzionari cinesi.
Tutto ciò smentisce le ricostruzioni schematiche e di comodo piuttosto in voga in alcuni ambienti della sinistra e del pacifismo che vedono una situazione di larga e consolidata egemonia planetaria della potenza statunitense e che leggono la resistenza dell’Ucraina come una guerra ad oltranza per procura contro la Russia, oscurando o addirittura deplorando la soggettività propria di quella resistenza.
La ricerca di un compromesso
In queste ultime settimane, tutte le principali cancellerie sembrano impegnate a ricercare, come numerosi settori della sinistra e del pacifismo chiedono, una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina. Il presidente cinese Xi Jinping si è recato a Mosca qualche settimana fa, Macron e Ursula von der Leyen si sono recati a Pechino all’inizio di questo mese. Questo lavorio diplomatico non nasce certo dalla volontà di tutelare gli interessi e la sicurezza del popolo ucraino, da 14 mesi sottoposto ad una brutale aggressione che ha provocato e continua a provocare migliaia di morti e immani distruzioni. Il motore principale di questo attivismo è piuttosto la diffusissima preoccupazione che il prolungarsi della guerra arrechi al commercio internazionale e dunque alle varie economie nazionali delle principali potenze danni irreparabili.
Ma tutti questi incontri ai massimi livelli non possono evitare di affrontare il tema “Ucraina”, sia perché questo costituisce una grave preoccupazione agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, sia per le sue gravi implicazioni economiche e politiche.
E’ stata importante e significativa anche la visita ufficiale che il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva ha fatto in Cina qualche giorno fa, accompagnato da una folta delegazione di funzionari governativi e di uomini d’affari, durante la quale sono stati firmati una ventina di accordi di cooperazione economica e tecnologica. Ovviamente, negli incontri con i leader cinesi, Lula, come tutti gli altri leader, ha affrontato anche il tema della guerra in Ucraina, convenendo con il presidente cinese Xi Jinping che “il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi ucraina” e che “tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti”, che occorre invitare “più paesi a svolgere un ruolo costruttivo nel promuovere la soluzione politica della crisi”. Lula e Xi hanno affermato di voler “mantenere aperte le loro comunicazioni sul merito” della questione. Concludendo la visita, il presidente Xi Jinping ha definito Lula un “vecchio amico”.
Com’è noto, il Brasile, a differenza della Cina che si è astenuta nelle principali votazioni dell’assemblea dell’ONU sulla questione, nell’ultima votazione ha contribuito ad approvare una risoluzione che condanna l’aggressione russa contro l’Ucraina.
Il “piano di pace” di Xi Jinping
Ancora più recentemente, c’è stato proprio due giorni fa nella capitale cinese l’incontro tra la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock del partito dei Verdi, e il suo omologo Qin Gang. Come spesso avviene in occasioni di questo tipo, il contenuto esatto della conversazione tra i due ministri degli Esteri non è stato divulgato, ma risulta chiaro che anche in questo incontro (oltre ai dossier tradizionali negli incontri Cina-UE, come diritti umani e Taiwan) è stato discusso il cosiddetto “piano di pace” cinese (che, lo ricordiamo evita accuratamente di richiedere alla Russia, in quanto paese aggressore, anche solo il cessate il fuoco, per non parlare del ritiro delle truppe d’invasione).
Sembra che Qin Gang abbia dichiarato che l’obiettivo cinese resta quello di far avanzare i negoziati di pace, ma avrebbe anche sottolineato la necessità di prendere in considerazione gli interessi e la sicurezza della Russia. E ha anche cercato di rassicurare la Baerbock respingendo le accuse secondo cui la Cina fornirebbe o avrebbe intenzione di fornire sostegno militare alla Russia contro l’Ucraina.
Tutti questi incontri si concludono con solenni dichiarazioni delle autorità delle principali potenze sulla possibilità di un cessate il fuoco in Ucraina e di un rapido rilancio dei negoziati. Tutti affermano “sinceramente” di voler fare tutto il possibile per ottenere una “de-escalation” in Ucraina, anche se tutto rimane in ambito puramente simbolico, mentre le discussioni serie e concrete tra i “grandi” riguardano gli accordi e i rapporti di forza economici tra loro.
Il famoso “piano di pace cinese” in dodici punti è stato lanciato subito dopo che la Cina, a fine febbraio, si era astenuta dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che, in coincidenza con il primo anniversario della guerra, “deplorava nella maniera più assoluta” l’invasione dell’Ucraina e che chiedeva il ritiro delle truppe russe. Naturalmente la risoluzione è stata bloccata dallo scontato veto della Russia. Ma non si può trascurare il fatto che in quel contesto il “non veto” cinese è stato interpretato come un messaggio di presa di distanza dall’oltranzismo del Cremlino.
Il piano si riduce però ad un compiaciuto gioco di equilibri: Xi Jinping nel documento afferma in generale che la sovranità degli stati deve essere rispettata all’interno dei rispettivi confini, ma mai condanna l’invasione russa dell’Ucraina né solleva la questione del ritiro delle truppe. Si invitano “le due parti” (Russia e Ucraina) a riprendere al più presto il dialogo e a prospettare il cessate il fuoco, e si enfatizza in maniera strumentale le responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati. Sulla Russia, l’unico elemento di pressione è una secca denuncia di qualsiasi deriva nucleare del tipo di quella che solo le autorità russe hanno più volte minacciato.
Dunque, il piano cinese è fatto di dichiarazioni di principio sulla necessaria protezione dei civili, sulla necessità di ridurre la logica della guerra fredda, sulle manovre dei blocchi militari e sulla lotta alla rimilitarizzazione… ma elude completamente ogni proposta concreta. Il suo scopo è solo quello di far apparire agli occhi dell’opinione pubblica mondiale la Cina come una potenza “ragionevole”, che, a differenza degli altri, non vuole aggiungere benzina sul fuoco, ma, all’osservatore attento, rivela come gli interessi dei popoli siano la sua ultima preoccupazione.
I messaggi criptici del capo della Wagner
Anche il miliardario Yevgeny Prigozhin, proprietario della milizia mercenaria Wagner, si è pronunciato sulla questione della “pace”. Le sue dichiarazioni sono state frettolosamente interpretate come un appello all’armistizio o addirittura alla fine della “operazione militare speciale”.
Prigozhin dichiara cinicamente che alcuni importanti obiettivi russi sarebbero stati raggiunti: l’eliminazione di gran parte della popolazione maschile attiva dell’Ucraina, la messa in fuga verso l’Europa di un’altra parte, l’isolamento del Mar d’Azov e di un grosso pezzo del Mar Nero, l’occupazione parti importanti di territorio ucraino e la creazione di un corridoio terrestre verso la Crimea. Ma il leader della Wagner teme che possa rafforzarsi all’interno del paese una pressione per fare concessioni, restituire all’Ucraina quei territori che ora sono sotto controllo russo. Proprio per questo Prigozhin dichiara che “la Russia non può accettare alcun accordo, solo una lotta leale… Le regioni fortificate della Russia rendono impossibile penetrare nelle sue profondità. E il popolo russo non crollerà mai”. Anzi arriva perfino ad auspicare che “le forze armate ucraine riprendano l’offensiva, tanto da rendere improponibili i negoziati”.
E il regime di Putin, con le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri Sergei Lavrov, respinge bruscamente ogni ipotesi di un rapido cessate il fuoco in Ucraina in nome degli interessi fondamentali della Russia.
Il “pacifismo” nella sua impasse
In questo contesto, il “popolo della pace” non può che restare muto o continuare a recitare vuote formule incapaci di cogliere le vere dinamiche del conflitto.
Naturalmente, nessuno può negare la validità di principio del rifiuto della Nato e la rivendicazione del suo scioglimento. Ma occorre essere capaci di “mettersi nei panni” dei popoli dell’intera regione, a partire da quelli ucraini e russi, che giustamente e in forza di una plurisecolare esperienza temono che si affermi la potenza russa nella sua versione putiniana, semifascista, imperialista e colonialista.
Nessun ucraino, kazako, cittadino dei paesi baltici, oppositore russo o bielorusso può auspicare che la guerra possa concludersi con un accordo che lasci parti del territorio ucraino sotto il controllo del regime di Putin, calpestando la volontà degli ucraini. Nessuno di loro può dimenticare che, all’inizio del 2022, Putin ha solennemente negato la legittimità stessa di uno stato ucraino indipendente e che, nell’autunno del 2022, ha formalmente proclamato l’annessione di quattro regioni dell’Ucraina (peraltro solo in parte e precariamente occupate), oltre alla Crimea dichiarata unilateralmente “russa” già nel 2014.
Perciò, quando un politico occidentale o un “pacifista” afferma che se gli ucraini vogliono la pace devono fare concessioni, dimenticare la Crimea e magari il Donbass, l’effetto (volontario o involontario che sia) è quello di far ricadere su di loro la responsabilità del proseguimento della guerra, in barba al diritto dei popoli all’autodeterminazione.
E così si elude o si dimentica (anche qui volutamente o inconsapevolmente) che la condizione certo necessaria pur se non sufficiente per una pace giusta e duratura nell’Europa orientale è quella dell’indebolimento e, possibilmente, della sconfitta del regime e del potere di Putin.