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La Federazione russa e le sue ansie imperiali

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Femonazionalismo, un libro da leggere

L’amica Sara R. Farris è attualmente docente senior di sociologia presso la Goldsmiths, University of London, e autrice, tra l’altro, di Max Weber’s Theory of Personality: Individuation, Politics, and Orientalism in the Sociology of Religion.

Il suo In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017) è stato pubblicato in italiano da Alegre nel 2019 con il titolo Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne.



Nel volume Sara analizza la rivendicazione di diritti delle donne da parte di un improbabile insieme di partiti politici nazionalisti di destra, neoliberali e da parte di alcune teoriche e politiche femministe.

Concentrandosi sulla Francia contemporanea, sull’Italia e sull’Olanda, Farris definisce “femminonazionalismo” lo sfruttamento e la cooptazione di temi femministi da parte di campagne anti-Islam e xenofobe. L’autrice mostra che, caratterizzando i maschi musulmani come pericolosi per le società occidentali e come oppressori delle donne, e sottolineando la necessità di salvare le donne musulmane e migranti, questi gruppi usano l’uguaglianza di genere per giustificare la loro retorica e le loro politiche razziste. 


Questa pratica ha anche una funzione economica. Farris analizza come le politiche neoliberali di integrazione civile e alcuni gruppi femministi incanalino le donne migranti musulmane e non occidentali nelle occupazioni domestiche e di cura, sostenendo al contempo di promuovere la loro emancipazione. Così, Sara documenta i legami tra razzismo, femminismo e i modi in cui le donne non occidentali vengono strumentalizzate per una serie di scopi politici ed economici.


La sua analisi e la sua interpretazione di un certo “femminismo” come subalterno al capitalismo neoliberale è stata largamente apprezzata da numerose/i commentatrici e commentatori di autorevoli riviste. E ne è consigliata la lettura proprio al fine di attirare l’attenzione del mondo femminista e delle/degli attiviste/i dei diritti civili su una nuova configurazione politico-economica in cui le condizioni neoliberali, le politiche femministe di uguaglianza di genere e il nazionalismo di destra rischiano di fondersi nel sostegno verso relazioni ideologiche e materiali di sfruttamento tra donne occidentali e non occidentali. 


Di fronte alla privatizzazione dei servizi sociali, le donne migranti non occidentali svolgono un ruolo strategico sempre più importante nella riproduzione sociale attraverso la cura e il lavoro domestico. Sono diventate un esercito regolare di lavoratrici, indispensabile per il funzionamento delle economie capitalistiche neoliberali dell’Europa occidentale. La gamma di materiali empirici e teorici riportati dal libro è impressionante e la sua rilevanza per gli attuali dibattiti sull’islamofobia e sulla “questione degli immigrati” in Europa occidentale è veramente inestimabile. 


Qua sotto pubblichiamo una brevissima sintesi degli argomenti sviluppati da Sara nel suo volume, del quale consigliamo vivamente la lettura. La sintesi è stata redatta da Marta Dell’Aquila.


“Bisogna capire che nelle circumnavigazioni della vita ciò che è una brezza piacevole per alcuni può essere una tempesta fatale per altri, a seconda del pescaggio della barca e dello stato delle vele”. Con queste parole lo scrittore portoghese José Saramago, nel suo libro La Caverna (2000), racconta gli sconvolgimenti emotivi e materiali vissuti dal vasaio Cipriano Algor, da sua figlia Marta e da suo genero Marçal, quando l’espansione del centro commerciale minaccia la loro attività familiare.


Nel suo libro In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism, Sara Farris descrive una situazione simile: l’ascesa dei partiti nazionalisti, in uno scenario europeo in cui l’islamofobia e il risentimento verso gli immigrati sono sempre più forti, ha dato vita a una retorica i cui discorsi e campagne elettorali si basano sulla minaccia che gli immigrati, in particolare quelli musulmani, rappresentano per l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne. Le donne immigrate, in particolare quelle musulmane, sono spesso assegnate alla categoria statica e monolitica di vittime, prive di agency e intrinsecamente portatrici dei cosiddetti valori tradizionali.


Nella sua introduzione, Sara Farris sostiene che non sono solo i partiti nazionalisti a vedere l’uguaglianza di genere come un pilastro su cui costruire “agende anti-Islam” e discorsi emancipatori con sfumature coloniali. L’uguaglianza di genere è utilizzata anche da gruppi sociali che si dichiarano antinazionalisti, come le femministe, le organizzazioni femminili e i neoliberisti.


Per presentare la logica politica ed economica alla base di questi attori interagenti, l’autrice introduce il concetto di “femonazionalismo”, che si riferisce allo “sfruttamento di temi femministi da parte di nazionalisti e neoliberali in campagne anti-Islam ([…] anche anti-immigrazione) e alla partecipazione di alcune femministe e femminocratiche alla stigmatizzazione degli uomini musulmani sotto la bandiera dell’uguaglianza di genere”. Attraverso i suoi cinque capitoli e lo studio di tre specifici contesti nazionali (Olanda, Francia e Italia), il libro utilizza un metodo interdisciplinare per presentare la diffusione e le applicazioni di questo concetto.


Nel primo capitolo, “Figure del femminismo”, l’autrice delinea la genealogia della mobilitazione dell’uguaglianza di genere all’interno dei partiti nazionalisti di destra in Olanda (Partito della Libertà), in Francia (Fronte Nazionale) e in Italia (Lega Nord), tra il 2010 e il 2013, per rafforzare le loro agende politiche anti-islamiche e anti-immigrazione e xenofobe.


Farris mostra come questi partiti siano riusciti a strumentalizzare l’uguaglianza di genere e a trasformarla, ciascuno a suo modo, in una “potente arma nella campagna contro i migranti musulmani e non occidentali”. La diffusione di siti web xenofobi è una caratteristica comune di questo ambiente. L’autrice cita il sito promosso dal Partito della Libertà olandese, dove i cittadini potevano inviare le loro denunce contro gli immigrati dei nuovi stati membri dell’UE, o il sito “Tutti i crimini degli immigrati”, promosso dal segretario generale della Lega Nord, che raccoglieva articoli sui crimini, in particolare gli stupri, perpetrati da uomini immigrati in Italia.


Un altro esempio di questa strumentalizzazione è la proposta di creare un “Ministero dell’immigrazione e della laicità” avanzata dalla presidente del Front National, Marine Le Pen, nel 2012. Questo capitolo mostra anche come la partecipazione di femministe e organizzazioni femministe a questa guerra contro la misoginia intrinseca della cultura islamica serva solo a rafforzare un atteggiamento coloniale ed eurocentrico che rivendica la superiorità dei valori occidentali.


Il capitolo 2, “Il femminonazionalismo non è populismo”, ci ricorda che negli ultimi anni sociologi e politologi hanno considerato il discorso a favore dell’uguaglianza di genere portato avanti dai partiti di destra come una forma di populismo: “Una politica che dicotomizza lo spazio politico in ‘noi’ (il popolo puro) contro ‘loro’ (l’élite corrotta o lo straniero)”, in altre parole, una politica definita dalla sua forma piuttosto che dal suo contenuto. In questo senso, le campagne anti-Islam e anti-immigrazione portate avanti dai suddetti partiti nazionalisti, che identificano il nemico comune nell’“Altro”, lo “straniero”, il “migrante”, il “musulmano”, farebbero parte di questa logica populista. 


Tuttavia, secondo Farris, il concetto di populismo – per la cui definizione l’autrice si rifà a Ernesto Laclau (La ragione populista) e Carl Schmitt (Il concetto di politico) – non spiega l’attaccamento di questi partiti alla parità di genere. Il nemico comune a cui questi partiti fanno riferimento è, infatti, un nemico comune maschile, poiché le donne musulmane e le donne migranti non rientrano in questa categoria.


Farris si chiede quindi “a quali condizioni questo nemico può essere diviso in due campi diversi, un campo maschile e un campo femminile”. L’autrice indirizza la sua risposta alle teorie nazionaliste sviluppate nell’ambito del femminismo postcoloniale e della Critical Race Theory (CRT), che includono, in quest’ultima in particolare, le nozioni di “sessualizzazione del razzismo” e di “razzializzazione del sessismo”: attribuendo stereotipi diversi agli uomini e alle donne straniere e facendo del sessismo un dominio esclusivo dell’Altro, queste due nozioni spiegherebbero e giustificherebbero ulteriormente l’uso della parità di genere come strumento di propaganda da parte dei partiti nazionalisti di destra.


Il capitolo 3, “Le politiche di integrazione e l’istituzionalizzazione del femminismo”, fa il punto sulle politiche e sui programmi di integrazione civile per gli immigrati o, nel linguaggio dell’Unione Europea, per i cittadini di paesi terzi. Queste iniziative sono state promosse da alcuni governi liberali (l’Olanda, che ne è stata la pioniera, la Francia e l’Italia) e sostenute dai partiti nazionalisti (soprattutto in Italia); l’uguaglianza di genere è stata uno dei valori chiave di queste iniziative, nonostante l’eterogeneità di questi programmi: in Francia, ad esempio, sono centralizzati e omogenei, mentre in Olanda e in Italia sono decentrati ed eterogenei.


Secondo l’approccio multiculturalista, come quello di Christian Joppke e Yasemin Soysal, l’uguaglianza di genere sarebbe un diritto non negoziabile che fissa i limiti del compromesso culturale, frutto del nuovo carattere liberale, e quindi antinazionalista, degli stati membri dell’Unione europea. Al contrario, Farris sostiene che l’inclusione dell’uguaglianza di genere in questi programmi nazionali, anziché eliminarla, non fa altro che rafforzare il carattere nazionalista e razzista della “svolta verso l’integrazione civile”, definita dall’autrice come una caratteristica intrinseca del liberalismo: questi programmi sarebbero quindi come “la forma più concreta e insidiosa di istituzionalizzazione del femminonazionalismo”, concepiti per salvare le donne razzializzate attraverso un apprendistato ideologico segnato da un colonialismo civilizzatore e dall’eurocentrismo.


Nel capitolo 4, “Femonazionalismo, neoliberismo e riproduzione sociale”, l’autrice esamina le relazioni e le analogie tra il femminismo anti-islamico, il nazionalismo anti-islamico e anti-immigrazione e le politiche neoliberali, in particolare quelle che riguardano l’integrazione e l’emancipazione economica delle donne immigrate in un contesto segnato dal razzismo e dall’islamofobia. Farris avverte già una prima “radicale contraddizione performativa” derivante dalla strumentalizzazione dell’uguaglianza di genere da parte di questi attori, risultato di una disgiunzione tra la teoria, o principio politico, e la pratica, o l’azione politica che dovrebbe scaturirne: questi attori “rafforzano le condizioni di riproduzione, a livello di società, della segregazione delle donne migranti musulmane e non occidentali, dei ruoli di genere tradizionali, dell’ingiustizia di genere che pretendono di combattere”


In altre parole, queste iniziative hanno contribuito a perpetuare alcuni nodi strutturali della disuguaglianza, come la divisione sessuale del lavoro: l’empowerment economico di cui parlano questi autori in teoria non farebbe altro che indirizzare queste donne verso il lavoro domestico e di cura, storicamente connotato come esclusivamente femminile.


L’autrice propone quindi di ricostruire i concetti di autonomia economica ed emancipazione da un punto di vista femminista, e di decostruire la nozione teleologica di emancipazione del femminismo occidentale, che di fatto identifica il lavoro come momento necessario del telos emancipatorio. I concetti di etica produttiva e di lavoro in contrapposizione alla riproduzione sociale con le sue specialità di genere meritano di essere decostruiti a causa dei cambiamenti storici, socio-economici e istituzionali avvenuti nel corso dei secoli.


Nell’ultimo capitolo, “L’economia politica del femminismo”, il libro ritorna al concetto di “esercito di riserva di lavoratori” sviluppato da Karl Marx nel Libro primo del Capitale, per descrivere la posizione delle donne migranti o musulmane nell’economia europea e il tipo di lavoro che svolgono, che è per lo più un lavoro domestico e di cura. Ciò che è particolarmente interessante in questo capitolo è la descrizione del modo in cui le donne migranti, siano esse musulmane o, più in generale, non occidentali, sono percepite nell’immaginario collettivo: come vittime che devono essere salvate, redente o aiutate a integrarsi nella nuova società, ma in nessun modo viste come un pericolo economico e politico per gli uomini.


Per l’autrice, l’analisi di questa stereotipizzazione non può essere intesa come riferita solo ai ruoli sociali che queste donne occupano, ma anche ai ruoli economici che esse svolgono per le economie neoliberali, tenendo conto di alcune dinamiche in evoluzione, come la mercificazione del lavoro domestico e di cura – che, anche nella sua forma retribuita, rimane il settore del lavoro più legato al genere – o la femminilizzazione e razzializzazione di specifici mercati del lavoro.


Ad esempio, “le cattive condizioni di lavoro, la bassa retribuzione e lo status, gli orari di lavoro insalubri e la situazione spesso irregolare che prevale nel settore domestico e dell’assistenza rendono questo lavoro poco attraente per le donne non migranti”. Alla luce di queste considerazioni, l’autrice conclude che il concetto più appropriato per descrivere la posizione delle donne migranti sarebbe quello di un “esercito regolare di lavoratori”, che, da un lato, consente alle donne autoctone/non migranti di uscire di casa e, dall’altro, dà vita a nuove figure professionali, come la badante in Italia.


Per analizzare il fenomeno del “femminismo”, Sara Farris non si limita a una semplice spiegazione ideologica. Propone un’analisi multidimensionale delle dinamiche sociali, politiche e soprattutto economiche che hanno caratterizzato il processo di globalizzazione neoliberista degli ultimi trent’anni.

India (Bharat), il suo nome e la sua "rivoluzione mancata"

Nei giorni scorsi si è molto speculato sulla decisione del governo indiano di rivendicare che, a livello internazionale, il paese venga definito con il nome di Bhārat, suggerendo l’accantonamento del tradizionale termine India.


Narendra Modi

In realtà, nel paese, la “nuova” definizione è usata da sempre in quanto derivante dalla lingua sanscrita e usato fin dall’antichità per indicare la regione del Gange, il “fiume sacro” degli indù. Il termine India, invece, ha anch’esso un’origine sanscrita, ma indicava la regione dell’altro grande fiume della regione, l’Indo, che oggi però scorre per la quasi totalità del suo corso nel territorio del Pakistan.


Certamente, dunque, la scelta di Narendra Modi e del suo partito populista di estrema destra di prediligere questa definizione ha a che fare con il rinascente nazionalismo indiano e con la “ideologia” dell’hindutva, quel misto di razzismo e di integralismo religioso induista che nega il carattere multietnico e multireligioso del subcontinente indiano e che gli ha consentito di conquistare il 56% dei seggi del parlamento (anche se solo con il 37% dei voti).


Ma questa forse effimera considerazione terminologica, unitamente alla più sostanziale rilettura della Lettera aperta di Leone Trotsky ai lavoratori indiani del luglio 1939 (nella quale il dirigente rivoluzionario chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come, in presenza di uno scontro anche acutissimo tra imperialismi, ci si debba sempre basare sulle esigenze politiche e sociali dei popoli), mi ha spinto ad approfondire la storia recente del Bharat (o dell’India) che proprio qualche settimana fa ha festeggiato il 76° anniversario dell’indipendenza e in particolare la diffusa credenza secondo cui l’immenso paese è riuscito a liberarsi dal giogo coloniale inglese grazie alla strategia non violenta della “disobbedienza civile” sostenuta da Mohāndās Karamchand Gāndhī e dal suo Partito del Congresso.


Pierre Rousset

La storia mainstream ci dice che l’India si liberò dal colonialismo inglese grazie al movimento di disobbedienza civile diretto da Gandhi. Ma è vero? L’azione di massa non violenta è stata sufficiente a costringere l’esercito coloniale britannico ad abbandonare il paese e a rinunciare alla più importante colonia che restava all’impero inglese nel secolo scorso? Così ho letto (e pubblico qua sotto in italiano) l’intervista che Pierre Rousset, del sito europe-solidaire.org ha fatto, proprio ponendo queste domande, a Sushovan Dhar, attivista politico e sindacalista.

Sushovan Dhar

Pierre Rousset: L’indipendenza, la liberazione dal giogo coloniale britannico nel 1947, è stata effettivamente conquistata grazie al movimento di disobbedienza civile incarnato da Mohāndās Karamchand Gāndhī?

Sushovan Dhar: Per quanto riguarda il movimento di liberazione dell’India e la non violenza di Gandhi, si tratta di una versione esagerata e asettica della storia indiana, presentata dal Partito del Congresso e dagli storici liberali, soprattutto dopo l’indipendenza.


In realtà, i gruppi di resistenza armata furono molto potenti e diedero un contributo importante alla lotta per l’indipendenza dell’India. Il movimento era particolarmente forte in Bengala, Bihar, Uttar Pradesh (allora chiamato Provincia Unita) e Punjab. Inoltre, ci fu una serie di movimenti di massa armati guidati dalla sinistra: Telangana, Tebhaga e molte altre rivolte in diverse parti dell’India. Anche Bhagat Singh e i suoi compagni dell’Associazione socialista repubblicana dell’Hindustan giocarono un ruolo importante.


Il “sogno” della borghesia indiana

Anche alla vigilia dell’indipendenza, il famoso ammutinamento navale scosse il paese nel 1946. Non va dimenticato il ruolo svolto dall’Esercito nazionale indiano guidato da Subhash Chandra Bose.


Anche diversi movimenti operai e contadini facevano parte del Congresso. Sarebbe quindi sbagliato pensare che il Congresso rappresentasse solo la tradizione della non violenza. 


In realtà, Gandhi entrò in scena solo nel 1920 con il suo movimento di non cooperazione. Si trattava di un tentativo, non riuscito, di indurre il governo britannico a concedere l’autonomia, o swaraj, all’India. Tuttavia, il fallimento di questo movimento portò Gandhi a perdere il controllo sul Congresso. Infatti, le fazioni socialiste del partito, che comprendevano sezioni che non aderivano pienamente alla non-violenza di Gandhi, presero il controllo del partito. 


Lo stesso accadde nel 1934, quando Gandhi rinunciò alla disobbedienza civile. Se analizziamo la storia della lotta per la libertà in India, scopriamo che, fino al 1942, il movimento della non violenza di Gandhi non era in prima linea nella lotta per la libertà. La politica di Gandhi era in gran parte limitata ad azioni individuali (satyagraha).


Una manifestazione di Quit India

Nemmeno il movimento Quit India del 1942 può essere descritto come totalmente non violento. Se così fosse stato, la pressione sul governo imperiale sarebbe stata molto limitata. Molti gruppi di pressione si unirono al movimento. Non dimentichiamo che gli alti dirigenti del Congresso erano tutti in carcere quando fu lanciato il movimento Quit India. I leader di medio livello del partito che hanno avuto un ruolo di primo piano in questo movimento si sono poi uniti al Partito Socialista e non si sono impegnati nell’idea della non violenza in senso gandhiano.


P.R: Il movimento comunista indiano è stato importante. Ma non sembra aver giocato un ruolo importante nel 1946-1947?


S.D.: L’importanza del movimento comunista indiano divenne evidente a seguito delle cause intentate dalla potenza coloniale. Già negli anni Venti, i comunisti furono processati in una serie di casi di cospirazione.


MN Roy

I processi per la cospirazione di Peshawar (1922-1927): l’amministrazione britannica li avviò in cinque fasi contro 50 muhajir che avevano fondato il Partito comunista dell’India (PCI) a Tashkent nel 1920. Questi leader avevano ricevuto una formazione politica e militare a Tashkent, che faceva parte dell’ex Unione Sovietica, e all’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est (KUTV) di Mosca. La maggior parte dei muhajir erano khilafiti e avevano pianificato di recarsi in Turchia per combattere gli inglesi. Tuttavia, incontrarono Manabendra Nath (MN) Roy a Tashkent e insieme fondarono il primo Partito Comunista dell’India. Furono accusati di incitare “una rivoluzione proletaria contro gli oppressori imperialisti britannici per restituire la libertà alle masse” e incriminati in base all’articolo 121-A.


Il processo per la cospirazione comunista (bolscevica) di Kanpur (1924-25): fu avviato contro leader comunisti tra cui MN Roy, Shaukat Usmani, SA Dange, Muzaffar Ahmad, Ghulam Hussain, Singaravelu Chettiar e altri, molti dei quali appartenenti al gruppo di Tashkent e altri attivisti contadini e operai provenienti da diverse parti dell’India. I suddetti individui furono accusati in base all’articolo 121-A perché, secondo il governo britannico, stavano tentando di “privare il Re Imperatore della sua sovranità sull’India britannica, separando completamente l’India dalla Gran Bretagna imperialista attraverso una rivoluzione violenta”.


Il processo per la cospirazione di Meerut (1929-1933): questo processo fu il più importante per l’affermazione del Partito Comunista dell’India come partito della classe operaia e contadina. Per aver organizzato una protesta dei dipendenti delle ferrovie indiane e dell’industria tessile, diversi funzionari sindacali di tutta l’India furono arrestati, insieme a tre inglesi affiliati all’Internazionale Comunista, e processati. I leader erano Sohan Singh Josh, Muzzafar Ahmed, Philip Spratt, Shaukat Usmani e Shripad Amrit (SA) Dange. Sono stati condannati ai sensi del’articolo 121-A. La Grande Depressione portò a un’ondata di attività sindacale, organizzazione e scioperi nelle principali aree industriali indiane alla fine degli anni Venti, cui seguirono i processi di Meerut.


Purtroppo, il Partito Comunista dell’India non partecipò al movimento Quit India del 1942.


Che conseguenze ha avuto l’assenza del PCI?


Lasciò le masse nelle mani del Partito del Congresso. Il risultato fu un trasferimento di potere e non una rivoluzione sociale… Ha portato all’indipendenza della borghesia nazionale e non delle masse lavoratrici, che pure avevano svolto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza. È stata ottenuta a costo di lotte popolari in diverse parti del paese per quasi un secolo.


Ci furono possibilità di creare autogoverni locali in diverse parti dell’India (ad esempio, il governo indipendente della città di Tamralipta nel Bengala), ma l’assenza di una forte forza di sostegno – la leadership – lasciò che queste rivolte popolari accettassero gli ordini di Gandhi e si arrendessero.


Tuttavia, non dimentichiamo che le organizzazioni popolari di sinistra, in particolare i sindacati, hanno svolto un ruolo importante nel movimento Quit India. Le forze di sinistra di tradizione non-PC (il Revolutionary Socialist Party-RSP, il Revolutionary Communist Party of India-RCPI, il Bolshevik–Leninist Party of India, Ceylon and Burma-BLPI e altre) parteciparono al movimento con pieno vigore.


Pertanto, il 1942 non fu un movimento non violento né un movimento guidato da Gandhi. Tuttavia, la borghesia nazionale, che sostenne Gandhi per tutto il tempo, purtroppo emerse come unica vincitrice e giocò un ruolo importante nell’India post-indipendenza, plasmando il corso della storia indiana, dove le strutture fondamentali di sfruttamento e oppressione (casta, genere, ecc.) rimasero intatte anche dopo la fine del dominio coloniale. L’esperienza indiana è diventata un modello per la borghesia del Terzo Mondo, che è emersa come forza principale nella maggior parte del mondo decolonizzato.


Va aggiunto che porre le questioni della violenza e della non violenza come opposizioni binarie contribuisce a elevare le questioni metodologiche o tattiche al di sopra del contenuto politico della lotta.


Questo è vero non solo per la politica gandhiana, ma anche per i suoi contraltari, i movimenti armati marxisti, maoisti e di guerriglia in molte parti del mondo. Abbiamo visto più volte il fallimento di queste politiche.


Alcuni suggerimenti di lettura (in inglese)


India’s Struggle for Independence, Bipan Chandra, Mridula Mukherjee, Aditya Mukherjee, Sucheta Mahajan, and K. N. Panikkar, Penguin Random House, 1987

The Mahatma and the Ism, E. M. S. Namboodiripad, LeftWord, 2010 (la première publication en 1959)

Modern India 1885–1947, Sumit Sarkar, Palgrave Macmillan London, 1989

A History of Indian Freedom Struggle, E. M. S. Namboodiripad, Social Scientist Press, 1986

From Plassey to Partition and After: A History of Modern India, Sekhar Bandyopadhyay, Orient Longman, 2004

• An Open Letter to the Workers of India, Leon Trotsky, July 1939

Africa, quando il cortile dietro casa torna a ribellarsi

Sui colpi di stato in Mali, Burkina Faso e Niger

In un’area dal ruolo geopolitico chiave e ricca di giacimenti di uranio, tornano a farsi sentire proclami anticoloniali e ultimatum imperiali. Mentre la Francia si ritira, Russia e Cina avanzano.

 
di Daniel Gatti, da brecha.com.uy
 
Il 26 luglio, un Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria (CNSP) ha rovesciato il presidente del Niger Mohamed Bazoum, appena una settimana prima che il paese africano celebrasse il 63° anniversario dell’indipendenza dalla Francia. 

Una “nuova indipendenza” dalla stessa potenza è stato uno degli slogan dei ribelli, che hanno immediatamente denunciato gli accordi di sicurezza con Parigi, chiesto il ritiro della base aerea e dei circa 1.500 militari francesi di stanza nel paese e sospeso le esportazioni di uranio verso l’ex metropoli coloniale.
 
La Francia ha risposto che avrebbe ignorato queste decisioni (“solo il governo legittimo del Niger può prenderle”, ha dichiarato il ministero della Difesa) e che avrebbe mantenuto la sua base e le sue truppe. Ha inoltre annunciato la sospensione dei cosiddetti aiuti allo sviluppo. L’UE nel suo complesso ha fatto lo stesso, così come gli Stati Uniti, che sono anche l’altro paese che mantiene basi militari e truppe (1.000 soldati) in Niger. 

Commentando la cessazione della cooperazione statunitense, il presidente della giunta nigerina, il generale Omar Tchiani, ha ironizzato: “Che si tengano gli aiuti e li diano ai milioni di senzatetto negli Stati Uniti, perché la solidarietà comincia in casa”. Sommati, gli “aiuti allo sviluppo” occidentali rappresentano ancora una grande percentuale del PIL nigerino, che è tra i più bassi al mondo. Usati come leva per esercitare pressioni sul governo, gran parte di essi sono stati destinati a progetti che hanno avvantaggiato principalmente le aziende occidentali; altri aiuti si sono persi nei meandri della corruzione o sono andati alle élite locali.

L’Africa divisa di fronte al colpo di stato 

Alcune scene all’indomani del colpo di stato sono state quelle di uno sradicamento post-coloniale, con un’evacuazione frettolosa e disordinata dei cittadini dal potere dominante (Parigi è rimasta tale in Niger, come in gran parte dell’Africa dopo la decolonizzazione negli anni ’60 e ’70). 

E ci sono state altre scene: folle riunite a sostegno del rovesciamento di Bazoum – presidente in carica dall’inizio del 2021 dopo elezioni denunciate all’epoca come fraudolente – attacchi all’ambasciata francese, innalzamento di bandiere russe. 

Nelle capitali dell’Europa occidentale e negli Stati Uniti le reazioni sono state unanimi: si tratterebbe dell’ennesimo colpo di stato del tipo che si ripete periodicamente nell’Africa mal governata e ingovernabile, e di un attacco intollerabile alla stabilità e alla pace nella regione, che favorirebbe l’ascesa del jihadismo.
 
Il presidente francese Emmanuel Macron, con i suoi consueti toni monarchici e persino imperiali, ha dichiarato che Parigi “non tollererà alcun attacco ai suoi cittadini e ai suoi interessi” e, qualora si verificasse, la sua reazione sarà “immediata e implacabile”

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) era divisa tra una maggioranza di paesi disposti a intervenire militarmente per reintegrare il deposto Bazoum (con Nigeria, Benin, Costa d’Avorio e Senegal come punte di diamante) e una minoranza contraria alla guerra. Tra questi ultimi Paesi, il Mali e il Burkina Faso – ex colonie francesi che recentemente hanno espulso nuovamente le truppe francesi dal loro territorio in seguito a colpi di stato militari – hanno dichiarato che, se ci fosse un intervento contro il Niger, lo prenderebbero come una dichiarazione di guerra contro di loro. 

La Guinea e, al di fuori dell’Ecowas, il Ciad e l’Algeria, anch’essi un tempo colonizzati da Parigi, hanno appoggiato l’abbinamento. Il Sudafrica, esterno alla comunità ma grande potenza regionale, si è posto nel mezzo, in una sorta di “né intervento né colpo di stato”.
 
La data dell’ultimatum è passata, ma finora non sono state dispiegate truppe nell’area. Lunedì 7, il governo di Macron aveva nuovamente avvertito il CNSP nigeriano di “prendere sul serio” la possibilità di un intervento e il Niger, che ha chiuso il suo spazio aereo, ha denunciato che c’era già una decisione di “invadere” il paese. Un giorno dopo, Radio France International ha riferito che la forza d’intervento comprenderà circa 25.000 uomini, metà dei quali provenienti dalla Nigeria, che la comanderà. 

Ma, allo stesso tempo, la diplomazia era al lavoro. Martedì 8, i funzionari della giunta nigeriana hanno ricevuto a Niamey Victoria Nuland, sottosegretario di stato per gli Affari politici, il numero due della diplomazia statunitense. “È stata una conversazione estremamente franca ma molto difficile, con pochi progressi. Abbiamo dato loro diverse opzioni per il ritorno all’ordine costituzionale, ma ho avuto l’impressione che non le abbiano prese in considerazione”, ha detto. 

L’Ecowas si riunirà giovedì 17 agosto nella capitale nigeriana Abuja per “riesaminare la situazione”.

Neocolonialismo e jihadismo

Le manifestazioni a sostegno del golpe a Niamey sono state organizzate da un movimento chiamato M62, che riunisce diverse centrali sindacali e una ventina di organizzazioni della società civile nigerina che, pochi mesi prima della rivolta, avevano già chiesto lo smantellamento delle basi militari straniere. “Il nostro movimento”, ha dichiarato Abdourahmane Ide, membro della direzione dell’M62, al quotidiano italiano Il Manifesto del 1° agosto 2023, “è nato qualche anno fa per protestare prima contro il governo di Mahamadou Issoufou e poi contro quello di Bazoum, per la sua politica economica e soprattutto per la presenza di soldati stranieri nel paese. Dopo la fine dell’operazione Barkhane in Mali [nel 2022], diverse migliaia di soldati francesi sono arrivati in Niger per unirsi a quelli già presenti, cosa per noi inaccettabile”.

Ide ha spiegato che l’esercito nigerino è sufficiente per “far rispettare la sicurezza nazionale” e che, quando si tratta di combattere i fondamentalisti islamici di Al Qaeda, dello stato Islamico e di Boko Haram, che si sono diffusi in tutto il Sahel, l’operazione francese Barkhane si è rivelata totalmente inefficace. 

In Niger, Burkina Faso e Mali c’è persino chi ritiene che le truppe francesi siano complici del jihadismo e che lo abbiano usato come copertura per perpetuare la loro presenza in queste terre e saccheggiarne le risorse”, ha scritto Rémi Carayol, un giornalista che a marzo ha pubblicato su Le Monde Diplomatique un’ampia inchiesta sugli interventi militari francesi nel suo cortile africano, Le Mirage sahélien: la France en guerre en Afrique (“Il miraggio saheliano: la Francia in guerra in Africa”).

A pensarla così è Alassane Sawadogo, coordinatore del Fronte burkinabé per la difesa della patria. “Come si spiega che, con i mezzi a loro disposizione, i francesi non siano riusciti a sconfiggere i gruppi armati”, si chiede, durante gli otto anni dell’Operazione Barkhane? L’anno scorso il Mali ha accusato la Francia di armare i jihadisti alle Nazioni Unite, ha ricordato Carayol. 

Senza arrivare a tanto, l’Ide nigeriano pensa anche che la lotta al fondamentalismo musulmano sia stata un’ottima scusa per francesi e americani “per creare basi militari in Niger con la complicità dei governi nazionali e per saccheggiare le risorse del sottosuolo”, ha dichiarato a Il Manifesto. Ha aggiunto che il suo movimento mira a “collaborare con il Mali e il Burkina Faso che, da quando hanno espulso i francesi [tra l’anno scorso e quest’anno] e si sono alleati con i russi, hanno visto migliorare le loro condizioni di vita. I russi non ci hanno sfruttato come i francesi, e per combattere il pericolo del fondamentalismo islamico è anche più conveniente affidarsi a loro” che agli occidentali.

In Mali, Burkina Faso, Guinea e Repubblica Centrafricana, sono soprattutto la Russia, ma anche la Cina, ad aver sostituito Francia e Stati Uniti come potenze egemoniche, dal punto di vista economico, commerciale e militare. I paramilitari russi di Wagner si muovono liberamente in questi paesi e starebbero svolgendo un ruolo centrale nella lotta al jihadismo. 

Secondo il canale televisivo arabo Al Jazeera, la giunta nigeriana ha chiesto formalmente aiuto a Wagner in caso di attacco occidentale. Carayol non crede, tuttavia, come non credono diversi ricercatori africanisti consultati dal portale francese Mediapart, che dietro il colpo di Stato in Niger ci sia Mosca. Anche se gli fa comodo.

Lampadine francesi e nigerine

Arginare l’influenza russa e assicurarsi il controllo di ricchezze come l’uranio, molto più di qualsiasi preoccupazione per il “consolidamento della democrazia” nella regione, sono tra i principali fattori che incoraggerebbero un intervento militare contro il Niger, condotto e ordinato da paesi occidentali e attuato da soldati africani. Il Niger è il settimo produttore mondiale di uranio, metallo fondamentale per il funzionamento delle centrali nucleari, essenziali per l’approvvigionamento energetico di paesi come la Francia, la cui matrice energetica è essenzialmente nucleare (70%).

Fino a poco tempo fa, il Niger era il primo fornitore di uranio della Francia (nel 2022 è stato soppiantato dal Kazakistan, primo produttore mondiale di uranio) e il quarto fornitore dell’Unione Europea. 

Una società francese (Orano, ex-Areva) controlla la produzione del minerale sul suolo nigeriano. Fino al 2014, in base agli accordi di “cooperazione” firmati tra Parigi e Niamey, la società pagava solo una royalty del 5,5% sull’uranio prodotto nelle miniere nigeriane. Da allora, paga il 12%. 

Una cifra comunque irrisoria per un’azienda il cui reddito è più del doppio di quello del Niger, un paese in cui meno del 20% della popolazione ha accesso all’elettricità, ma il cui uranio contribuisce ad accendere una lampadina su tre in Francia. 

Ciliegina sulla torta: quando i prezzi dell’uranio sul mercato internazionale scendono, Orano interrompe la produzione. La storica francese Camille Lefebvre, direttrice di ricerca presso il Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi, specializzata nell’occupazione coloniale del Niger alla fine del XIX secolo, ha dichiarato a Mediapart che la Francia si preoccupa ben poco delle conseguenze ambientali e sanitarie di questa operazione mineraria, di cui è la principale beneficiaria.

Gli accordi anti migranti

Da quando è stato eletto presidente, Mohamed Bazoum è stato un fedele alleato dell’Occidente, e in particolare della Francia, ha scritto lo specialista d’Africa Philippe Leymarie su Le Monde Diplomatique mercoledì 2

Dopo la rottura del Burkina Faso e del Mali con Parigi, il Niger era finora, insieme al Ciad, l’unico dei dieci paesi della regione del Sahel ad essere favorevole alla permanenza delle truppe francesi. 

Con la liquidazione, lo scorso novembre, dell’Operazione Barkhane, istituita nel 2014 da Parigi per combattere l’insurrezione islamista nell’area, Niamey era diventata il cuore di una sorta di Barkhane 2, con la sua base aerea da cui decollavano droni e jet da combattimento e con i suoi 1.500 soldati. 

Il Niger era anche un solido alleato economico dell’Occidente, uno status che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden aveva espressamente riconosciuto a Bazoum lo scorso dicembre. E, per l’Unione Europea, era un paese chiave nei suoi sforzi per contenere l’immigrazione africana ai suoi confini. 

Oggi in Niger – “paese di arrivo, transito e partenza di rifugiati”, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni – sono presenti circa 300.000 rifugiati, provenienti soprattutto dalla Nigeria. 

Per l’UE si tratta di tenerli lontani dal suo “cortile di casa”, e a tal fine ha firmato con Niamey lo stesso tipo di accordi che ha firmato con altri paesi al di fuori della Fortezza Europa.

L’impero che non vuole morire

Dopo aver perso, una dopo l’altra, le sue circa venti colonie africane tra il 1958 e la fine del decennio successivo, Parigi ha ricomposto un sistema di relazioni con il suo cortile che ha dato vita a quella che è diventata nota come FrançAfrique, una sorta di sovrastruttura neocoloniale dotata di strumenti politici ed economici, accordi di sicurezza e meccanismi monetari. 

La maggior parte delle sue ex colonie ha aderito a questo sistema, in base al quale la Francia si riservava il diritto di intervenire militarmente per garantire la “stabilità” dei suoi alleati. Da almeno un paio di decenni, a Parigi si dice che l’Africa francese appartiene al passato e che il paese sta costruendo un nuovo tipo di rapporto con le sue ex colonie, presumibilmente più rispettoso della loro autonomia.

Ma non è affatto così, come ha sottolineato Amzat Boukari-Yabara, dottore in storia e attivista africanista, tra i tanti. “Manca ancora il certificato di morte della FrançAfrique”, ha dichiarato il ricercatore a Mediapart. “Il caso del Niger è probabilmente più significativo di quello del Mali o del Burkina Faso, poiché è stato presentato come un alleato stabile di Parigi, un catenaccio di sicurezza nel Sahel e un partner nelle politiche migratorie dell’Unione Europea”

Con la sua posizione geografica, il Niger svolge un ruolo centrale nel sistema di dominio francese nella subregione, e il colpo di stato di fine luglio “è servito ai militari francesi per rafforzare la tesi di un effetto domino da evitare” per scongiurare il contagio verso Ciad, Costa d’Avorio, Congo, Togo, Camerun e Gabon, ha aggiunto lo storico. 

La Francia ha sempre affrontato le relazioni con il proprio cortile dal punto di vista della difesa dei propri interessi, economici o militari, e si è preoccupata poco della realtà di questi paesi, soprattutto della loro estrema povertà, che è in gran parte il risultato della colonizzazione, ha affermato Boukari-Yabara.

“Questo ha generato odio, risentimento e ribellioni”, controllate dall’intervento militare e grazie alla complicità delle élite locali, osserva Camille Lefebvre. “Per dieci anni, la Francia è stata in guerra in questo paese e in questa regione senza aver fatto alcuno sforzo per capire cosa stesse succedendo” e confondendo ulteriormente le acque, ha denunciato la storica. 

In tutto il Sahel, ha detto Boukari-Yabara, “stiamo ancora vivendo le conseguenze dell’intervento in Libia” di oltre un decennio fa, guidato dagli Stati Uniti e con la partecipazione di truppe francesi, britanniche ed europee, che ha portato alla profonda destabilizzazione della regione. 

“C’è anche una forma di arroganza profondamente colonialista esemplificata dalle dichiarazioni di Macron sulla fertilità delle donne nigeriane come causa dell’incapacità di sviluppo del paese. Si tratta di vecchi luoghi comuni che riappaiono e che non portano esattamente i nigeriani ad amare la Francia”.

I militari francesi – ma non solo loro, anche gran parte della leadership politica – sono ancora impregnati dell’idea che, se se ne andranno, gli africani andranno incontro alla catastrofe e saranno in balia del jihadismo. Non percepiscono nemmeno, sottolinea Lefebvre, che la stessa presenza militare straniera, cioè la loro, “può essere un elemento che rafforza l’influenza degli islamisti”

E che dire del passato coloniale, osserva lo storico, autore nel 2021 di L’Empire qui ne veut pas mourir: une histoire de la Françafrique (“L’Impero che non vuole morire: una storia della Françafrique”). Fanno finta che il passato non conti più, ma in Niger, come in tutto il Sahel, gli africani “portano nei loro corpi, nella loro memoria, e trasmettono di generazione in generazione gli orrori dell’omicidio di massa, dello stupro di massa” che hanno segnato sessant’anni o più di dominio imperiale.

La rabbia verso i propri governi – predatori o complici della predazione – unita al rifiuto del neocolonialismo e alla presenza di basi militari straniere, ha portato a questa nuova realtà di ribellioni a catena nel cortile di casa della Francia, osserva Lefebvre. Anche se il vecchio impero non vuole vederlo.

Ernest Mandel, sulla dialettica della nazione e della lotta di classe

Ernest Mandel in due immagini giovanili

Leggendo qua e là le operette morali di tanti “pacifisti per procura”, di tanti trotsko-pacifisti spaventati dalle armi agli ucraini, dedichiamo i seguenti ampi stralci di un lungo articolo di Ernest Mandel, pubblicato per la prima volta in francese alla fine del 1972 sulla rivista belga “Mai”, a tutti quei marxisti che sono affascinati dal pacifismo, a tutti quegli “ultrainternazionalisti” che sono spaventati da “nazionalismo ucraino” ma non vedono il nazionalismo grande russo, a coloro che sono mossi da un “antinazionalismo” che non ha nulla di progressista, a tutti coloro che pensano che gli schiavi debbano dare l’esempio di pacifismo (le sottolineature sono nostre).

di Ernest Mandel, tradotto dal sito contra-xreos.gr

Solo partendo dalla centralità della lotta di classe si può spiegare lo sviluppo del nazionalismo. Tuttavia, il fatto che la teoria del materialismo storico attribuisca alla lotta di classe un posto primario nella storia non significa che la lotta di classe sia l’unico fattore della storia. 

Infatti, in momenti diversi della storia altri fattori possono diventare primari. Ma ogni volta che ci chiediamo perché altri fattori possono diventare primari, siamo ricondotti alla questione della lotta di classe. 

Lo sviluppo del nazionalismo è uno di questi casi.

L’origine della nazione nella società borghese

La questione nazionale nasce dalla lotta di classe. L’identificazione della questione nazionale con l’esistenza di uno stato, di un gruppo etnico, di un gruppo tribale o di un’associazione comunale o territoriale è un completo abuso di linguaggio. 

L’Impero Romano non era un esempio di entità nazionale più di quanto lo fosse il Sacro Romano Impero del Medioevo. L’Inghilterra non era una nazione nel XII o XIII secolo per la buona ragione che una parte significativa della classe dirigente parlava una lingua diversa da quella del popolo e aveva un’origine diversa: erano i Normanni che avevano conquistato l’Inghilterra.

Secondo il punto di vista marxista, la nazione è il prodotto della lotta di una classe particolare, la borghesia moderna, la prima classe nella storia a dare vita a una nazione. Essa ha creato una nazione dal punto di vista economico perché ha richiesto un unico mercato nazionale. 

Per garantire l’unità di questo mercato nazionale, ha eliminato ogni barriera precapitalistica, semifeudale, corporativa e regionale alla libera circolazione delle merci. L’unità nazionale fu creata anche da un punto di vista politico-culturale, perché si basava sul principio della sovranità popolare – un principio che si opponeva alla legittimità della monarchia, dell’aristocrazia o della chiesa – quindi proprio per mobilitare le masse contro le vecchie strutture feudali.

Il concetto di nazione è emerso con le grandi rivoluzioni democratico-borghesi. La prima grande rivoluzione democratico-borghese della storia ebbe luogo nei Paesi Bassi. Fu la rivolta nazionale contro il re di Spagna iniziata nelle Fiandre, che fu sconfitta lì ma ebbe successo nei Paesi Bassi, che diedero vita alla prima nazione moderna con una coscienza nazionale basata su un’infrastruttura capitalista. 

Lo stesso processo è stato osservato successivamente in Gran Bretagna, in Francia con la Rivoluzione francese, in Spagna, Germania, Italia, Polonia, Irlanda, ecc. In ognuno di questi processi gli interessi materiali alla base del concetto di nazione non sono certo motivo di mistero o di speculazione. 

In quel periodo della sua storia, cioè quando era ancora rivoluzionaria e progressista, la stessa borghesia non si sottrae e afferma le cose senza mezzi termini. Se si leggono i proclami della Gironda (che all’epoca era il partito più borghese e più nazionalista della Rivoluzione francese, molto più nazionalista dei giacobini, dato che erano loro a spingere per la continuazione della guerra, non i giacobini) si vedrà la connessione tra questi fattori. 

E, poiché nel 1790 siamo già in un periodo più avanzato rispetto all’Olanda del XVI secolo o agli Stati Uniti del 1776, c’è una terza questione: la competizione commerciale tra la borghesia industriale-artigianale francese e quella inglese. 

Secondo gli storici della Rivoluzione francese, in particolare la scuola di Lefebvre, questa rivalità ha avuto un ruolo molto più importante nelle guerre della Rivoluzione e dell’Impero. Queste guerre non furono semplicemente una lotta tra la borghesia francese contro le altre potenze europee, più o meno controrivoluzionarie, che intervennero per difendere i privilegi dell’aristocrazia francese e della famiglia reale.

La nazione nasce da una specifica lotta di classe, quella della borghesia contro il feudalesimo e le forze semi-feudali precapitalistiche. Il ruolo svolto dalla monarchia assoluta in questo contesto non può essere ignorato. 

Nel caso della Francia è abbastanza chiaro. Il nazionalismo incarnato da una figura come Luigi XIV non è ancora nazionalismo nel senso moderno del termine, ma è un pre-nazionalismo dinastico, nel senso che la monarchia assoluta prefigura un cambiamento nell’equilibrio di potere tra aristocrazia e borghesia. 

Cosa succede quando lo stato borghese, la rivoluzione borghese, trionfa? 

La lotta di classe ovviamente non si ferma, anche se la borghesia vorrebbe che si fermasse in questo momento. Quando la lotta di classe riprende slancio dopo la vittoria della borghesia, si sposta di conseguenza. La lotta delle classi sconfitte si sposta verso la sfera della sovrastruttura. […]

Il proletariato e le rivoluzioni democratico-borghesi in Europa

Mentre la lotta di classe con le forze precapitalistiche si sposta verso la sfera sovrastrutturale, il baricentro della lotta di classe si sposta verso la lotta tra borghesia e proletariato. Proprio in questo momento, Marx scriveva già nel 1847 (molto presto; secondo il suo stesso schema storico, potremmo dire addirittura prematuramente, un punto a cui faremo riferimento più avanti), che “il proletariato non ha nazione”, il che significa che nella direzione di un’organizzazione operaia il nazionalismo o il concetto di nazione non devono avere la precedenza sulla solidarietà internazionale della classe operaia.

Abbiamo detto “prematuramente” perché il Manifesto comunista proclama un principio storico che in realtà rappresenta una previsione che non corrispondeva ancora alla realtà immediata. 

Infatti, solo un anno dopo la stesura del Manifesto comunista, gli stessi Marx ed Engels parteciparono in Germania a una lotta di classe che era anche una lotta nazionale. Essi dichiararono la lotta per l’unificazione della Germania, per la creazione di un’unica e indivisibile repubblica tedesca, uno degli obiettivi centrali della Rivoluzione del 1848. 

Da un punto di vista economico, sociale e culturale, e in particolare in termini di possibilità di crescita del movimento operaio e della lotta di classe, l’unificazione della Germania sarebbe stata un enorme passo avanti. 

La Rivoluzione del 1848 aveva come funzione storica il completamento dei compiti storici della rivoluzione democratico-borghese in cinque paesi europei: Germania, Italia, Austria, Ungheria e Polonia. Queste erano le nazioni inglobate nell’Impero austro-ungarico e in parte sovrapposte all’Impero zarista. 

Tuttavia, furono i controrivoluzionari i vincitori delle battaglie del 1848-49 a dover portare avanti il patto di questa rivoluzione. Fu Bismarck, incarnazione stessa dell’aristocrazia prussiana, a realizzare l’unificazione della Germania, non la borghesia, la piccola borghesia o la classe operaia. 

Lo stesso fenomeno, o qualcosa di molto simile, si verificò in Italia, dove il paese fu unificato dalla dinastia dei Savoia.

Marx, a quel tempo, fu costretto a prendere una posizione pratica che si discostava un po’ dal principio generale proclamato nel Manifesto comunista. Infatti, il principio che “il proletariato non ha nazione” si applicava solo al periodo in cui la rivoluzione borghese era già avvenuta. 

Nel mondo del 1848, Marx ed Engels si trovarono di fronte a una situazione di sviluppo combinato. In tutti i paesi europei in cui l’unificazione nazionale non fu portata avanti dalla borghesia, ciò avvenne perché, in un certo senso, questa borghesia era arrivata troppo tardi sulla scena storica, in un momento in cui la classe operaia era già abbastanza forte da svolgere un ruolo politico indipendente. 

La paura della borghesia di aiutare il processo rivoluzionario era maggiore del suo desiderio di portare a termine il compito dell’unificazione nazionale. In altre parole, in tutti questi paesi era all’ordine del giorno un processo di rivoluzione permanente.

Inoltre, è in questo momento e in questo particolare contesto che nel 1850, per la prima volta nella storia del pensiero marxista, Marx ricorre alla formula della rivoluzione permanente. 

Gli operai tedeschi devono iniziare a sostenere la lotta per l’unificazione del paese, per la vittoria della democrazia borghese. Ma non devono smettere di lottare quando questa classica vittoria della democrazia borghese sarà completata. 

Devono continuare a lottare per difendere i propri interessi come classe contrapposta alla borghesia. In nessun caso devono abbandonare la loro organizzazione indipendente, soprattutto in considerazione del fatto che era estremamente improbabile, se non impossibile, che anche questi compiti borghesi potessero essere portati a termine sotto la guida della borghesia. 

Era molto più probabile che fossero i giacobini piccolo-borghesi, con la loro spada sulle spalle della classe operaia, a portare a termine l’unificazione nazionale. 

Questo era un possibile modello per la Rivoluzione del 1848. Non si è concretizzato. Abbiamo pagato un prezzo molto alto per questo, perché tutte le forze conservatrici e reazionarie in Germania che si sono rafforzate sulla scia di quella sconfitta hanno influenzato il destino dell’Europa, compreso il destino dell’imperialismo tedesco e la nascita del nazismo.

La nazionalità è quindi il prodotto della lotta della borghesia contro le forze feudali e semi-feudali, mentre l’internazionalismo proletario è il prodotto della lotta della classe operaia contro il capitalismo. 

La borghesia ha sviluppato le forze produttive sulla base di mercati nazionali unificati. Le sue merci hanno conquistato e costituito il mercato mondiale. Ma questo mercato è ben lontano dall’essere unificato: non c’è stato uno sviluppo mondiale dell’industria capitalista. 

Il quadro della concorrenza capitalista era fondato sui mercati nazionali e sugli stati nazionali. I capitalisti hanno cercato di trasferire questa competizione alla classe operaia. Dal periodo della Prima Internazionale in poi, i lavoratori più consapevoli hanno risposto che era nel loro interesse, anche economico immediato, opporre la solidarietà internazionale dei lavoratori alla concorrenza globale dei capitalisti. 

Senza questa solidarietà, i lavoratori sono indifesi e verrebbero sistematicamente schiacciati dai capitalisti. L’unica contromisura efficace che potevano usare contro l’immensa superiorità del potere economico era la più ampia organizzazione comune e cooperativa possibile, non vincolata da confini nazionali, razza o gruppo etnico.

E così arriviamo al punto in cui il principio enunciato da Marx nel Manifesto comunista comincia ad avere un’applicazione universale: l’inizio dell’era imperialista. In questa fase la borghesia dei paesi dell’Europa occidentale e centrale, ma anche di paesi come il Giappone, la Russia e gli Stati Uniti, perde ogni possibilità di svolgere un ruolo storico progressivo e diventa una classe reazionaria e controrivoluzionaria, che sfrutta non solo la propria classe operaia, ma anche gran parte del mondo. 

I marxisti (in primo luogo Lenin e la scuola leninista, ma prima della Prima guerra mondiale tutti coloro che si definivano marxisti) consideravano senza riserve il nazionalismo di questa borghesia imperialista come strettamente reazionario. Lo stesso Kautsky e altri socialdemocratici prima del 1914 ripetevano che ogni volta che la borghesia imperialista usava le parole “difesa della patria” o “difesa della nazione”, ciò che intendeva veramente non era la difesa di un’entità culturale o dei diritti democratici in generale, ma piuttosto la difesa della propria posizione privilegiata nel mercato mondiale, la difesa dei superprofitti coloniali e la difesa delle possibilità di sovrasfruttamento nella parte del mondo che controllava.

Nulla di ciò che è accaduto dal 1914 in poi costituisce un motivo per mettere in discussione questa crisi. Se guardiamo alle analisi fatte da sociologi, storici ed economisti che hanno cercato di negare questa ovvia relazione causale tra sciovinismo, imperialismo e interessi materiali della borghesia imperialista, è evidente che hanno fallito completamente. 

Faccio un esempio. È forse il più notevole e allo stesso tempo il più triste. Mi riferisco al grande economista austriaco Schumpeter, che, a parte i marxisti, è uno dei più grandi pensatori del XX secolo. 

Schumpeter scrisse un brillante articolo per dimostrare che l’imperialismo e lo sciovinismo non hanno nulla a che fare con l’esistenza di una borghesia monopolistica. Come prova citava il fatto che il paese con i monopoli più forti non era né imperialista né sciovinista. Si riferiva agli Stati Uniti. 

Questo poteva sembrare convincente nel 1912; lo è meno oggi, quando l’argomento si presta al ridicolo. 

Rispetto a questo tipo di analisi, le previsioni dei marxisti e le definizioni di imperialismo date da Lenin nel pamphlet del 1917 reggono bene alla prova della storia, rivelandosi strumenti estremamente utili per spiegare ciò che è avvenuto nel XX secolo.

Rivoluzione socialista e nazionalismo

Questo significa che i marxisti, e in particolare i marxisti di scuola leninista, identificano ogni idea nazionale e ogni nazionalismo del XX secolo con il nazionalismo imperialista? 

Non è così. Un’idea, che esisteva già negli scritti di Marx negli ultimi dieci anni della sua vita, è stata estesa nel pensiero marxista dell’epoca imperialista e ha assunto una posizione assolutamente decisiva nella valutazione delle lotte nazionali del nostro secolo. 

Si tratta del semplice concetto che è necessario distinguere tra il nazionalismo degli oppressori e degli sfruttatori e il nazionalismo degli oppressi e degli sfruttati. 

Dico che questo concetto ha origini marxiste. Marx è stato il primo a sviluppare questo concetto in risposta a due questioni specifiche a cui ha attribuito un’importanza colossale in tutta la sua strategia di lotta di classe internazionale: la situazione polacca e quella irlandese.

Salteremo la questione polacca perché è la più familiare (anche se a volte è stata interpretata erroneamente come una tattica specifica contro il regime zarista e solo come una tattica senza alcun legame con un principio più fondamentale), ma la questione irlandese è molto più chiara e precisa a questo proposito. 

Già nel 1869-1870, in un articolo apparso sulla rivista belga L’internationale, Marx scrisse che finché gli operai inglesi non capiranno che è loro dovere aiutare gli irlandesi a ottenere l’indipendenza nazionale, non ci sarà alcuna rivoluzione socialista in Inghilterra. 

Lontano dall’idea che il nazionalismo inglese e irlandese siano equivalenti, che il nazionalismo di una nazione che opprime e quello di una nazione oppressa siano identici, Marx parte da questa distinzione fondamentale. E bisogna dire che la storia gli ha dato ragione. 

Se gli operai inglesi non si fossero identificati con la lotta irlandese, diceva, lo sfruttamento e l’oppressione della nazione irlandese da parte della borghesia inglese avrebbero fatto sì che gli operai irlandesi, destinati a formare una minoranza crescente del proletariato inglese, fossero esclusi dalla lotta di classe per lungo tempo. 

I lavoratori irlandesi non sarebbero stati in grado di formare un fronte unito contro la classe datoriale inglese, perché i lavoratori inglesi avrebbero di fatto formato un fronte unito con la propria borghesia contro la nazione irlandese.

È una caratteristica peculiare dell’epoca imperialista che la distinzione tra nazionalismo degli sfruttatori e nazionalismo degli sfruttati non allontana il proletariato dalla lotta per il potere statale e il socialismo, ma, al contrario, lo porta verso di essa. 

Questo perché nell’era imperialista i compiti di liberazione nazionale e di unificazione delle nazioni oppresse possono essere realizzati solo attraverso un’alleanza tra proletariato e contadini poveri, sotto la guida del proletariato, e attraverso l’instaurazione della dittatura del proletariato. 

La vittoria rivoluzionaria in un paese sottosviluppato sotto la guida del proletariato non può limitarsi alla realizzazione di compiti nazionali e democratici. Dà impulso a un processo di rivoluzione permanente, culmina nella realizzazione dei compiti storici della rivoluzione socialista e stimola un’estensione internazionale della rivoluzione ai paesi altamente industrializzati, dove il compito rivoluzionario immediato è la realizzazione del socialismo. 

Un personaggio come Guy Mollet tenta di dare lezioni di internazionalismo quando sostiene, come fece nel 1955 quando era primo ministro socialdemocratico della Francia imperialista, che nel XX secolo, in un’epoca in cui il concetto di nazionalismo era superato, gli algerini avevano sbagliato a chiedere l’indipendenza nazionale. Chiunque dotato di buon senso potrebbe rispondere al signor Guy Mollet:

“Molto bene. Il concetto di nazionalismo è superato! Perché allora non iniziate a rifiutare il concetto di nazione francese? Perché pretendete che una nazione oppressa superi prima questo nazionalismo, mentre voi, leader di uno stato coloniale e oppressivo, vi rifiutate di abbandonare il concetto di nazionalismo?”.

Lo schiavo non è obbligato a dare l’esempio. Non è allo schiavo che si deve chiedere di astenersi dalla violenza per liberarsi dalle catene. È necessario, se si vuole parlare con questo tono, cominciare a chiedere che il poliziotto, il proprietario di schiavi, cessi l’oppressione e smetta di difendere il suo sfruttamento con la forza. Poi possiamo parlare.

Rifiutiamo qualsiasi equiparazione tra il nazionalismo degli oppressi e il nazionalismo degli oppressori. Poiché il nazionalismo degli oppressori è ripugnante e non contribuisce al progresso ideologico o morale, è ancora più importante affrontare il nazionalismo degli oppressi con attenzione e specificità. 

Quando parliamo di popoli colonizzati (non solo quelli colonizzati dall’estero, quelli che vivono nelle colonie d’oltremare, ma anche quelli che vivono nelle colonie interne, come i neri negli Stati Uniti), quando vediamo la triste condizione in cui si trovano queste popolazioni oppresse, quando vediamo che sono vittime dell’oppressione economica, politica, morale e culturale, e che questa oppressione morale e culturale è molto spesso una sovrastruttura necessaria per il mantenimento dell’oppressione economica e politica, allora dobbiamo ripetere ciò che ha detto Trotsky. 

La nascita di una coscienza nazionale in una nazione oppressa, il tentativo di ottenere la liberazione non solo dall’imperialismo economico e politico, ma anche da quello culturale, è un primo passo sulla strada della realizzazione della dignità umana di ogni individuo e rappresenta quindi un enorme progresso per l’umanità.

Dobbiamo pensare a quale fosse la situazione degli schiavi neri nel XIX secolo. Dobbiamo ricordare come erano i lavoratori salariati neri dopo la guerra civile americana per capire che l’acquisizione della coscienza nazionale da parte di questo strato sovrasfruttato e oppresso rappresenta un enorme progresso. 

È un passo assolutamente inevitabile e necessario per rendere possibile quello successivo, la fusione delle nazioni oppresse di questa specie in un’unica umanità. 

L’internazionalismo tende alla fusione delle nazioni in una società mondiale senza classi. Ma questa fusione avverrà come risultato di un’uguaglianza precedentemente stabilita tra le nazioni. Finché le nazioni rimarranno diseguali, non vedremo mai scomparire la coscienza nazionale degli oppressi. 

Fortunatamente, nessuna forza è in grado di spegnere la scintilla della ribellione che non permetterà l’accettazione passiva dell’ingiustizia e della disuguaglianza.