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India (Bharat), il suo nome e la sua "rivoluzione mancata"

Nei giorni scorsi si è molto speculato sulla decisione del governo indiano di rivendicare che, a livello internazionale, il paese venga definito con il nome di Bhārat, suggerendo l’accantonamento del tradizionale termine India.


Narendra Modi

In realtà, nel paese, la “nuova” definizione è usata da sempre in quanto derivante dalla lingua sanscrita e usato fin dall’antichità per indicare la regione del Gange, il “fiume sacro” degli indù. Il termine India, invece, ha anch’esso un’origine sanscrita, ma indicava la regione dell’altro grande fiume della regione, l’Indo, che oggi però scorre per la quasi totalità del suo corso nel territorio del Pakistan.


Certamente, dunque, la scelta di Narendra Modi e del suo partito populista di estrema destra di prediligere questa definizione ha a che fare con il rinascente nazionalismo indiano e con la “ideologia” dell’hindutva, quel misto di razzismo e di integralismo religioso induista che nega il carattere multietnico e multireligioso del subcontinente indiano e che gli ha consentito di conquistare il 56% dei seggi del parlamento (anche se solo con il 37% dei voti).


Ma questa forse effimera considerazione terminologica, unitamente alla più sostanziale rilettura della Lettera aperta di Leone Trotsky ai lavoratori indiani del luglio 1939 (nella quale il dirigente rivoluzionario chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come, in presenza di uno scontro anche acutissimo tra imperialismi, ci si debba sempre basare sulle esigenze politiche e sociali dei popoli), mi ha spinto ad approfondire la storia recente del Bharat (o dell’India) che proprio qualche settimana fa ha festeggiato il 76° anniversario dell’indipendenza e in particolare la diffusa credenza secondo cui l’immenso paese è riuscito a liberarsi dal giogo coloniale inglese grazie alla strategia non violenta della “disobbedienza civile” sostenuta da Mohāndās Karamchand Gāndhī e dal suo Partito del Congresso.


Pierre Rousset

La storia mainstream ci dice che l’India si liberò dal colonialismo inglese grazie al movimento di disobbedienza civile diretto da Gandhi. Ma è vero? L’azione di massa non violenta è stata sufficiente a costringere l’esercito coloniale britannico ad abbandonare il paese e a rinunciare alla più importante colonia che restava all’impero inglese nel secolo scorso? Così ho letto (e pubblico qua sotto in italiano) l’intervista che Pierre Rousset, del sito europe-solidaire.org ha fatto, proprio ponendo queste domande, a Sushovan Dhar, attivista politico e sindacalista.

Sushovan Dhar

Pierre Rousset: L’indipendenza, la liberazione dal giogo coloniale britannico nel 1947, è stata effettivamente conquistata grazie al movimento di disobbedienza civile incarnato da Mohāndās Karamchand Gāndhī?

Sushovan Dhar: Per quanto riguarda il movimento di liberazione dell’India e la non violenza di Gandhi, si tratta di una versione esagerata e asettica della storia indiana, presentata dal Partito del Congresso e dagli storici liberali, soprattutto dopo l’indipendenza.


In realtà, i gruppi di resistenza armata furono molto potenti e diedero un contributo importante alla lotta per l’indipendenza dell’India. Il movimento era particolarmente forte in Bengala, Bihar, Uttar Pradesh (allora chiamato Provincia Unita) e Punjab. Inoltre, ci fu una serie di movimenti di massa armati guidati dalla sinistra: Telangana, Tebhaga e molte altre rivolte in diverse parti dell’India. Anche Bhagat Singh e i suoi compagni dell’Associazione socialista repubblicana dell’Hindustan giocarono un ruolo importante.


Il “sogno” della borghesia indiana

Anche alla vigilia dell’indipendenza, il famoso ammutinamento navale scosse il paese nel 1946. Non va dimenticato il ruolo svolto dall’Esercito nazionale indiano guidato da Subhash Chandra Bose.


Anche diversi movimenti operai e contadini facevano parte del Congresso. Sarebbe quindi sbagliato pensare che il Congresso rappresentasse solo la tradizione della non violenza. 


In realtà, Gandhi entrò in scena solo nel 1920 con il suo movimento di non cooperazione. Si trattava di un tentativo, non riuscito, di indurre il governo britannico a concedere l’autonomia, o swaraj, all’India. Tuttavia, il fallimento di questo movimento portò Gandhi a perdere il controllo sul Congresso. Infatti, le fazioni socialiste del partito, che comprendevano sezioni che non aderivano pienamente alla non-violenza di Gandhi, presero il controllo del partito. 


Lo stesso accadde nel 1934, quando Gandhi rinunciò alla disobbedienza civile. Se analizziamo la storia della lotta per la libertà in India, scopriamo che, fino al 1942, il movimento della non violenza di Gandhi non era in prima linea nella lotta per la libertà. La politica di Gandhi era in gran parte limitata ad azioni individuali (satyagraha).


Una manifestazione di Quit India

Nemmeno il movimento Quit India del 1942 può essere descritto come totalmente non violento. Se così fosse stato, la pressione sul governo imperiale sarebbe stata molto limitata. Molti gruppi di pressione si unirono al movimento. Non dimentichiamo che gli alti dirigenti del Congresso erano tutti in carcere quando fu lanciato il movimento Quit India. I leader di medio livello del partito che hanno avuto un ruolo di primo piano in questo movimento si sono poi uniti al Partito Socialista e non si sono impegnati nell’idea della non violenza in senso gandhiano.


P.R: Il movimento comunista indiano è stato importante. Ma non sembra aver giocato un ruolo importante nel 1946-1947?


S.D.: L’importanza del movimento comunista indiano divenne evidente a seguito delle cause intentate dalla potenza coloniale. Già negli anni Venti, i comunisti furono processati in una serie di casi di cospirazione.


MN Roy

I processi per la cospirazione di Peshawar (1922-1927): l’amministrazione britannica li avviò in cinque fasi contro 50 muhajir che avevano fondato il Partito comunista dell’India (PCI) a Tashkent nel 1920. Questi leader avevano ricevuto una formazione politica e militare a Tashkent, che faceva parte dell’ex Unione Sovietica, e all’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est (KUTV) di Mosca. La maggior parte dei muhajir erano khilafiti e avevano pianificato di recarsi in Turchia per combattere gli inglesi. Tuttavia, incontrarono Manabendra Nath (MN) Roy a Tashkent e insieme fondarono il primo Partito Comunista dell’India. Furono accusati di incitare “una rivoluzione proletaria contro gli oppressori imperialisti britannici per restituire la libertà alle masse” e incriminati in base all’articolo 121-A.


Il processo per la cospirazione comunista (bolscevica) di Kanpur (1924-25): fu avviato contro leader comunisti tra cui MN Roy, Shaukat Usmani, SA Dange, Muzaffar Ahmad, Ghulam Hussain, Singaravelu Chettiar e altri, molti dei quali appartenenti al gruppo di Tashkent e altri attivisti contadini e operai provenienti da diverse parti dell’India. I suddetti individui furono accusati in base all’articolo 121-A perché, secondo il governo britannico, stavano tentando di “privare il Re Imperatore della sua sovranità sull’India britannica, separando completamente l’India dalla Gran Bretagna imperialista attraverso una rivoluzione violenta”.


Il processo per la cospirazione di Meerut (1929-1933): questo processo fu il più importante per l’affermazione del Partito Comunista dell’India come partito della classe operaia e contadina. Per aver organizzato una protesta dei dipendenti delle ferrovie indiane e dell’industria tessile, diversi funzionari sindacali di tutta l’India furono arrestati, insieme a tre inglesi affiliati all’Internazionale Comunista, e processati. I leader erano Sohan Singh Josh, Muzzafar Ahmed, Philip Spratt, Shaukat Usmani e Shripad Amrit (SA) Dange. Sono stati condannati ai sensi del’articolo 121-A. La Grande Depressione portò a un’ondata di attività sindacale, organizzazione e scioperi nelle principali aree industriali indiane alla fine degli anni Venti, cui seguirono i processi di Meerut.


Purtroppo, il Partito Comunista dell’India non partecipò al movimento Quit India del 1942.


Che conseguenze ha avuto l’assenza del PCI?


Lasciò le masse nelle mani del Partito del Congresso. Il risultato fu un trasferimento di potere e non una rivoluzione sociale… Ha portato all’indipendenza della borghesia nazionale e non delle masse lavoratrici, che pure avevano svolto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza. È stata ottenuta a costo di lotte popolari in diverse parti del paese per quasi un secolo.


Ci furono possibilità di creare autogoverni locali in diverse parti dell’India (ad esempio, il governo indipendente della città di Tamralipta nel Bengala), ma l’assenza di una forte forza di sostegno – la leadership – lasciò che queste rivolte popolari accettassero gli ordini di Gandhi e si arrendessero.


Tuttavia, non dimentichiamo che le organizzazioni popolari di sinistra, in particolare i sindacati, hanno svolto un ruolo importante nel movimento Quit India. Le forze di sinistra di tradizione non-PC (il Revolutionary Socialist Party-RSP, il Revolutionary Communist Party of India-RCPI, il Bolshevik–Leninist Party of India, Ceylon and Burma-BLPI e altre) parteciparono al movimento con pieno vigore.


Pertanto, il 1942 non fu un movimento non violento né un movimento guidato da Gandhi. Tuttavia, la borghesia nazionale, che sostenne Gandhi per tutto il tempo, purtroppo emerse come unica vincitrice e giocò un ruolo importante nell’India post-indipendenza, plasmando il corso della storia indiana, dove le strutture fondamentali di sfruttamento e oppressione (casta, genere, ecc.) rimasero intatte anche dopo la fine del dominio coloniale. L’esperienza indiana è diventata un modello per la borghesia del Terzo Mondo, che è emersa come forza principale nella maggior parte del mondo decolonizzato.


Va aggiunto che porre le questioni della violenza e della non violenza come opposizioni binarie contribuisce a elevare le questioni metodologiche o tattiche al di sopra del contenuto politico della lotta.


Questo è vero non solo per la politica gandhiana, ma anche per i suoi contraltari, i movimenti armati marxisti, maoisti e di guerriglia in molte parti del mondo. Abbiamo visto più volte il fallimento di queste politiche.


Alcuni suggerimenti di lettura (in inglese)


India’s Struggle for Independence, Bipan Chandra, Mridula Mukherjee, Aditya Mukherjee, Sucheta Mahajan, and K. N. Panikkar, Penguin Random House, 1987

The Mahatma and the Ism, E. M. S. Namboodiripad, LeftWord, 2010 (la première publication en 1959)

Modern India 1885–1947, Sumit Sarkar, Palgrave Macmillan London, 1989

A History of Indian Freedom Struggle, E. M. S. Namboodiripad, Social Scientist Press, 1986

From Plassey to Partition and After: A History of Modern India, Sekhar Bandyopadhyay, Orient Longman, 2004

• An Open Letter to the Workers of India, Leon Trotsky, July 1939

Una settimana dopo, che cosa ci dicono le elezioni spagnole?

Ci sono vittorie elettorali che sono sconfitte e sconfitte elettorali che hanno il sapore della vittoria

di Fabrizio Burattini

Così come in Italia alla vigilia delle elezioni del 25 settembre dello scorso anno, anche in Spagna tutti davano per scontata la vittoria della destra.

In queste elezioni ci si aspettava un’impennata del blocco di destra, parallelamente a una débacle della sinistra, soprattutto dopo i risultati delle recenti elezioni comunali e regionali, in cui il PP aveva riconquistato Valencia e aveva guadagnato terreno a Madrid. La maggior parte dei sondaggi puntava nella stessa direzione e davano praticamente per scontato un governo di coalizione destra-estrema destra (PP-Vox).

Ma, a differenza di quanto è accaduto nel nostro paese, in Spagna i risultati concreti del voto del 23 luglio hanno clamorosamente smentito le previsioni. Tutti hanno dovuto riconoscere che la schiacciante vittoria della destra spagnola non è arrivata. 

Il Partido Popular (PP) della destra conservatrice è primo per voti e seggi, il virtuale vincitore, ma il suo leader, Alberto Núñez Feijóo, per cui i sondaggi prevedevano un ampio margine di vantaggio, è diventato il principale sconfitto della serata del 23 luglio, in quanto impossibilitato anche solo a tentare di costruire una compagine di governo attorno a sé. 

Invece, il grande vincitore sembra essere il presidente del consiglio uscente, Pedro Sánchez, uno che veniva dato per spacciato, anche se il suo partito, il Partido Socialista Obrero Espanol (PSOE), è stato il secondo più votato. 


L’incertezza nella formazione del governo


La costituzione postfranchista del 1978 prevede che le Cortes (le due camere che compongono il parlamento: il Congresso e il Senato) eleggano il presidente del governo con la maggioranza assoluta (176 voti) nella prima sessione oppure con la maggioranza semplice nella seconda.


Quel che è chiaro è che l’eventuale coalizione tra la destra e l’estrema destra di Vox che veniva data per vincente non ha né avrà i numeri: il PP ha eletto 137 deputati (+48), fagocitando quelli ottenuti da Ciudadanos nel 2019 (10) e cannibalizzando in parte quelli di Vox, che ne ha eletti 33 (-19), per un totale di 170 seggi a cui forse si aggiungerà il deputato eletto dalla Unión del Pueblo Navarro ma, molto probabilmente, non quello della Coalición Canaria (che ha già comunicato che non voterà a favore di un governo PP-Vox). Dunque un totale di 171-172 deputati.


Da parte sua, il PSOE ha eletto 121 deputati (+1), la coalizione Sumar, sua partner, ne ha eletti 31 (-7, perduti non tanto per una perdita di voti ma in larga parte a causa delle penalizzazioni dovute alla legge elettorale). Dunque, la coalizione governativa uscente “progressista” ha ottenuto 152 seggi, ma potrebbe arrivare a 164 con il più che probabile appoggio del Blocco nazionalista galiziano (un seggio), del Partito nazionalista basco (PNV, 5 seggi) e della sinistra basca indipendentista Bildu (6 seggi). 


La grande incognita, l’ago della bilancia, non tanto tra i due blocchi di destra e di centrosinistra ma piuttosto tra la possibile formazione di un nuovo governo e il ritorno alle elezioni, è il comportamento del movimento catalano indipendentista, composto da Esquerra Republicana de Catalunya (ERC, 7 seggi) e dalla formazione nazionalista conservatrice Junts per Catalunya (7 seggi).


Se i rappresentanti di questi partiti catalani voteranno a favore di Pedro Sánchez al primo turno, il governo si potrebbe fare, altrimenti non ci sarebbe una maggioranza sufficiente a governare e, a meno di accordi di “larga coalizione”, si tornerebbe e votare nell’autunno.


Il PNV chiede a Sanchez, in cambio del suo appoggio per la formazione del governo, di avanzare una proposta di “modello territoriale”, cioè un progetto a lungo termine di ampliamento delle autonomie per le nazionalità oppresse dal centralismo castigliano. Ma se le formazioni basche sono più vicine alla possibilità di un accordo con il PSOE, l’accordo con quelle catalane, con le incriminazioni che gravano sui loro leader per le vicende attorno al referendum per l’indipendenza del 2017 e con la rivendicazione dell’indizione di un nuovo referendum, sembre molto più difficile.


Bipartitismo traballante


In ogni caso, i risultati hanno completamente disatteso l’aspirazione del PP e del suo leader Feijóo, rafforzata dalle stime dei sondaggi, di ottenere voti sufficienti a consentire, fin dall’indomani del 23 luglio e sommando i deputati PP con quelli di estrema destra di Vox, una maggioranza assoluta dei seggi del Congresso. 


I risultati dei due blocchi, quello di destra (PP+Vox) e quello di centrosinistra (PSOE+Sumar) rivelano uno scenario nel quale la destra è cresciuta, ma meno del previsto (circa 771.000 voti in più), e il centrosinistra, lungi dal calare, è cresciuto anch’esso (+616.000 voti, in buona parte sottratti all’indipendentismo catalano), lasciando i due blocchi praticamente alla pari (11.125.340 voti per il blocco di destra; 10.774.608 voti per il blocco PSOE-Sumar).


Entrambi i blocchi sono composti da un partito di maggioranza (PP e PSOE) e uno di minoranza (Vox e Sumar). Questa nuova aritmetica ha una conseguenza immediata: come è accaduto nella scorsa legislatura (2019-2023), i prossimi governi in Spagna continueranno a essere governi di coalizione.


Si conferma che la Spagna non sta marciando verso un sistema bipartitico. La classe dominante spagnola sperava nel consolidamento del bipartitismo tra PP e PSOE, che in parte c’è stato (la somma dei voti ai due principali partiti che nel 2019 pesava per il 48% è arrivata ora al 64,8%), ma non in misura tale da mostrare immediatamente chi ha vinto e chi ha perso. 


La difficoltà del passaggio ad un sistema bipartitico si era già rivelata fin dalle elezioni del 2015, con l’emergere di Podemos e Ciudadanos. Oggi quei due partiti sono sostanzialmente spariti (Podemos ha corso come parte della coalizione Sumar e Ciudadanos non ha nemmeno presentato liste), ma il sistema bipartitico non si è affatto ricomposto. 


Inoltre la possibilità dei due principali partiti a dire la propria sulla formazione del governo è clamorosamente subordinata alle loro contrattazioni con le formazioni regionaliste e indipendentiste.

Ovviamente seguiremo le complesse alchimie che si stanno intrecciando a Madrid per la soluzione del rebus. 


A sinistra, la coalizione Sumar, guidata dalla seconda vicepresidente del governo uscente, Yolanda Díaz, si impone come forza di riferimento nello spazio a sinistra del PSOE. I risultati di Sumar (tre milioni di voti) non costituiscono la semplice continuazione di quelli di Podemos (o di Unidas Podemos); anzi, vanno analizzati come tentativo di riarticolazione di quello spazio, come risposta alla crisi interna delle precedente formazione, e alla coesistenza difficile tra Yolanda Díaz e Podemos, il cui fondatore, Pablo Iglesias, mantiene un rapporto teso con gran parte della leadership della nuova coalizione Sumar, e in particolare con la stessa Díaz.


La campagna elettorale della destra


Su che base la tendenza al trionfo della destra è stata smentita? 


La campagna elettorale era stata contrassegnata da un’offensiva molto forte della destra, che cercava di massimizzare la polarizzazione persino con la diffusione, sia da parte di Vox che del PP, di dati errati e di fake news, utilizzando lo stile manipolatorio tipico della destra su scala globale.


Anche il leader del PP, Núñez Feijóo, ritenuto espressione della corrente di “centro” del partito, ha adottato questo stile. La destra ha coniato il termine “sanchismo”, come espressione di una sinistra definita “radicale e autoritaria”, sperando di evocare un forte sentimento di repulsione nei confronti di Sánchez e della sua politica e, così, di raggruppare gli elettori conservatori e creare uno scenario il più possibile polarizzato. 


Utilizzando il sostegno a Sánchez da parte dei nazionalisti baschi di sinistra di Euskal Herria Bildu (EH Bildu), un sostegno relativo, dato che il partito si è astenuto sulla sua investitura nel 2020 e ha votato contro leggi chiave, come la riforma del lavoro, il PP (oltre ovviamente a Vox) ha continuato a definire il governo di centrosinistra come “illegittimo” e “antispagnolo”.


La destra, e in particolare la presidente della Comunità di Madrid, Isabel Díez Ayuso, leader dell’ala destra del PP, ha utilizzato a piene mani lo slogan “Que te vote Txapote” (Fatti votare da Txapote, Xabier García Gaztelu, alias Txapote, un ex dirigente della formazione indipendentista basca ETA, detenuto nelle carceri spagnole con l’accusa di “terrorismo”). 


Allo stesso modo, Sánchez è stato accusato di aver stretto un patto con i sostenitori dell’indipendenza catalana, a causa del sostegno di Esquerra Republicana de Catalunya e della grazia concessa ai leader del processo di indipendenza nel 2017.


Un manifesto della campagna 
per la libertà dei prigionieri sahraui

Ma questa etichettatura era palesemente in contrasto con la realtà: Sanchez, mesi fa, non ha esitato ad ospitare il vertice della NATO, né ad appoggiare militarmente l’Ucraina; è in stretto collegamento con la Commissione europea e con la sua presidente Ursula von der Leyen, ha fatto acordi con la monarchia marocchina per affossare il sogno di indipendenza del popolo sahraui. E la sua politica economico sociale, pur con qualche risultato parzialmente positivo per le condizioni del mondo del lavoro, è stata tutt’altro che “radicale”.


L’impostazione polarizzante impressa alla campagna elettorale dalla destra è stata raccolta anche da numerosi media e alcuni commentatori politici molto popolari, nel più puro stile della rete Fox dell’era Trump. 


Infine, nell’unico dibattito a cui Núñez Feijóo ha accettato di partecipare con un faccia a faccia con Sánchez, organizzato da emittenti televisive private, il candidato del PP ha assunto una posizione aggressiva e ha usato affermazioni basate su dati falsi ma propagandisticamente efficaci, mentre Sánchez è apparso in difficoltà nel difendersi.


Tutto questo ha provvisoriamente legittimato le errate previsioni dei sondaggi.


Il ribaltamento delle previsioni


Ma la radicalizzazione della destra da un lato e la moderazione del centrosinistra dall’altro sono state la chiave per spaventare o convincere gli indecisi, smobilitare o mobilitare, lasciando alla fine dei giochi uno scenario più uniforme del previsto. 


Così, il PP è stato trascinato da Vox verso l’estrema destra, tanto da riuscire a sottrarre al suo alleato il 20% dei suoi consensi, e ha adottato molti degli argomenti e degli stili dell’estrema destra. A sinistra, al contrario, il PSOE è riuscito a spostare Sumar su posizioni sostanzialmente socialdemocratiche, sempre più lontane dal radicalismo originario di Podemos.


La campagna demagogica, estremista e provocatoria della destra non ha certo contribuito a sottrarre voti al PSOE, nonostante lo scontento che pure serpeggiava nella sua base elettorale. E le prime misure sguaiatamente reazionarie delle municipalità targate PP e Vox non hanno certo aiutato a mobilitare l’elettorato moderato di centro, mentre hanno sollecitato ad andare ai seggi anche quella parte di elettorato democratico deluso dall’esperienza del governo Sánchez.


Così, a differenza di quel che è accaduto in Italia nel settembre scorso, il centrosinistra spagnolo è riuscito a resistere all’assalto fino a ribaltare la sensazione generale che la sconfitta dei progressisti fosse scontata. 


Sia Sánchez sia Yolanda Díaz hanno iniziato a rivolgersi a diversi media ostili, cosa che ha permesso loro non solo di essere ascoltati direttamente, ma anche di neutralizzare gli attacchi più beceri. Inoltre, l’ex presidente del consiglio del PSOE José Luis Rodríguez Zapatero si è battuto per mobilitare l’elettorato progressista del PSOE, scongiurando, almeno parzialmente, il rischio che una parte di esso rinunciasse a votare.


La capacità di Sánchez di promuovere un’immagine “simpatica” di sé, assieme al timore di un governo di coalizione sempre più collocato all’estrema destra, spiega in parte il cambiamento di tendenza. Negli ultimi giorni di campagna, il rifiuto del candidato del PP (giustificato da un “mal di schiena”) di partecipare sul canale statale TVE ad un dibattito a quattro (PP, Vox, PSOE, Sumar), che si è dunque ridotto a un confronto tra Pedro Sánchez, Yolanda Díaz e Santiago Abascal, ha ulteriormente rafforzato l’immagine di estrema destra della coalizione prevista come vincitrice.


Ora i riflettori sono sulla Catalogna, che si trova in una situazione particolare e contraddittoria. Nella zona, il Partit Socialista di Catalogna (PSC) è tornato ad essere il primo partito e il movimento indipendentista catalano, nelle sue diverse espressioni, ha ottenuto il peggior risultato complessivo degli ultimi quarant’anni, perdendo la metà dei voti rispetto alle elezioni del 2019.


Ma, d’altro canto, oggi si trova paradossalmente in una posizione di forza per essere, come abbiamo detto, l’ago della bilancia per il futuro politico dello stato spagnolo. 


I sostenitori dell’indipendenza sembrano intenzionati a sfruttare questa forza e sono sul tavolo questioni come, in prospettiva, la modifica del quadro delle relazioni tra lo stato spagnolo e la Catalogna (e dunque anche tutte le altre nazionalità anticentraliste) verso l’istituzionalizzazione di una Spagna plurinazionale, e, nell’immediato, il ritiro delle accuse contro il leader di Junts, l’ex presidente della Catalogna, Carles Puigdemont, esiliato in Belgio, e la richiesta di un nuovo referendum sull’autodeterminazione. E’ improbabile che Sánchez accetti una delle due condizioni, soprattutto la seconda.

Ma i dirigenti dell’indipendentismo sanno che un’eventuale ripetizione delle elezioni non farà che penalizzarli ancora di più, spingendo ulteriormente l’elettorato a polarizzarsi sulle due coalizioni.


Il che lascia aperte tutte le possibilità.