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India (Bharat), il suo nome e la sua "rivoluzione mancata"

Nei giorni scorsi si è molto speculato sulla decisione del governo indiano di rivendicare che, a livello internazionale, il paese venga definito con il nome di Bhārat, suggerendo l’accantonamento del tradizionale termine India.


Narendra Modi

In realtà, nel paese, la “nuova” definizione è usata da sempre in quanto derivante dalla lingua sanscrita e usato fin dall’antichità per indicare la regione del Gange, il “fiume sacro” degli indù. Il termine India, invece, ha anch’esso un’origine sanscrita, ma indicava la regione dell’altro grande fiume della regione, l’Indo, che oggi però scorre per la quasi totalità del suo corso nel territorio del Pakistan.


Certamente, dunque, la scelta di Narendra Modi e del suo partito populista di estrema destra di prediligere questa definizione ha a che fare con il rinascente nazionalismo indiano e con la “ideologia” dell’hindutva, quel misto di razzismo e di integralismo religioso induista che nega il carattere multietnico e multireligioso del subcontinente indiano e che gli ha consentito di conquistare il 56% dei seggi del parlamento (anche se solo con il 37% dei voti).


Ma questa forse effimera considerazione terminologica, unitamente alla più sostanziale rilettura della Lettera aperta di Leone Trotsky ai lavoratori indiani del luglio 1939 (nella quale il dirigente rivoluzionario chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come, in presenza di uno scontro anche acutissimo tra imperialismi, ci si debba sempre basare sulle esigenze politiche e sociali dei popoli), mi ha spinto ad approfondire la storia recente del Bharat (o dell’India) che proprio qualche settimana fa ha festeggiato il 76° anniversario dell’indipendenza e in particolare la diffusa credenza secondo cui l’immenso paese è riuscito a liberarsi dal giogo coloniale inglese grazie alla strategia non violenta della “disobbedienza civile” sostenuta da Mohāndās Karamchand Gāndhī e dal suo Partito del Congresso.


Pierre Rousset

La storia mainstream ci dice che l’India si liberò dal colonialismo inglese grazie al movimento di disobbedienza civile diretto da Gandhi. Ma è vero? L’azione di massa non violenta è stata sufficiente a costringere l’esercito coloniale britannico ad abbandonare il paese e a rinunciare alla più importante colonia che restava all’impero inglese nel secolo scorso? Così ho letto (e pubblico qua sotto in italiano) l’intervista che Pierre Rousset, del sito europe-solidaire.org ha fatto, proprio ponendo queste domande, a Sushovan Dhar, attivista politico e sindacalista.

Sushovan Dhar

Pierre Rousset: L’indipendenza, la liberazione dal giogo coloniale britannico nel 1947, è stata effettivamente conquistata grazie al movimento di disobbedienza civile incarnato da Mohāndās Karamchand Gāndhī?

Sushovan Dhar: Per quanto riguarda il movimento di liberazione dell’India e la non violenza di Gandhi, si tratta di una versione esagerata e asettica della storia indiana, presentata dal Partito del Congresso e dagli storici liberali, soprattutto dopo l’indipendenza.


In realtà, i gruppi di resistenza armata furono molto potenti e diedero un contributo importante alla lotta per l’indipendenza dell’India. Il movimento era particolarmente forte in Bengala, Bihar, Uttar Pradesh (allora chiamato Provincia Unita) e Punjab. Inoltre, ci fu una serie di movimenti di massa armati guidati dalla sinistra: Telangana, Tebhaga e molte altre rivolte in diverse parti dell’India. Anche Bhagat Singh e i suoi compagni dell’Associazione socialista repubblicana dell’Hindustan giocarono un ruolo importante.


Il “sogno” della borghesia indiana

Anche alla vigilia dell’indipendenza, il famoso ammutinamento navale scosse il paese nel 1946. Non va dimenticato il ruolo svolto dall’Esercito nazionale indiano guidato da Subhash Chandra Bose.


Anche diversi movimenti operai e contadini facevano parte del Congresso. Sarebbe quindi sbagliato pensare che il Congresso rappresentasse solo la tradizione della non violenza. 


In realtà, Gandhi entrò in scena solo nel 1920 con il suo movimento di non cooperazione. Si trattava di un tentativo, non riuscito, di indurre il governo britannico a concedere l’autonomia, o swaraj, all’India. Tuttavia, il fallimento di questo movimento portò Gandhi a perdere il controllo sul Congresso. Infatti, le fazioni socialiste del partito, che comprendevano sezioni che non aderivano pienamente alla non-violenza di Gandhi, presero il controllo del partito. 


Lo stesso accadde nel 1934, quando Gandhi rinunciò alla disobbedienza civile. Se analizziamo la storia della lotta per la libertà in India, scopriamo che, fino al 1942, il movimento della non violenza di Gandhi non era in prima linea nella lotta per la libertà. La politica di Gandhi era in gran parte limitata ad azioni individuali (satyagraha).


Una manifestazione di Quit India

Nemmeno il movimento Quit India del 1942 può essere descritto come totalmente non violento. Se così fosse stato, la pressione sul governo imperiale sarebbe stata molto limitata. Molti gruppi di pressione si unirono al movimento. Non dimentichiamo che gli alti dirigenti del Congresso erano tutti in carcere quando fu lanciato il movimento Quit India. I leader di medio livello del partito che hanno avuto un ruolo di primo piano in questo movimento si sono poi uniti al Partito Socialista e non si sono impegnati nell’idea della non violenza in senso gandhiano.


P.R: Il movimento comunista indiano è stato importante. Ma non sembra aver giocato un ruolo importante nel 1946-1947?


S.D.: L’importanza del movimento comunista indiano divenne evidente a seguito delle cause intentate dalla potenza coloniale. Già negli anni Venti, i comunisti furono processati in una serie di casi di cospirazione.


MN Roy

I processi per la cospirazione di Peshawar (1922-1927): l’amministrazione britannica li avviò in cinque fasi contro 50 muhajir che avevano fondato il Partito comunista dell’India (PCI) a Tashkent nel 1920. Questi leader avevano ricevuto una formazione politica e militare a Tashkent, che faceva parte dell’ex Unione Sovietica, e all’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est (KUTV) di Mosca. La maggior parte dei muhajir erano khilafiti e avevano pianificato di recarsi in Turchia per combattere gli inglesi. Tuttavia, incontrarono Manabendra Nath (MN) Roy a Tashkent e insieme fondarono il primo Partito Comunista dell’India. Furono accusati di incitare “una rivoluzione proletaria contro gli oppressori imperialisti britannici per restituire la libertà alle masse” e incriminati in base all’articolo 121-A.


Il processo per la cospirazione comunista (bolscevica) di Kanpur (1924-25): fu avviato contro leader comunisti tra cui MN Roy, Shaukat Usmani, SA Dange, Muzaffar Ahmad, Ghulam Hussain, Singaravelu Chettiar e altri, molti dei quali appartenenti al gruppo di Tashkent e altri attivisti contadini e operai provenienti da diverse parti dell’India. I suddetti individui furono accusati in base all’articolo 121-A perché, secondo il governo britannico, stavano tentando di “privare il Re Imperatore della sua sovranità sull’India britannica, separando completamente l’India dalla Gran Bretagna imperialista attraverso una rivoluzione violenta”.


Il processo per la cospirazione di Meerut (1929-1933): questo processo fu il più importante per l’affermazione del Partito Comunista dell’India come partito della classe operaia e contadina. Per aver organizzato una protesta dei dipendenti delle ferrovie indiane e dell’industria tessile, diversi funzionari sindacali di tutta l’India furono arrestati, insieme a tre inglesi affiliati all’Internazionale Comunista, e processati. I leader erano Sohan Singh Josh, Muzzafar Ahmed, Philip Spratt, Shaukat Usmani e Shripad Amrit (SA) Dange. Sono stati condannati ai sensi del’articolo 121-A. La Grande Depressione portò a un’ondata di attività sindacale, organizzazione e scioperi nelle principali aree industriali indiane alla fine degli anni Venti, cui seguirono i processi di Meerut.


Purtroppo, il Partito Comunista dell’India non partecipò al movimento Quit India del 1942.


Che conseguenze ha avuto l’assenza del PCI?


Lasciò le masse nelle mani del Partito del Congresso. Il risultato fu un trasferimento di potere e non una rivoluzione sociale… Ha portato all’indipendenza della borghesia nazionale e non delle masse lavoratrici, che pure avevano svolto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza. È stata ottenuta a costo di lotte popolari in diverse parti del paese per quasi un secolo.


Ci furono possibilità di creare autogoverni locali in diverse parti dell’India (ad esempio, il governo indipendente della città di Tamralipta nel Bengala), ma l’assenza di una forte forza di sostegno – la leadership – lasciò che queste rivolte popolari accettassero gli ordini di Gandhi e si arrendessero.


Tuttavia, non dimentichiamo che le organizzazioni popolari di sinistra, in particolare i sindacati, hanno svolto un ruolo importante nel movimento Quit India. Le forze di sinistra di tradizione non-PC (il Revolutionary Socialist Party-RSP, il Revolutionary Communist Party of India-RCPI, il Bolshevik–Leninist Party of India, Ceylon and Burma-BLPI e altre) parteciparono al movimento con pieno vigore.


Pertanto, il 1942 non fu un movimento non violento né un movimento guidato da Gandhi. Tuttavia, la borghesia nazionale, che sostenne Gandhi per tutto il tempo, purtroppo emerse come unica vincitrice e giocò un ruolo importante nell’India post-indipendenza, plasmando il corso della storia indiana, dove le strutture fondamentali di sfruttamento e oppressione (casta, genere, ecc.) rimasero intatte anche dopo la fine del dominio coloniale. L’esperienza indiana è diventata un modello per la borghesia del Terzo Mondo, che è emersa come forza principale nella maggior parte del mondo decolonizzato.


Va aggiunto che porre le questioni della violenza e della non violenza come opposizioni binarie contribuisce a elevare le questioni metodologiche o tattiche al di sopra del contenuto politico della lotta.


Questo è vero non solo per la politica gandhiana, ma anche per i suoi contraltari, i movimenti armati marxisti, maoisti e di guerriglia in molte parti del mondo. Abbiamo visto più volte il fallimento di queste politiche.


Alcuni suggerimenti di lettura (in inglese)


India’s Struggle for Independence, Bipan Chandra, Mridula Mukherjee, Aditya Mukherjee, Sucheta Mahajan, and K. N. Panikkar, Penguin Random House, 1987

The Mahatma and the Ism, E. M. S. Namboodiripad, LeftWord, 2010 (la première publication en 1959)

Modern India 1885–1947, Sumit Sarkar, Palgrave Macmillan London, 1989

A History of Indian Freedom Struggle, E. M. S. Namboodiripad, Social Scientist Press, 1986

From Plassey to Partition and After: A History of Modern India, Sekhar Bandyopadhyay, Orient Longman, 2004

• An Open Letter to the Workers of India, Leon Trotsky, July 1939

Il multipolarismo, dove la sinistra incontra la destra

La difesa del “multipolarismo” da parte della sinistra contro l’ordine unipolare guidato dagli Stati Uniti ha di fatto difeso l’autoritarismo in tutto il mondo. La sinistra deve riflettere sul modo in cui il suo linguaggio permette questi regimi.

di Kavita Krishnan, attivista femminista marxista indiana, attivista del Partito comunista dell’India [ML] per tre decenni e componente del suo Politbureau fino a quando non ha lasciato il partito all’inizio del 2022, a causa di divergenze venute a galla sulla scia della tiepida solidarietà del partito per l’Ucraina, da theindiaforum.in

Il multipolarismo è la bussola che orienta la comprensione delle relazioni internazionali da parte della sinistra. Tutte le correnti della sinistra in India e nel mondo hanno a lungo sostenuto la necessità di un mondo multipolare in contrapposizione a quello unipolare dominato dagli Stati Uniti imperialisti.

Allo stesso tempo, il multipolarismo è diventato la chiave di volta del linguaggio comune dei fascismi e degli autoritarismi globali. È un grido di battaglia per i despoti, che serve a mascherare la loro guerra alla democrazia come una guerra all’imperialismo. Il ricorso al multipolarismo per mascherare e legittimare il dispotismo è immensamente favorito dall’approvazione a gran voce da parte della sinistra globale del multipolarismo come gradita espressione della democratizzazione antimperialista delle relazioni internazionali.

Inquadrando la sua risposta ai confronti politici all’interno o tra gli stati nazionali come un’opzione a somma zero tra l’approvazione del multipolarismo o dell’unipolarismo, la sinistra perpetua una finzione che, anche nel suo momento migliore, è sempre stata fuorviante e imprecisa. 

Oggi, però, questa finzione è decisamente pericolosa, in quanto serve unicamente come espediente narrativo e drammatico per lanciare fascisti e autoritari in ruoli lusinghieri.

Le sfortunate conseguenze dell’impegno della sinistra per un multipolarismo privo di valori sono illustrate in modo molto chiaro nel caso della sua risposta all’invasione russa dell’Ucraina. La sinistra globale e indiana ha legittimato e amplificato (in misura diversa) il discorso fascista russo, difendendo l’invasione come una sfida multipolare all’imperialismo unipolare guidato dagli Stati Uniti.

La libertà di essere fascisti

Il 30 settembre 2022, annunciando l’annessione illegale di quattro province ucraine, il presidente russo Vladimir Putin ha spiegato il significato di multipolarismo e democrazia nel suo quadro ideologico. 

Ha definito la multipolarità come libertà dai tentativi delle élite occidentali di stabilire i propri valori “degradati” di democrazia e diritti umani come valori universali; valori “estranei” alla grande maggioranza delle persone in Occidente e altrove.

Lo stratagemma retorico di Putin è stato quello di dichiarare che i concetti di ordine basato su regole, democrazia e giustizia non sono altro che imposizioni ideologiche e imperialiste dell’Occidente, che servono solo come pretesto per violare la sovranità di altre nazioni.

Mentre Putin si è lasciato andare alla giustificata indignazione per il lungo elenco di crimini commessi dai paesi occidentali – tra cui colonialismo, imperialismo, invasioni, occupazioni, genocidi e colpi di stato – è stato facile dimenticare che il suo non era un discorso che chiedeva giustizia, risarcimenti e la fine di questi crimini. 

Infatti, affermando il fatto evidente che i governi occidentali non hanno “alcun diritto morale di intervenire o di pronunciare una parola sulla democrazia”, Putin ha abilmente tagliato fuori le persone dall’equazione.

I popoli colonizzati sono quelli che hanno lottato e continuano a lottare per la libertà. I popoli delle nazioni imperialiste scendono in piazza per chiedere democrazia e giustizia e per protestare contro il razzismo, le guerre, le invasioni e le occupazioni commesse dai loro stessi governi. Ma Putin non ha sostenuto queste persone.

Piuttosto, Putin ha segnalato alle forze “affini” di tutto il mondo – movimenti politici di estrema destra, suprematisti bianchi, razzisti, antifemministi, omofobi e transfobici – di sostenere l’invasione, come parte di un progetto vantaggioso per tutti loro: rovesciare l’“egemonia unipolare” dei valori universali della democrazia e dei diritti umani e “ottenere la vera libertà, una prospettiva storica”.

Putin utilizza una “prospettiva storica” di sua scelta per sostenere una versione suprematista di una “civiltà-paese” russa in cui le leggi disumanizzano le persone LGBT e in cui i riferimenti a eventi storici sono criminalizzati in nome del “rafforzamento della sovranità (della Russia)”

Egli afferma la libertà della Russia di negare e sfidare le norme democratiche e le leggi internazionali definite “universalmente” da organismi come le Nazioni Unite. 

Il progetto di “integrazione eurasiatica”, che Putin proietta come sfida multipolare all’UE “imperialista” e all’unipolarismo occidentale, può essere correttamente compreso solo come parte del suo progetto ideologico e politico esplicitamente antidemocratico. 

Un’altra questione è che l’aspetto della competizione tra Stati Uniti e Russia come Grandi Potenze è complicato dal progetto politico condiviso rappresentato da Trump negli Stati Uniti e da Putin in Russia. 

Un linguaggio comune 

Il linguaggio del “multipolarismo” e dell'”anti-imperialismo” trova risonanza anche nel totalitarismo iper-nazionalista cinese. 

Una dichiarazione congiunta di Putin e Xi a febbraio 2022, poco prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, affermava il loro comune rifiuto degli standard universalmente accettati di democrazia e diritti umani, a favore di definizioni culturalmente relativiste di questi termini: “Una nazione può scegliere le forme e i metodi di attuazione della democrazia che meglio si adattano alle sue […] tradizioni e caratteristiche culturali uniche […] Spetta solo al popolo del paese decidere se il suo Stato è uno Stato democratico”

Queste idee sono state esplicitamente accreditate dalla dichiarazione sugli “sforzi compiuti dalla parte russa per stabilire un giusto sistema multipolare di relazioni internazionali”.

Per Xi, “i ‘valori universali’ della libertà, della democrazia e dei diritti umani sono stati usati per causare la disintegrazione dell’Unione Sovietica, i drastici cambiamenti nell’Europa orientale, la ‘rivoluzione colorate’ e le ‘primavere arabe’, tutti causati dall’intervento degli Stati Uniti e dell’Occidente”

Qualsiasi movimento popolare che richieda diritti umani e democrazia ampiamente accettati viene trattato come una rivoluzione colorata filoimperialista intrinsecamente illegittima.

La richiesta di una democrazia che soddisfi gli standard universali, sollevata dai manifestanti del movimento cinese contro la repressione in nome di “Zero-Covid”, è significativa alla luce degli standard culturalmente relativisti favoriti dal governo cinese. 

Un Libro bianco del 2021, intitolato “L’approccio della Cina alla democrazia, alla libertà e ai diritti umani”, ha definito i diritti umani come “felicità” grazie al benessere e ai benefici, non come protezione dal potere sfrenato del governo. In questa definizione è stato clamorosamente omesso il diritto di mettere in discussione il governo, di dissentire o di organizzarsi liberamente.

Definire la democrazia “specifica della Cina” come “buon governo” e i diritti umani come “felicità” permette a Xi di giustificare la soppressione dei musulmani uiguri. 

La sua affermazione è che i campi di concentramento per “rieducare” queste minoranze e rimodellare la loro pratica dell’Islam in modo che sia “di orientamento cinese”, hanno fornito un “buon governo” e una maggiore “felicità”.

Anche tra la leadership indù-suprematista indiana si avvertono forti echi del discorso fascista e autoritario di un “mondo multipolare” – dove le potenze civilizzatrici risorgeranno per riaffermare la loro vecchia gloria imperialista e l’egemonia della democrazia liberale lascerà il posto al nazionalismo di destra.

Mohan Bhagwat, capo del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Organizzazione patriottica naziopnale, un partito indu paramilitare di estrema destra, ndt), ha affermato con ammirazione che “in un mondo multipolare” che sfida gli Stati Uniti, “la Cina è ora sorta. Non si preoccupa di ciò che il mondo pensa di lei. Sta perseguendo il suo obiettivo… (tornare all’espansionismo dei suoi passati imperatori)”. Allo stesso modo, “nel mondo multipolare attuale, anche la Russia sta facendo il suo gioco. Sta cercando di progredire sopprimendo l’Occidente”.

Anche il Primo Ministro Narendra Modi ha ripetutamente attaccato i difensori dei diritti umani come anti-indiani, pur dichiarando che l’India è la “madre della democrazia”. Una nota diffusa dal governo collega la democrazia indiana alla “cultura e civiltà indù”, alla “teoria politica indù”, allo “Stato indù” e alle tradizionali (e spesso regressive) regole di casta che applicano le gerarchie di casta e di genere.

Queste idee riflettono anche i tentativi di incorporare i suprematisti indù in una rete globale di forze di estrema destra e autoritarie. 

L’ideologo fascista russo Aleksandr Dugin (molto simile a Putin) afferma che “il multipolarismo […] sostiene il ritorno alle basi civili di ogni civiltà non occidentale (e il rifiuto della) democrazia liberale e dell’ideologia dei diritti umani”.

L’influenza va in entrambe le direzioni. Dugin privilegia la gerarchia delle caste come modello sociale (Dugin 2012). Intrecciando direttamente i valori della Manusmriti braminica (un testo base dell’induismo, ndt) con il fascismo internazionale, Dugin vede “l’attuale ordine delle cose”, rappresentato da “diritti umani, anti-gerarchia e correttezza politica” come “Kali Yuga”: una calamità che porta con sé la fusione delle caste (una miscegenazione che a sua volta è causata dalla libertà delle donne, anch’essa un aspetto calamitoso del Kali Yuga) e lo smantellamento della gerarchia. 

Ha descritto il successo elettorale di Modi come una vittoria del “multipolarismo”, una gradita affermazione dei “valori indiani” e una sconfitta dell’egemonia della “democrazia liberale e dell’ideologia dei diritti umani”.

Eppure la sinistra continua a usare il “multipolarismo” senza tradire la minima consapevolezza di come i fascisti e gli autoritari esprimano i propri obiettivi con lo stesso linguaggio.

Il “realismo” internazionale, tra sinistra e destra

Il linguaggio di Putin sulla “multipolarità” è destinato a risuonare con la sinistra globale. La sua confortante familiarità sembra impedire alla sinistra – che ha sempre fatto un ottimo lavoro nel mettere a nudo le bugie alla base delle pretese di “salvare la democrazia” dei guerrafondai imperialisti statunitensi – di applicare la stessa lente critica alla retorica anticoloniale e antimperialista di Putin.

È strano che la sinistra abbia fatto proprio il linguaggio della polarità. Il discorso della polarità appartiene alla scuola realista delle relazioni internazionali. Il realismo vede l’ordine globale in termini di competizione tra gli obiettivi di politica estera, che si presume riflettano “interessi nazionali” oggettivi, di una manciata di “poli” – Grandi Potenze o aspiranti tali. 

Il realismo è fondamentalmente incompatibile con la visione marxista, che si basa sulla comprensione del fatto che l'”interesse nazionale”, lungi dall’essere un fatto oggettivo e neutrale dal punto di vista dei valori, è definito soggettivamente dal “carattere politico (e quindi morale) degli strati di leadership che modellano e prendono le decisioni di politica estera” (Vanaik 2006).

Ad esempio, Vijay Prashad, uno dei più importanti entusiasti e sostenitori del multipolarismo nella sinistra globale, osserva con favore che “Russia e Cina cercano la sovranità, non il potere globale”. Non menziona come queste potenze interpretino la sovranità come libertà di rendere conto agli standard universali di democrazia, diritti umani e uguaglianza.

Un recente saggio del Segretario Generale del Partito Comunista dell’India Marxista-Leninista (CPI [ML]) Dipankar Bhattacharya presenta argomentazioni simili, in quanto spiega la decisione del partito di bilanciare la solidarietà con l’Ucraina con la sua preferenza per il multipolarismo e la sua priorità nazionale di resistere al fascismo in India. 

La formulazione di Bhattacharya è che “A prescindere dal carattere interno delle potenze globali in competizione, un mondo multipolare è certamente più vantaggioso per le forze e i movimenti progressisti di tutto il mondo nella loro ricerca di un’inversione delle politiche neoliberali, di una trasformazione sociale e di un avanzamento politico”

In sintesi, il CPI [ML] accoglie con favore l’ascesa di grandi potenze non occidentali, anche se sono internamente fasciste o autoritarie, perché ritiene che queste potenze offrano una sfida multipolare all’unipolarismo statunitense.

Questa formulazione di sinistra non offre alcuna resistenza ai progetti fascisti/autoritari che si descrivono come campioni della “multipolarità” antimperialista. Anzi, offre loro un mantello di legittimità.

Bhattacharya percepisce il sostegno incondizionato alla resistenza ucraina come difficile da conciliare con la “priorità nazionale” di “combattere il fascismo in India”

L’idea che i doveri di solidarietà internazionale della sinistra debbano essere subordinati alla sua percepita “priorità nazionale” è un caso di internazionalismo marxista infangato dall'”interesse nazionale” realista, applicato questa volta non solo agli Stati nazionali ma agli stessi partiti nazionali di sinistra.

Ma in che modo la solidarietà con l’Ucraina contro l’invasione fascista è in contrasto con la lotta al fascismo in India? Il ragionamento di Bhattacharya è forzato, tortuoso e obliquo. Fa una deviazione sconcertante sulla necessità per i movimenti comunisti di guardarsi dai pericoli di “dare priorità all’internazionale a scapito della situazione nazionale”

Bhattacharya attribuisce, in modo impreciso, l’errore del Partito Comunista dell’India del 1942, che rimase distante dal movimento Quit India, al fatto di aver dato priorità all’impegno internazionale per la sconfitta del fascismo nella Seconda Guerra Mondiale, rispetto all’impegno nazionale per il rovesciamento del colonialismo da parte della Gran Bretagna, che allora era un alleato nella guerra contro il fascismo.

L’ingiustizia ovunque è una minaccia alla giustizia ovunque

L’unico scopo plausibile di questa deviazione sembra essere quello di fare un’analogia con l’attuale situazione della sinistra indiana rispetto all’invasione dell’Ucraina. Poiché l’alleanza principale del regime di Narendra Modi in politica estera sarebbe con l’Occidente guidato dagli Stati Uniti, si suggerisce che la lotta contro il fascismo di Modi sarebbe indebolita se la Russia, un rivale “multipolare” degli Stati Uniti, venisse sconfitta dalla resistenza ucraina.

I regimi tirannici interpretano il sostegno alle popolazioni che vi resistono come sostegno alle “interferenze” straniere/imperialiste nella “sovranità” di quei regimi.

Questo calcolo contorto oscura il semplice fatto che una sconfitta dell’invasione fascista di Putin in Ucraina rafforzerebbe coloro che lottano per sconfiggere il fascismo di Modi in India. Allo stesso modo, una vittoria dei popoli che resistono alla tirannia maggioritaria di Xi ispirerebbe quelli che resistono alla tirannia maggioritaria di Modi in India.

Nelle parole di Martin Luther King Jr, “L’ingiustizia ovunque è una minaccia alla giustizia ovunque”

Indeboliamo le nostre lotte democratiche, quando scegliamo di vedere le lotte degli altri attraverso una lente campista distorsiva. La nostra non è una scelta a somma zero tra unipolarismo e multipolarismo. In ogni situazione, le nostre scelte sono chiare: possiamo sostenere la resistenza e la sopravvivenza degli oppressi o preoccuparci della sopravvivenza dell’oppressore.

Quando la sinistra si assume il “dovere” di sostenere la sopravvivenza dei regimi “multipolari” (in Russia, Cina e, per alcuni esponenti della sinistra, anche in Iran), viene meno al suo dovere effettivo di sostenere le persone che lottano per sopravvivere al genocidio da parte di questi regimi. 

Qualsiasi beneficio che gli Stati Uniti potrebbero trarre dal loro sostegno materiale o militare a tali lotte, è di gran lunga superiore al beneficio della sopravvivenza per le persone che altrimenti rischierebbero il genocidio. 

Faremmo bene a ricordare che il sostegno materiale e militare degli Stati Uniti all’URSS nella Seconda Guerra Mondiale ha contribuito alla sconfitta della Germania nazista.

I regimi tirannici interpretano il sostegno alle popolazioni che gli resistono come un sostegno alle “interferenze” straniere o imperialiste nella “sovranità” di quei regimi. Quando noi della sinistra facciamo lo stesso, ci rendiamo complici e apologeti di quelle tirannie. Coloro che stanno lottando per la vita o per la morte hanno bisogno che noi rispettiamo la loro autonomia e sovranità per decidere che tipo di sostegno morale/materiale/militare chiedere/accettare/rifiutare. 

La bussola morale della sinistra globale e indiana ha bisogno di un urgente reset, in modo da poter correggere la sua rotta disastrosa che la vede parlare la stessa lingua dei tiranni.