ONU, tra l’ipocrisia USA e l’insolenza israeliana

    di Gilbert Achcar, professore al Soas, University of London, da alquds.co.uk

    È davvero sorprendente che Washington si sia astenuta dal votare la risoluzione proposta dai dieci membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza (Algeria, Ecuador, Guyana, Giappone, Malta, Mozambico, Sierra Leone, Slovenia, Corea del Sud e Svizzera) e adottata dal plenum lunedì 25 marzo. (nella foto in alto la rappresentante USA all’ONU si astiene)

    Questa risoluzione è del tutto coerente con la posizione americana, che respinge la richiesta di un cessate il fuoco permanente. Chiede solo “un cessate il fuoco immediato per il mese di Ramadan” (di cui è già trascorsa una buona metà e termina a sconda dei paesi il 9 o il 10 aprile), aggiungendo a mo’ di auspicio che questo dovrebbe “portare a un cessate il fuoco duraturo”.

    Le parti che hanno redatto la risoluzione hanno fatto uno sforzo particolare per utilizzare espressioni e concetti che potessero soddisfare Washington, in modo che il testo conciliasse la posizione americana con quella araba. Ad esempio, la risoluzione condanna “tutti gli attacchi contro i civili e gli oggetti civili, così come tutte le violenze e le ostilità contro i civili, e tutti gli atti di terrorismo”, ricordando che “la presa di ostaggi è proibita dal diritto internazionale”.

    Questa volta la risoluzione è stata tale che la stessa Gran Bretagna ha potuto votare a favore, dopo essersi fino ad allora allineata alla posizione americana, osando solo contraddirla astenendosi una volta mentre Washington usava il suo veto.

    Quanto al fatto che l’amministrazione americana abbia giustificato l’astensione di lunedì sottolineando che la risoluzione non fa il nome di “Hamas”, si tratta di un pretesto del tutto vano che non può ingannare nessuno, dal momento che la risoluzione non fa nemmeno il nome di Israele, nemmeno quando si parla della necessità di aprire la strada agli aiuti internazionali!

    In effetti, evitare le due designazioni dirette è stato uno dei compromessi su cui si basa la risoluzione. La verità è che l’astensione di Washington aveva lo scopo di cercare di placare il risentimento israeliano, in modo che Washington non desse l’impressione di partecipare al consenso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su una risoluzione che Israele rifiuta.

    Sabato scorso, il ministro degli Esteri del Likud-sionista Israel Katz aveva già accusato le Nazioni Unite di essere diventate, sotto l’attuale segretario generale Antonio Guterres, “un organismo antisemita e anti-israeliano che protegge e incoraggia il terrore”! Con questo, la consueta politica di Israele di etichettare ogni critica alle sue politiche come anti-ebraica ha raggiunto un nuovo livello di decadenza e volgarità.

    Quanto all’amministrazione del presidente statunitense Joe Biden, ha raggiunto un nuovo livello di ipocrisia. Continua a rifornire Israele di armi e munizioni, come ha iniziato a fare fin dall’inizio della guerra sionista genocida contro Gaza, così da diventare pienamente complice dell’attuale aggressione, che di fatto è la prima guerra completamente congiunta tra Stati Uniti e stato sionista.

    Mentre Benjamin Netanyahu ha cancellato la visita a Washington di una delegazione guidata da uno dei suoi consiglieri per gli affari strategici (visita che, secondo le ultime notizie verrebbe “riprogrammata” per altre data, ndt), lunedì è arrivato a Washington il ministro della “Difesa” del suo governo, Yoav Galant, che ovviamente è anche un membro del ristretto gabinetto di guerra formato all’inizio dell’attuale aggressione.

    La sua visita è molto più importante di quella annullata da Netanyahu. Al suo arrivo nella capitale americana, Gallant ha dichiarato che le sue forze armate invaderanno inevitabilmente Rafah. È venuto a consultare l’amministrazione Biden su come preparare l’invasione di Rafah, in modo che entrambe le parti possano affermare di aver tenuto conto delle considerazioni umanitarie, che sono diventate una questione molto sensibile per l’amministrazione statunitense.

    Va da sé che questa sensibilità non deriva da alcun attaccamento alle considerazioni umanitarie in sé. Come potrebbe, se Washington ha partecipato in pieno all’uccisione di circa quarantamila persone e al ferimento di decine di migliaia, compresa un’alta percentuale di feriti gravi [Vedi in calce all’articolo uno stralcio del rapporto di Francesca Albanese del 25 marzo] alla distruzione della Striscia di Gaza in una misura senza precedenti nella storia, data l’entità dei danni causati nel giro di pochi mesi; e allo spostamento della stragrande maggioranza della popolazione della Striscia di Gaza nella regione di Rafah?

    Le casse di aiuti alimentari che Washington sta facendo cadere dal cielo sono gesti che sono ben lontani dallo scagionare l’amministrazione americana come vorrebbe, poiché tutti i responsabili degli aiuti umanitari internazionali hanno confermato che si tratta di un modo costoso e inefficace di eliminare la carestia mortale che si sta diffondendo tra i gazesi.

    Si punta invece il dito contro le migliaia di camion allineati sul lato egiziano del confine, a cui Israele impedisce l’ingresso, quando basterebbe che Washington facesse pressione sullo stato sionista minacciando seriamente di interrompere il suo sostegno militare per costringerlo ad aprire le porte agli aiuti via terra, l’unica via realmente in grado di ridurre la crisi umanitaria e di prevenire la diffusione e l’aggravarsi della carestia.

    Quanto al porto che stanno costruendo sulla costa di Gaza, nemmeno questo è in grado di risolvere la crisi. Inoltre, abbiamo tutto il diritto di chiederci quali siano le reali intenzioni dietro di esso, poiché potrebbe essere usato per incoraggiare i gazesi a emigrare se le porte del Sinai rimarranno chiuse per loro.

    In effetti, il governo sionista-fascista intende completare la seconda Nakba sradicando ancora una volta i palestinesi dalla terra di Palestina, questa volta dalla Striscia di Gaza. L’intenzione originaria era di espellerli nel Sinai, ma il rifiuto di questa prospettiva da parte del regime di Abdel Fattah al-Sisi (per motivi di sicurezza, non umanitari, ovviamente) li ha portati a considerare l’espulsione in varie parti del mondo. A questo scopo, secondo la testimonianza dello stesso Netanyahu, hanno stabilito contatti con diversi paesi.

    Recentemente, in Israele si sono levate voci che suggeriscono di concentrare gli abitanti di Gaza in un angolo del deserto del Negev, al confine con l’Egitto, in modo che lo stato sionista possa annettere la Striscia di Gaza come terra di maggior valore, anche per via della sua costa.

    Tutto ciò ha preoccupato Washington, che ha invitato Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra e oppositore di Netanyahu e del governo Likud, per discutere con lui della questione. Washington ha ricevuto anche Gallant, anch’egli oppositore di Netanyahu, ma proveniente dal partito Likud.

    L’amministrazione statunitense è preoccupata per la proposta di espulsione, che contraddice la sua posizione che chiede di mantenere il quadro di Oslo e che l’“Autorità palestinese” riprenda la supervisione della Striscia di Gaza, che è principalmente sotto controllo israeliano, e che potrebbe essere accompagnata dal dispiegamento di forze regionali o internazionali.

    Gilbert Achcar: Questa è la traduzione della mia rubrica settimanale sul quotidiano londinese in lingua araba Al-Quds al-Arabi. L’articolo è apparso online il 26 marzo e nell’edizione cartacea il 27 marzo. La versione francese è pubblicata sul mio blog Mediapart.

    Stralci del rapporto di Francesca Albanese a Ginevra

    Francesca Albanese – Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 – nel suo rapporto del 25 marzo, che è servito da base per il suo intervento alla riunione del Comitato per i diritti umani a Ginevra il 26 marzo, scrive al paragrafo 62:

    Ciononostante, le autorità israeliane hanno etichettato chiese, moschee, scuole, strutture delle Nazioni Unite, università, ospedali e ambulanze come legate ad Hamas, al fine di rafforzare la percezione di una popolazione caratterizzata come largamente “complice” e quindi passibile di essere uccisa. Un numero significativo di civili palestinesi viene definito scudo umano semplicemente perché “vicino” a potenziali obiettivi per gli israeliani. Israele ha così trasformato Gaza in un “mondo senza civili” in cui tutto, dal riparo negli ospedali alla fuga per la sicurezza, è dichiarato una forma di scudo umano. L’accusa di usare scudi umani è diventata così un pretesto, che giustifica l’uccisione di civili sotto la copertura di una presunta legalità, la cui onnipresenza ammette solo un intento genocida.

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