Livio e la sinistra italiana

di Fabrizio Burattini, intervento al convegno per il centenario della nascita di Livio Maitan

Naturalmente sono state dette tante cose e tantissime altre sarebbero da dire. Ovviamente, nei pochi minuti che mi sono giustamente concessi, cercherò di dirne solo alcune.
Livio per me ha significato tantissimo, ho cercato di dirlo per scritto nel breve intervento che trovate anche nel fascicolo del convegno.

E credo che abbia significato molto anche per tantissime e tantissimi tra coloro che sono qui in sala.

Una delle cose che mi ha insegnato a praticare è stata già citata da numerosi interventi, cioè quella gentilezza politica che Livio usava sempre. Essa non costituiva solo un fatto di stile. Naturalmente lo era anche, ma costituiva soprattutto un elemento politico.

Cioè, era una scelta rispetto al modo di muoversi dentro un movimento operaio segnato da tragedie e da storie complesse e violente che purtroppo hanno contribuito alla sua distruzione. E potremmo dire alla sua “autodistruzione”. Insomma, storie e modi di agire che non sono affatto estranei ai motivi delle nostre numerose e sempre più brutali sconfitte.

D’altra parte, dobbiamo dircelo, sconfitto, appunto, non è solo Livio né lo siamo solo noi suoi seguaci, ma a sinistra, soprattutto in Italia, lo sono un po’ tutti.
Per certi versi lo è ancora di più di noi una certa sinistra, per niente avvezza ad una discussione “gentile”, diciamo fraterna, all’interno del movimento operaio, una sinistra che anzi ha volgarmente avvelenato il movimento operaio con il suo schematismo semplicistico e grossolano, con la sua facile accusa di “tradimento” diffusa con leggerezza e a piene mani, con il suo “chi non è con me è contro di me”.

E voglio anche aggiungere una battuta su questo: Livio è sempre stato all’avanguardia e, nella sconfitta, chi è all’avanguardia è anche il primo degli sconfitti, perfino anche se, come ha fatto Livio, ha cercato da sempre di mettere in guardia tutti dal non intraprendere le strade che inesorabilmente hanno poi portato alla débâcle.

Poi noi, nella sconfitta, l’abbiamo seguito, così come l’hanno seguito in tante e tanti.

Noi cerchiamo, con le nostre piccole forze, di mettere a frutto il suo contributo, un contributo ancora estremamente vivo nonostante le enormi novità che caratterizzano la nuova fase così difficile che stiamo attraversando. E vogliamo metterlo a frutto non solo per denunciare le responsabilità degli altri, ma soprattutto per essere i primi a tornare a vincere.

E, ancora a proposito della gentilezza, io quella gentilezza l’ho sperimentata direttamente. La gentilezza, per chi sta in minoranza, è quasi un “atto dovuto”, indispensabile, per forza di cose.

Ebbene io mi son trovato una volta in minoranza di fronte a Livio. Qui pochissimi, forse solo Franco ne ricorda le circostanze. Una volta, tantissimi anni fa, nei primi anni 70, Livio, nonostante fosse in minoranza, fu estremamente gentile anche con me e con gli altri compagni e compagne che condividevano con me una posizione di minoranza dentro la sezione italiana della Quarta internazionale di allora.

Alcuni di questi compagne e compagni li abbiamo ricordati anche qui, ma non ci sono più. Questo lo ricordo appunto per corroborare l’idea che la gentilezza politica Livio la praticava anche quando era in maggioranza, anche se non gli capitava di frequente.

Nella mia lunga frequentazione con Livio, ebbi solo un momento di discussione “poco gentile” con lui. Ne ho parlato anche nell’altro intervento che ho prima menzionato e che è stato pubblicato nel fascicolo.
Si trattò di un momento di discussione accesa, stranamente su di un aspetto che potremmo considerare marginale.

Io sono stato e sono totalmente d’accordo con la nostra scelta di partecipare a pieno a Rifondazione, nella fase in cui quell’esperienza raccoglieva le migliori energie e le migliori spinte antisistema. Ma in quella discussione cercavo di mettere in luce alcuni degli aspetti più discutibili soprattutto del funzionamento, ma anche della linea politica di quel partito.

Livio rispose alle mie obiezioni in modo passionale. Lo vidi come sempre determinato, cosa che è giusta nel difendere le proprie posizioni, ma forse per la prima e unica volta non lo vidi “gentile”.

Lì per lì non prestai attenzione a quello scarto di stile. Ma poi, in questi giorni, ragionando sul mio intervento al Convegno, e anche leggendo e ascoltando gli interventi di questa mattina, in particolare quello di Diego Giachetti sulla permanente volontà di Livio di “stare nel gorgo”, di non ritagliarsi un ruolo di “predicatore”, ho considerato lo stato d’animo di Livio in occasione di quella discussione che ebbe con me.

Dalla fine degli anni 40 in poi, quindi sostanzialmente per tutta la sua vita, Livio militò solo nella sezione italiana della Quarta Internazionale. Pur essendo uno strenuo sostenitore di una politica “di massa” e, quindi, dell’entrismo, come estremo tentativo di non separarsi dalle masse egemonizzate dal riformismo, non poté però partecipare al lavoro nelle file del PCI, per ovvi motivi. Nessuno avrebbe creduto che Livio Maitan fosse un reale militante, seppur critico, del Partito Comunista Italiano, a meno di una del tutto irrealistica abiura di tutto quanto lui aveva detto, scritto e sostenuto in tutta la sua azione.

Quindi Livio finalmente, negli anni 90 e nei primi 2000, militando in prima persona in Rifondazione aveva ritrovato quel “gorgo”, quella esperienza diretta di massa. Ad animare la passione con cui si contrappose alle mie critiche a Rifondazione e a Bertinotti era dunque la sua volontà di non rinunciare, non emarginarsi ancora e di continuare a partecipare ad un partito tendenzialmente di massa.

Dunque anche quella passione, quel momentaneo abbassamento della sua tradizionale gentilezza avevano un motivo materiale e politico molto serio e, con il senno del poi, riconsidero anche un po’ la simmetrica veemenza e la passione che io misi nel contrastare quello che lui diceva.

Fu dunque un’eccezione che conferma la regola, come si dice.

Il tratto della gentilezza, lui l’ha sempre usato a piene mani nella sua battaglia politica.

Venendo più direttamente al tema storico e politico su cui vorrei soffermarmi. Chi di noi ha seguito direttamente o indirettamente gli approfondimenti e le analisi che Livio ha fatto nei suoi quasi sessant’anni di militanza politica sa che i suoi interessi sono sempre stati enciclopedici e universali.

Era capace di spaziare dall’analisi dell’attualità della Cina di Mao allo studio storico dell’involuzione della Russia sovietica, dall’analisi dei ritardi e delle insufficienze degli apparati sindacali all’indagine sulla composizione di classe di un determinato paese, allo studio delle dinamiche economiche del neocapitalismo, alla spiegazione delle cause e degli effetti della regressione nazionalistica e riformistica dei movimenti operai europei, e così via.

Le sue analisi -lo dico per esperienza diretta- risultavano estremamente convincenti perché sapevano offrire una griglia interpretativa semplice che però rifuggiva dalle schematizzazioni semplicistiche e dalle semplificazioni impressionistiche.

Anche il tema che vorrei affrontare ha un po’ a che fare con la gentilezza di cui tanto abbiamo parlato.
Una gentilezza che, in questo caso, nasceva da una constatazione per niente irrilevante, e cioè la constatazione del fatto che la marginalità dei rivoluzionari da un lato e dall’altro l’egemonia del partito comunista sulla classe operaia italiana, sulla larghissima maggioranza della classe operaia italiana, perlomeno fino al 1968, erano fenomeni basati su una larghissima illusione che regnava nella classe operaia italiana, l’illusione della riformabilità del capitalismo.

Voglio dunque soffermarmi in particolare sulla sua lettura della sinistra italiana, a cui Livio ha sempre dedicato molta attenzione, analizzandone con cura le basi politiche, i programmi e le strategie.

E anche qui ha sempre combattuto appunto quelle semplificazioni settarie e ideologiche che tendevano a demonizzarne la natura, la “mutazione genetica”, e che attribuivano questa mutazione più ad una deformazione ideologica, il cosiddetto “revisionismo”, piuttosto che coglierne le radici politiche e sociali.

Sarebbe interessante anche un approfondimento del suo orientamento sul lavoro sindacale (di cui si possono evincere molti elementi rileggendo anche solo l’introduzione del volumetto “Marxismo e sindacato” del 1970), ma ovviamente la limitatezza dei tempi non mi consentono questa digressione.

Livio, si diceva, non ha mai rimosso il fatto che l’egemonia riformista, che anche nelle fasi di lotta di classe più radicale continuava a soggiogare gran parte delle masse lavoratrici italiane, corrispondeva alle illusioni largamente dominanti sulla riformabilità del capitalismo.

Ma, pur non demonizzandolo, Livio non ha mai fatto nessuno sconto analitico al Partito comunista italiano, studiandone sempre puntualmente l’itinerario che l’aveva condotto dalla matrice staliniana alla sua trasformazione “socialdemocratica”, seppure sui generis.

Nel suo pamphlet del 1990 intitolato “Al termine d’una lunga marcia. Dal PCI al PDS” scrive testualmente: “Il PCI rappresenta il caso-limite di un fenomeno politico di cui era difficile intuire la possibilità fino alla metà degli anni ‘50: la trasformazione di un partito sorto come un partito rivoluzionario in rottura con il riformismo e divenuto poi un partito staliniano, in un partito neoriformista di tipo socialdemocratico”.

Dunque un caso piuttosto unico, anche se Livio fa notare che Trotsky, già alla vigilia della seconda guerra mondiale, in un articolo scritto dopo la conferenza di Monaco e pubblicato nel volume Mondadori “Guerra e rivoluzione” (del 1973), aveva colto con largo anticipo la tendenza dei partiti comunisti a trasformarsi in partiti comunisti nazionali, riformisti o neoriformisti.
Livio, nelle sue analisi sulle dinamiche del PCI e del movimento comunista italiano, enucleava tre elementi di condizionamento, determinanti per definirne la natura:

  • in primo luogo la subordinazione agli interessi della burocrazia affermatasi nell’URSS e, successivamente, in altri stati dell’Est europeo,
  • in secondo luogo gli specifici interessi dei gruppi dirigenti politico-sindacali dominanti nel movimento operaio italiano,
  • infine, la permanente necessità di conservare, seppur tradendone gli interessi storici rivoluzionari, la capacità di dominio sulle masse popolari e in particolare sulla classe operaia.

La politica del PCI, dagli anni Trenta e poi dal dopoguerra in avanti, era la risultante della combinazione in dosi variabili di questi tre elementi.
Nei vari periodi storici quei tre elementi si sono combinati in maniera, appunto, estremamente variabile: dalla totale dipendenza dall’aiuto materiale proveniente dall’URSS (durante la dittatura fascista) e dall’uso a piene mani dell’autorevolezza di essere il rappresentante anche formale del primo (e per lungo tempo) unico “stato operaio” del pianeta, fino al prevalere, in modo “definitivo” verso la metà degli anni 70, dell’ingrediente dell’interesse della burocrazia nazionale, che poi era l’interesse di accreditarsi in Italia come forza legittimata a governare, prima a livello locale e poi a livello nazionale.

A partire dal 1945, quando la dipendenza e la subordinazione al PCUS erano totali, passando per i traumi prima della “destalinizzazione” e poi del 1956 ungherese, per arrivare appunto alla metà degli anni 70, quando Berlinguer dichiarò l’utilità dell’ombrello della NATO, come “protezione possibile per poter costruire una via nazionale al socialismo”, e poi alla fine degli anni 80, quando l’esperienza sovietica si esaurì per consunzione, il fattore della dipendenza dall’URSS divenne progressivamente secondario, fino ad essere considerato un peso totalmente contraddittorio rispetto all’altro fattore: gli specifici interessi di affermazione politica del gruppo dirigente nazionale.

E, nel frattempo, inizia ad agire in modo prepotente la dialettica tra gli altri due fattori: l’interesse della costruzione del PCI e della sua capacità di accreditarsi presso la classe dominante nazionale (e in parte anche presso quella internazionale) come forza di governo da un lato e, dall’altro, la capacità di controllo elettorale e sociale sulle masse popolari e sulle loro mobilitazioni.

La dialettica contraddittoria tra questi due elementi era stata analizzata da Livio, in particolare nel suo volume del 1969 “PCI 1945-1969: stalinismo e opportunismo”, che poi era un aggiornamento di una delle sue prime elaborazioni sulla sinistra italiana, pubblicata giusto un decennio prima, nel 1959, nel volume “Teoria e politica comunista nel dopoguerra”.

In quella fase, nel 1969, la burocrazia del PCI doveva affrontare la quadratura del cerchio: blandire da un lato la straordinaria pressione sociale giovanile e operaia che lievitava in evidente conflitto con la gestione capitalistica del paese, e dall’altro tentare di mostrare l’utilità del proprio apparato politico e sindacale per la difesa degli interessi della classe dominante.
In quel volume del 1969, Livio analizza come quella contraddizione, nel contesto della fase che lui definisce (cito dal libro): “di crisi sociale e politica profonda, nella quale la crisi di regime in tutte le sue componenti è effettivamente cominciata”.

Una crisi che Livio analizza puntualmente, individuandone 6 “fattori interagenti”.

Certo, il passo andrebbe riletto integralmente, ma io mi limito qui a cercare di enumerare questi 6 fattori:

  1. la fine delle illusioni sul “miracolo economico”;
  2. l’incapacità di modernizzazione politica e culturale del regime democristiano;
  3. la convivenza nel paese di uno sfruttamento capitalistico arretrato e caotico del tutto contrastante con un capitalismo che si stava internazionalizzando;
  4. le trasformazioni profonde dei sistemi produttivi che rendevano sempre più insopportabili le condizioni di lavoro in fabbrica;
  5. l’acutizzarsi della contraddizione tra la crescita culturale di massa e la gestione autoritaria e/o paternalistica della società;
  6. e infine la perdita di prestigio delle istituzioni, sempre meno capaci di raccogliere le pressioni sociali.

L’esplodere del 1968 italiano e poi del 1969 operaio hanno costretto il PCI (le parti in corsivo sono citazioni dal libro già menzionato) “a dover agire in una situazione oggettiva di tensioni drammatiche e in costante movimento, in cui forze ormai considerevoli si sono mosse in una dinamica anticapitalistica al di fuori della sua egemonia”.

Livio riconosce al PCI “una duttilità tattica di cui sono stati incapaci altri partiti comunisti (in particolare il PCF di fronte al maggio francese)”. “Il PCI si rende rapidamente conto delle implicazioni che avrebbe avuto ai fini della sua stessa strategia il restare tagliato fuori irrimediabilmente da un movimento di massa che spezzava l’equilibrio politico nel paese” e dunque “rinunciava a denunce sistematiche di tipo staliniano (che appunto costarono care al PCF), ostentando, al contrario, un appoggio propagandistico e giungendo persino a mettere a disposizione degli studenti taluni suoi strumenti organizzativi”.

In quella fase “il partito vedeva concretamente contestata la sua egemonia proprio sul piano dei movimenti di massa, cioè sul piano su cui non aveva dovuto subire nessuna seria sfida” dal 1945 in poi.

E Livio sottolinea come l’eterna contraddizione tra l’aspirazione ad accreditarsi come partito utile al governo della società borghese e la necessità di riconquistare l’egemonia di massa che la radicalità dei movimenti stavano mettendo seriamente in discussione, si esprimesse in quella fase in modo particolarmente acuto e impellente, visti gli spazi che si aprivano nel sistema politico dominante, stante la evidente crisi della formula di governo del centrosinistra e la necessità, anche per la classe padronale, di individuare “soluzioni di ricambio”.

Livio ricorda come la classe dominante avesse apprezzato riguardo al PCI la “presa di distanza dall’URSS, dal comunismo cinese e da quello cubano”, ma il gruppo dirigente del partito si rendeva conto che perseguire ulteriormente e più esplicitamente “una politica in questa direzione (cioè in direzione apertamente filocapitalista) implicava inevitabilmente una serie di atteggiamenti e di prese di posizione che avrebbero contrastato completamente con l’esigenza di influenzare e canalizzare i movimenti nuovi”.

Il dilemma tra le due esigenze contrastanti, un dilemma che Livio definisce giustamente “ineludibile” si poneva anche sul piano internazionale, soprattutto di fronte alla drammatico intervento sovietico per spezzare la “primavera di Praga”: il dilemma era tra l’appoggiare l’invasione interrompendo drasticamente il lavorio di accreditamento perseguito per anni, senza peraltro per questo recuperare consensi nel movimento studentesco e tra le avanguardie operaie, oppure rompere definitivamente con la casta dominante nell’Est Europa e con la propria storia e la propria identità?

E la risposta che a questi dilemmi dà (o meglio pretende di dare), nel febbraio 1969, il XII congresso del PCI non si discosta dalla solita e inconcludente riproposizione di una mai meglio definita “via italiana al socialismo” che peraltro non può fare niente di meglio che prendere come modello l’esperienza “emiliana”.

Livio cita nel suo libro un passaggio delle conclusioni dell’allora segretario comunista Luigi Longo a quel congresso che chiarisce la natura di quella “via italiana”, una via che noi oggi, forti anche del senno del poi, possiamo valutare in tutta la sua inconsistenza.

Dice Longo nell’indicare gli elementi caratterizzanti di “quella via italiana”: “una nuova politica e una nuova organizzazione dell’intervento pubblico ed in particolare delle partecipazioni statali, per l’ammodernamento e per la qualificazione del nostro apparato industriale, per l’industrializzazione del Mezzogiorno, per la riforma agraria; una nuova politica di investimenti e di trasformazioni nell’agricoltura; una nuova politica di riforma democratica della scuola e dell’università”.

Sì, occorre ribadirlo, è lì, di fronte a quel biennio di movimento storicamente determinante e di fronte ai dilemmi laceranti e senza soluzione che esso poneva che inizia il declino del progetto del PCI, inaugurato a Salerno nel 1944. Di un partito che negli anni successivi avrebbe conosciuto persino travolgenti successi elettorali ma che non poteva essere capace di sciogliere quei nodi intrinseci nella sua triplice natura.

Ovviamente, Livio non ha potuto indagare il processo corruttivo politico, sociale, culturale e morale che ha ulteriormente investito il partito postcomunista italiano negli anni successivi, quando è diventato il PD, quando ha scelto come leader un avventuriero politico come Matteo Renzi e quando ancor più sostanzialmente ha sposato in pieno l’agenda neoliberale della classe dominante italiana e internazionale e ha assunto un volto programmatico del tutto subalterno al peggior capitalismo del XXI secolo.

Nessuno di noi può mettere in bocca al Livio giudizi su quello che è accaduto dopo la sua morte. A noi sta il compito di utilizzare il metodo con cui Livio aveva approfondito l’analisi del Partito Comunista nell’approfondimento dello studio di quello che è avvenuto dopo, sul piano sociale e politico.

Oggi siamo noi a dover cercare di mettere a frutto gli insegnamenti e le capacità di analisi di Livio (o anche di Ernest Mandel, di cui ricorre anche per lui quest’anno il 100° anniversario della nascita) alla nuova situazione estremamente difficile che stiamo vivendo nella sinistra italiana. E il suo, il loro metodo di analisi, recuperato e applicato, dobbiamo cercare di utilizzarlo per interpretare e per agire nella nuova realtà.

È così che anche loro possono continuare ancora a lottare insieme a noi.

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