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Manovra contro gli ultimi illudendo i penultimi

di Fabrizio Burattini

La guerra ai poveri di Draghi continua e si inasprisce con la manovra Meloni 2022. Si delinea una società sempre più diseguale. Vendetta contro chi non ha accettato la demagogia della destra e premio per i ceti che la hanno appoggiata. Un’opposizione da costruire

La “grande stampa”, dopo la pubblicazione della proposta di legge di bilancio del governo Meloni, sembra tirare un sospiro di sollievo. Certo, la manovra è una “manovrina” (“La Stampa” di Massimo Giannini), è “piccola piccola” (“La Repubblica” di Maurizio Molinari), risente della “stesura fatta in tutta fretta da un governo appena insediato”… Sempre sulla “Stampa”, Marcello Sorgi afferma che il governo “supera l’esame di maturità”, perché ha “sostanzialmente rispettato” i vincoli europei e la lezione Mario Draghi quanto a “rigore fiscale” e a “politiche di austerità”.

L’entusiasmo della destra

Se la stampa “democratica” si sente rassicurata (ma sapevano bene che Meloni e i suoi non si sarebbero discostati dai diktat di Bruxelles, il loro progetto è molto più ambizioso), la stampa amica della premier si spertica in elogi e osanna: “La strada giusta” (Alessandro Sallusti su “Libero”), “Manovra di bilancio, il governo aiuta i più deboli” (“Il Tempo”), “Coraggiosa. Aiuta il ceto medio e i pensionati” (De Feo sul “Giornale”). Quanto al blocco del Reddito di cittadinanza, le prime pagine dei giornali di destra traboccano di esultanza: “Buon lavoro fannulloni” (“Libero”), “Stop alla follia dei 5 Stelle” (“Il Secolo d’Italia”). 

Sanno che il blocco del RDC è importante non tanto perché fa recuperare qualche centinaio di milioni (dicono 700) da stornare a favore delle imprese piccole e grandi, ma soprattutto perché è una misura che spinge verso il basso i rapporti di forza delle classi più povere che saranno sempre più costrette ad accettare un lavoro a qualunque condizione e in cambio di salari ancora più bassi. Non dimentichiamo che almeno 173.000 percettori di RDC lavorano regolarmente (iscritti all’INPS) ma ricevono un salario così misero da dover essere integrato dal RDC.

Gli argomenti della demagogia

Come cento e più anni fa, il padronato e il governo al suo servizio vogliono usare come armi di costrizione il bieco marchio del “fannullone” e la fame per obbligare le persone ad accettare qualunque occupazione, e questo non è solo uno strumento di politica (anti)sociale ma costituisce un segnale nei confronti del mondo imprenditoriale ed anche dei settori centristi (Calenda e Renzi), altrettanto agguerriti contro i ceti più poveri.

E poi in quella misura sul RDC c’è anche un aspetto vendicativo verso quegli ampi settori popolari che (soprattutto al Sud) non hanno prestato ascolto alla demagogia reazionaria di Fratelli d’Italia e delle altre consorterie alleate, ma hanno confermato il loro voto agli odiati 5 Stelle.

L’ideologia che muove il governo e che, purtroppo, raccoglie un immeritato consenso, è quella secondo cui la disoccupazione, la povertà non sono fenomeni intrinseci al sistema capitalista, ma sono solo la conseguenza della inettitudine e della pigrizia dei “fannulloni”. I 660.000 percettori di RDC “occupabili”, per di più un certo numero tra di loro anche immigrati da chissà dove, diventano così, nell’immaginario della narrazione governativa, confindustriale e dei loro lacchè, nemici della “nazione”.

Certo, quella misura solletica anche il consenso di quei tantissimi lavoratori che oggi sono occupati e che faticano per portare a casa salari di poco superiori al RDC e che sono quindi sensibili alla demagogia contro i “fannulloni” che “stanno sul divano e vivono sulle spalle di chi paga le tasse”. E che non pensano che il destino di non trovare un lavoro minimamente degno di questa definizione potrebbe colpire anche loro, tanto più in una fase di crisi economica nella quale fabbriche ed aziende chiudono, i contratti a termine non vengono rinnovati…

Cuneo fiscale e Confindustria

Dunque, una manovra durissima contro gli ultimi volta a far credere ai penultimi che il governo vuole aiutarli con la riduzione del “cuneo fiscale”, con l’aumento irrisorio delle pensioni minime e con un piccolo incremento degli aiuti ai settori più poveri per affrontare il “caro bollette”.

In realtà, occorre dirlo una volta per tutte, la riduzione del cuneo fiscale consente sì un misero incremento dei salari netti (tra i 10 e i 20 euro mensili) ma tutto autofinanziato dai lavoratori, perché la riduzione dei prelievi fiscali al lavoro dipendente riduce in maniera cospicua le entrate dell’erario e di conseguenza anche la capacità di spesa pubblica. Con la conseguente riduzione dell’offerta di servizi pubblici e universali (pensioni, ammortizzatori sociali, scuola, sanità) ai ceti più deboli.

Una riduzione del cuneo che punta soprattutto a ridurre la pressione salariale dei lavoratori verso le imprese. La riduzione del cuneo fiscale consente alle imprese di dire durante i negoziati contrattuali: “ma come, avete avuto la riduzione del cuneo e chiedete ulteriori aumenti?”.

La Confindustria critica il governo perché avrebbe voluto una riduzione del cuneo più consistente e almeno una parte di quei soldi a vantaggio delle imprese. Le associazioni padronali (a differenza dei sindacati) non si accontentano mai. Hanno già pronti i comunicati di dissenso ancor prima che il governo annunci le sue scelte, perché sanno che così ostacolano preventivamente ogni “miglioramento” delle misure a favore dei lavoratori e, non si sa mai, spingono verso un “miglioramento” a proprio favore.

La tassa piatta per alcuni e progressiva per gli altri

Com’è noto, la “flat tax” al 15% viene estesa alle partite IVA fino a 85.000 euro di reddito, con la conseguenza (che giustamente Nadia Urbinati su “Domani” ritiene anticostituzionale) per cui un dipendente, a parità di reddito, pagherà fino a 10.000 euro di tasse in più rispetto ad un autonomo. Si delinea, come ha scritto Giuseppe Pisauro sul Manifesto “una separazione netta tra il regime fiscale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, da un lato, e dei lavoratori autonomi e dei professionisti, dall’altro”.

Dunque, una manovra che acutizzerà pesantemente e perfino renderà strutturali le già indegne diseguaglianze economiche e sociali del paese.  Né va trascurato un pesante effetto “macroeconomico” della manovra: essa contribuirà a far scendere ancor di più i consumi interni e, dunque, forse riuscirà a contenere l’inflazione ma asseconderà anche la tendenza recessiva già in atto.

La manovra della disuguaglianza

Una manovra ispirata ad un minimo di equità sociale avrebbe dovuto affrontare seriamente il problema delle retribuzioni del lavoro dipendente e delle pensioni basse al palo da trent’anni e taglieggiate nell’ultimo anno dalla fiammata inflattiva, avrebbe dovuto inasprire la progressività fiscale, ampliare il reddito di cittadinanza e tutti gli altri ammortizzatori sociali, mettere sotto controllo pubblico i prezzi dei prodotti di prima necessità. 

Il governo Meloni ha scelto coscientemente di fare proprio il contrario. Non ha avuto neanche il coraggio di abolire l’IVA sui prodotti di prima necessità (pane, latte…). 

  • Con il taglio netto e la minaccia di abolizione totale del RDC, ha rinvigorito ulteriormente la guerra ai poveri, sulla linea che era già stata di Draghi. 
  • Ha peggiorato il sistema di adeguamento delle pensioni all’inflazione (recupereranno integralmente l’inflazione solo le pensioni non superiori a 1.584 euro netti). 
  • Ha tagliato gli sgravi sulle bollette per le famiglie mentre ha incrementato gli sgravi per le imprese. 
  • Gli extraprofitti miliardari delle imprese dell’energia, lucrati grazie all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas e nei fatti estorti con la forza ai cittadini, verranno tassati al 35%, cioè tanto quanto viene tassato un lavoratore dipendente che riceve un salario mensile netto di 1.650 euro.
  • Hanno allargato, come già detto, la platea di chi godrà di una tassa piatta.
  • Hanno favorito l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro illecito con i provvedimenti sul contante, con la flat tax, sulla rottamazione delle cartelle, sulla detassazione dei capitali illecitamente portati nei paradisi fiscali.

Una manovra di bilancio in continuità con il governo Draghi e con i dettami della UE per ridurre i consumi popolari e così “combattere l’inflazione”. Poco importa se a farne le spese saranno i più poveri, il Sud, i lavoratori a reddito fisso. “Fine della pacchia” per loro, fine di una pacchia che non è mai iniziata.

La “pacchia” e l’opposizione

Mentre la “pacchia” continua e si accresce per quei ceti sociali che hanno votato per Fratelli d’Italia e per gli altri partiti della destra e che vengono per questo premiati: grandi imprese, bottegai, lavoratori “autonomi”, albergatori e ristoratori…: insomma quella che in un altro articolo abbiamo definito “lumpenborghesia dell’evasione fiscale”.

Profittando dell’estrema debolezza (al limite dell’inesistenza) dell’opposizione politica e dell’atteggiamento di complicità (CISL) e di imbarazzata attesa (CGIL e UIL) dei sindacati confederali, il risultato della manovra governativa sarà l’incremento della sofferenza sociale del paese. Allo stato attuale l’unica risposta in campo resta quella dello sciopero generale del 2 dicembre e della manifestazione nazionale a Roma di sabato 3, che così sono diventati appuntamenti ancora più importanti.

I principali quotidiani italiani nelle mani di Elkann


di Fabrizio Burattini

Mentre la crisi sanitaria era al suo culmine, mentre i telegiornali e tutti i mass media parlavano solo di coronavirus, sono accadute tante altre cose, tra le quali un significativo rimescolamento delle carte nel panorama degli assetti proprietari dei principali giornali italiani.

“La Repubblica”, in particolare, che con il “Corriere della sera” si disputa il podio di primo quotidiano italiano, è passata nelle mani della Exor di Elkann, portando con sé nella holding olandese degli eredi di Agnelli tutta la famiglia editoriale (oltre “Repubblica” anche “La Stampa”, “Il Secolo XIX”, una quindicina di quotidiani locali, numerosi periodici, tra i quali spicca “L’Espresso”, varie testate online, come “L’Huffington Post”, oltre all’autorevole “Repubblicaonline”, qualche radio-TV commerciale, ecc.) un tempo controllata dalla CIR di De Benedetti, a cui Elkann l’ha sottratta mettendo sul tavolo oltre 100 milioni di euro.

Naturalmente l’operazione veniva da lontano, almeno da quando la CIR, nel 2017, aveva acquisito nel suo gruppo anche la “Stampa” di Torino, trasferendone l’allora direttore Mauro Calabresi a dirigere a Roma l’ammiraglia “Repubblica”. Già in quella occasione era entrata a far parte della cordata di controllo della CIR la Exor. Dunque l’acquisizione definitiva completatasi alla fine di aprile costituisce la conclusione annunciata di un percorso venuto da lontano.

Con questa operazione Carlo De Benedetti, immeritatamente presentato dalla stampa mainstream come l’erede morale del “capitalismo sociale” di Adriano Olivetti, perde ogni significativo controllo sui mass media e dovrà dedicarsi alle residue attività della CIR, come quelle della holding della sanità privata KOS, che gestisce in tutto il paese una sessantina di Residenze sanitarie assistenziali oltre a parecchie decine di centri di riabilitazione.

Altrettanto significativa diventa la posizione dominante nel settore dell’informazione della famiglia Elkann-Agnelli, che ora controlla direttamente buona parte dei principali mass media (due dei tre principali quotidiani politici, il settimanale politico più autorevole e le principali testate politiche online).

Naturalmente, questo ridisegno della mappa dei poteri non poteva non sconvolgere anche l’assetto delle direzioni dei giornali.

Così, la direzione di “Repubblica”, che Eugenio Scalfari, con un’impostazione “radicalmente” liberaldemocratica, fondò riprendendo la testata del quotidiano portoghese che ebbe un ruolo importante nella rivoluzione del 1974, va oggi a Maurizio Molinari, ex direttore della “Stampa”, navigato giornalista, passato negli anni disinvoltamente da giornali di destra a giornali di centrosinistra e viceversa e al centro di parecchie polemiche per aver pubblicato un libro sull’ISIS in larga parte copiato da un volume di un fanatico islamofobo americano.

Molinari, allora direttore della “Stampa” di Torino, si distinse quando tessé un panegirico della manifestazione di un anno fa a piazza Castello per il TAV, scorgendo nel comizio delle Madamine “un’Italia di donne e uomini, famiglie etero e gay, impiegati e operai, studenti, pensionati ed artigiani che non ama gridare ma fare… la gigantografia di Cavour, i cartelli sui piemontesi europei, gli applausi per Pininfarina e Marchionne, il canto finale dell’inno di Mameli… una piazza senza neanche una carta in terra quando la folla se ne va. Con la schiena diritta”. Schiena che, al contrario, lui non ha molto dritta: prova ne sia lo smaccato servilismo mostrato nella strenua difesa di tutti gli interessi del suo datore di lavoro padron Elkann.

La redazione di Repubblica ha inizialmente rifiutato il nuovo direttore, ma dopo pochi giorni si è convertita e lo ha accettato all’unanimità, tanto da far rispolverare da alcuni commentatori il motto del Guicciardini “o Franza o Spagna, purché se magna”.

Alcuni, pochissimi, giornalisti non ci stanno e hanno lasciato la collaborazione con il prestigioso quotidiano. Sono due noti giornalisti, ex di Lotta Continua degli anni Settanta, Enrico Deaglio e Gad Lerner, a cui si è aggiunto il giornalista-scrittore Pino Corrias.

La Repubblica, rapidamente, ha mutuato dal suo nuovo direttore il posizionamento della schiena, schierandosi con entusiasmo a favore della concessione al nuovo proprietario dell’ormai famoso maxi prestito di 6 miliardi e 300 milioni con garanzia dello stato.

Un tempo Repubblica si distinse nella denuncia dell’eccessiva concentrazione del controllo sull’informazione nelle mani di Silvio Berlusconi. Chissà che cosa dirà oggi sul nuovo oligopolista della carta stampata?