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Femonazionalismo, un libro da leggere

L’amica Sara R. Farris è attualmente docente senior di sociologia presso la Goldsmiths, University of London, e autrice, tra l’altro, di Max Weber’s Theory of Personality: Individuation, Politics, and Orientalism in the Sociology of Religion.

Il suo In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism (Duke University Press, 2017) è stato pubblicato in italiano da Alegre nel 2019 con il titolo Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne.



Nel volume Sara analizza la rivendicazione di diritti delle donne da parte di un improbabile insieme di partiti politici nazionalisti di destra, neoliberali e da parte di alcune teoriche e politiche femministe.

Concentrandosi sulla Francia contemporanea, sull’Italia e sull’Olanda, Farris definisce “femminonazionalismo” lo sfruttamento e la cooptazione di temi femministi da parte di campagne anti-Islam e xenofobe. L’autrice mostra che, caratterizzando i maschi musulmani come pericolosi per le società occidentali e come oppressori delle donne, e sottolineando la necessità di salvare le donne musulmane e migranti, questi gruppi usano l’uguaglianza di genere per giustificare la loro retorica e le loro politiche razziste. 


Questa pratica ha anche una funzione economica. Farris analizza come le politiche neoliberali di integrazione civile e alcuni gruppi femministi incanalino le donne migranti musulmane e non occidentali nelle occupazioni domestiche e di cura, sostenendo al contempo di promuovere la loro emancipazione. Così, Sara documenta i legami tra razzismo, femminismo e i modi in cui le donne non occidentali vengono strumentalizzate per una serie di scopi politici ed economici.


La sua analisi e la sua interpretazione di un certo “femminismo” come subalterno al capitalismo neoliberale è stata largamente apprezzata da numerose/i commentatrici e commentatori di autorevoli riviste. E ne è consigliata la lettura proprio al fine di attirare l’attenzione del mondo femminista e delle/degli attiviste/i dei diritti civili su una nuova configurazione politico-economica in cui le condizioni neoliberali, le politiche femministe di uguaglianza di genere e il nazionalismo di destra rischiano di fondersi nel sostegno verso relazioni ideologiche e materiali di sfruttamento tra donne occidentali e non occidentali. 


Di fronte alla privatizzazione dei servizi sociali, le donne migranti non occidentali svolgono un ruolo strategico sempre più importante nella riproduzione sociale attraverso la cura e il lavoro domestico. Sono diventate un esercito regolare di lavoratrici, indispensabile per il funzionamento delle economie capitalistiche neoliberali dell’Europa occidentale. La gamma di materiali empirici e teorici riportati dal libro è impressionante e la sua rilevanza per gli attuali dibattiti sull’islamofobia e sulla “questione degli immigrati” in Europa occidentale è veramente inestimabile. 


Qua sotto pubblichiamo una brevissima sintesi degli argomenti sviluppati da Sara nel suo volume, del quale consigliamo vivamente la lettura. La sintesi è stata redatta da Marta Dell’Aquila.


“Bisogna capire che nelle circumnavigazioni della vita ciò che è una brezza piacevole per alcuni può essere una tempesta fatale per altri, a seconda del pescaggio della barca e dello stato delle vele”. Con queste parole lo scrittore portoghese José Saramago, nel suo libro La Caverna (2000), racconta gli sconvolgimenti emotivi e materiali vissuti dal vasaio Cipriano Algor, da sua figlia Marta e da suo genero Marçal, quando l’espansione del centro commerciale minaccia la loro attività familiare.


Nel suo libro In the Name of Women’s Rights. The Rise of Femonationalism, Sara Farris descrive una situazione simile: l’ascesa dei partiti nazionalisti, in uno scenario europeo in cui l’islamofobia e il risentimento verso gli immigrati sono sempre più forti, ha dato vita a una retorica i cui discorsi e campagne elettorali si basano sulla minaccia che gli immigrati, in particolare quelli musulmani, rappresentano per l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne. Le donne immigrate, in particolare quelle musulmane, sono spesso assegnate alla categoria statica e monolitica di vittime, prive di agency e intrinsecamente portatrici dei cosiddetti valori tradizionali.


Nella sua introduzione, Sara Farris sostiene che non sono solo i partiti nazionalisti a vedere l’uguaglianza di genere come un pilastro su cui costruire “agende anti-Islam” e discorsi emancipatori con sfumature coloniali. L’uguaglianza di genere è utilizzata anche da gruppi sociali che si dichiarano antinazionalisti, come le femministe, le organizzazioni femminili e i neoliberisti.


Per presentare la logica politica ed economica alla base di questi attori interagenti, l’autrice introduce il concetto di “femonazionalismo”, che si riferisce allo “sfruttamento di temi femministi da parte di nazionalisti e neoliberali in campagne anti-Islam ([…] anche anti-immigrazione) e alla partecipazione di alcune femministe e femminocratiche alla stigmatizzazione degli uomini musulmani sotto la bandiera dell’uguaglianza di genere”. Attraverso i suoi cinque capitoli e lo studio di tre specifici contesti nazionali (Olanda, Francia e Italia), il libro utilizza un metodo interdisciplinare per presentare la diffusione e le applicazioni di questo concetto.


Nel primo capitolo, “Figure del femminismo”, l’autrice delinea la genealogia della mobilitazione dell’uguaglianza di genere all’interno dei partiti nazionalisti di destra in Olanda (Partito della Libertà), in Francia (Fronte Nazionale) e in Italia (Lega Nord), tra il 2010 e il 2013, per rafforzare le loro agende politiche anti-islamiche e anti-immigrazione e xenofobe.


Farris mostra come questi partiti siano riusciti a strumentalizzare l’uguaglianza di genere e a trasformarla, ciascuno a suo modo, in una “potente arma nella campagna contro i migranti musulmani e non occidentali”. La diffusione di siti web xenofobi è una caratteristica comune di questo ambiente. L’autrice cita il sito promosso dal Partito della Libertà olandese, dove i cittadini potevano inviare le loro denunce contro gli immigrati dei nuovi stati membri dell’UE, o il sito “Tutti i crimini degli immigrati”, promosso dal segretario generale della Lega Nord, che raccoglieva articoli sui crimini, in particolare gli stupri, perpetrati da uomini immigrati in Italia.


Un altro esempio di questa strumentalizzazione è la proposta di creare un “Ministero dell’immigrazione e della laicità” avanzata dalla presidente del Front National, Marine Le Pen, nel 2012. Questo capitolo mostra anche come la partecipazione di femministe e organizzazioni femministe a questa guerra contro la misoginia intrinseca della cultura islamica serva solo a rafforzare un atteggiamento coloniale ed eurocentrico che rivendica la superiorità dei valori occidentali.


Il capitolo 2, “Il femminonazionalismo non è populismo”, ci ricorda che negli ultimi anni sociologi e politologi hanno considerato il discorso a favore dell’uguaglianza di genere portato avanti dai partiti di destra come una forma di populismo: “Una politica che dicotomizza lo spazio politico in ‘noi’ (il popolo puro) contro ‘loro’ (l’élite corrotta o lo straniero)”, in altre parole, una politica definita dalla sua forma piuttosto che dal suo contenuto. In questo senso, le campagne anti-Islam e anti-immigrazione portate avanti dai suddetti partiti nazionalisti, che identificano il nemico comune nell’“Altro”, lo “straniero”, il “migrante”, il “musulmano”, farebbero parte di questa logica populista. 


Tuttavia, secondo Farris, il concetto di populismo – per la cui definizione l’autrice si rifà a Ernesto Laclau (La ragione populista) e Carl Schmitt (Il concetto di politico) – non spiega l’attaccamento di questi partiti alla parità di genere. Il nemico comune a cui questi partiti fanno riferimento è, infatti, un nemico comune maschile, poiché le donne musulmane e le donne migranti non rientrano in questa categoria.


Farris si chiede quindi “a quali condizioni questo nemico può essere diviso in due campi diversi, un campo maschile e un campo femminile”. L’autrice indirizza la sua risposta alle teorie nazionaliste sviluppate nell’ambito del femminismo postcoloniale e della Critical Race Theory (CRT), che includono, in quest’ultima in particolare, le nozioni di “sessualizzazione del razzismo” e di “razzializzazione del sessismo”: attribuendo stereotipi diversi agli uomini e alle donne straniere e facendo del sessismo un dominio esclusivo dell’Altro, queste due nozioni spiegherebbero e giustificherebbero ulteriormente l’uso della parità di genere come strumento di propaganda da parte dei partiti nazionalisti di destra.


Il capitolo 3, “Le politiche di integrazione e l’istituzionalizzazione del femminismo”, fa il punto sulle politiche e sui programmi di integrazione civile per gli immigrati o, nel linguaggio dell’Unione Europea, per i cittadini di paesi terzi. Queste iniziative sono state promosse da alcuni governi liberali (l’Olanda, che ne è stata la pioniera, la Francia e l’Italia) e sostenute dai partiti nazionalisti (soprattutto in Italia); l’uguaglianza di genere è stata uno dei valori chiave di queste iniziative, nonostante l’eterogeneità di questi programmi: in Francia, ad esempio, sono centralizzati e omogenei, mentre in Olanda e in Italia sono decentrati ed eterogenei.


Secondo l’approccio multiculturalista, come quello di Christian Joppke e Yasemin Soysal, l’uguaglianza di genere sarebbe un diritto non negoziabile che fissa i limiti del compromesso culturale, frutto del nuovo carattere liberale, e quindi antinazionalista, degli stati membri dell’Unione europea. Al contrario, Farris sostiene che l’inclusione dell’uguaglianza di genere in questi programmi nazionali, anziché eliminarla, non fa altro che rafforzare il carattere nazionalista e razzista della “svolta verso l’integrazione civile”, definita dall’autrice come una caratteristica intrinseca del liberalismo: questi programmi sarebbero quindi come “la forma più concreta e insidiosa di istituzionalizzazione del femminonazionalismo”, concepiti per salvare le donne razzializzate attraverso un apprendistato ideologico segnato da un colonialismo civilizzatore e dall’eurocentrismo.


Nel capitolo 4, “Femonazionalismo, neoliberismo e riproduzione sociale”, l’autrice esamina le relazioni e le analogie tra il femminismo anti-islamico, il nazionalismo anti-islamico e anti-immigrazione e le politiche neoliberali, in particolare quelle che riguardano l’integrazione e l’emancipazione economica delle donne immigrate in un contesto segnato dal razzismo e dall’islamofobia. Farris avverte già una prima “radicale contraddizione performativa” derivante dalla strumentalizzazione dell’uguaglianza di genere da parte di questi attori, risultato di una disgiunzione tra la teoria, o principio politico, e la pratica, o l’azione politica che dovrebbe scaturirne: questi attori “rafforzano le condizioni di riproduzione, a livello di società, della segregazione delle donne migranti musulmane e non occidentali, dei ruoli di genere tradizionali, dell’ingiustizia di genere che pretendono di combattere”


In altre parole, queste iniziative hanno contribuito a perpetuare alcuni nodi strutturali della disuguaglianza, come la divisione sessuale del lavoro: l’empowerment economico di cui parlano questi autori in teoria non farebbe altro che indirizzare queste donne verso il lavoro domestico e di cura, storicamente connotato come esclusivamente femminile.


L’autrice propone quindi di ricostruire i concetti di autonomia economica ed emancipazione da un punto di vista femminista, e di decostruire la nozione teleologica di emancipazione del femminismo occidentale, che di fatto identifica il lavoro come momento necessario del telos emancipatorio. I concetti di etica produttiva e di lavoro in contrapposizione alla riproduzione sociale con le sue specialità di genere meritano di essere decostruiti a causa dei cambiamenti storici, socio-economici e istituzionali avvenuti nel corso dei secoli.


Nell’ultimo capitolo, “L’economia politica del femminismo”, il libro ritorna al concetto di “esercito di riserva di lavoratori” sviluppato da Karl Marx nel Libro primo del Capitale, per descrivere la posizione delle donne migranti o musulmane nell’economia europea e il tipo di lavoro che svolgono, che è per lo più un lavoro domestico e di cura. Ciò che è particolarmente interessante in questo capitolo è la descrizione del modo in cui le donne migranti, siano esse musulmane o, più in generale, non occidentali, sono percepite nell’immaginario collettivo: come vittime che devono essere salvate, redente o aiutate a integrarsi nella nuova società, ma in nessun modo viste come un pericolo economico e politico per gli uomini.


Per l’autrice, l’analisi di questa stereotipizzazione non può essere intesa come riferita solo ai ruoli sociali che queste donne occupano, ma anche ai ruoli economici che esse svolgono per le economie neoliberali, tenendo conto di alcune dinamiche in evoluzione, come la mercificazione del lavoro domestico e di cura – che, anche nella sua forma retribuita, rimane il settore del lavoro più legato al genere – o la femminilizzazione e razzializzazione di specifici mercati del lavoro.


Ad esempio, “le cattive condizioni di lavoro, la bassa retribuzione e lo status, gli orari di lavoro insalubri e la situazione spesso irregolare che prevale nel settore domestico e dell’assistenza rendono questo lavoro poco attraente per le donne non migranti”. Alla luce di queste considerazioni, l’autrice conclude che il concetto più appropriato per descrivere la posizione delle donne migranti sarebbe quello di un “esercito regolare di lavoratori”, che, da un lato, consente alle donne autoctone/non migranti di uscire di casa e, dall’altro, dà vita a nuove figure professionali, come la badante in Italia.


Per analizzare il fenomeno del “femminismo”, Sara Farris non si limita a una semplice spiegazione ideologica. Propone un’analisi multidimensionale delle dinamiche sociali, politiche e soprattutto economiche che hanno caratterizzato il processo di globalizzazione neoliberista degli ultimi trent’anni.