Archivi tag: salvini

Autonomia differenziata, i devastanti effetti di una legge

di Fabrizio Burattini

Continua a leggere Autonomia differenziata, i devastanti effetti di una legge

Meloni e la destra europea verso le elezioni per il parlamento UE

Continua a leggere Meloni e la destra europea verso le elezioni per il parlamento UE

Le speranze dell’estrema destra in vista delle europee del 2024 


di Freddy de Pauw, da europe-solidaire.org

L’estrema destra europea può guardare all’ultimo periodo con soddisfazione, poiché una vittoria elettorale dopo l’altra ha visto la destra tradizionale adottare sempre più il suo programma. E poiché gli elettori in genere preferiscono l’originale alla copia, la destra radicale può contare su un afflusso di elettori di destra. (Nell’immagine in alto la quota di seggi detenuti dall’estrema destra nel parlamento UE. Per l’Italia sono proiezioni)

Continua a leggere Le speranze dell’estrema destra in vista delle europee del 2024 

Aspro scontro sul diritto di sciopero 

di Sergio Bellavita e Fabrizio Burattini

Dopo molte esitazioni e dopo aver accuratamente evitato di identificare i caratteri spiccatamente reazionari che distinguono il governo di destra di Giorgia Meloni anche dagli altri governi padronali neoliberali che si sono succeduti alla guida dell’Italia negli ultimi anni, la Cgil di Maurizio Landini e la Uil di Pierpaolo Bombardieri hanno deciso di rompere gli indugi e di proclamare, contro la proposta di legge finanziaria per il 2024, una mobilitazione articolata molto complessa, peraltro facendola passare anche attraverso una consultazione della base sui posti di lavoro: 

Continua a leggere Aspro scontro sul diritto di sciopero 

Berlusconi e la “sua rivoluzione”

di Fabrizio Burattini, da alencontre.org

Si sono svolti alcuni giorni fa a Milano i funerali di Silvio Berlusconi: un vero e proprio rito “nazionalpopolare” come sarebbe piaciuto all’illustre defunto.


In un clima da stadio fuori del duomo, gli “orfani del cavaliere” gridavano: “Chi non salta è un comunista”… Da un lato della piazza i tifosi del Milan (la squadra di calcio per lungo tempo presieduta da Berlusconi) intonavano “C’è un solo un presidente, c’è un solo presidente, Silvio, Silvio”, all’altro capo del sagrato il picchetto dei corazzieri scortava il presidente Sergio Mattarella all’interno della chiesa.


E là dentro si svolgeva una kermesse improntata ad una tristezza di maniera, con un rito non dissimile alle  esequie di un monarca, con centinaia di VIP (in tutti gli ambiti, dallo sport alla politica, dall’economia allo spettacolo) che sfoggiavano abiti a lutto da decine di migliaia di euro e piangevano il loro “benefattore”. Sì, perché molti di loro, senza Silvio sarebbero rimasti degli “illustri nessuno”. Non a caso l’inno del partito di Forza Italia era intitolato “Meno male che Silvio c’è”… 

La rimozione dell’antiberlusconismo

I latini, un tempo, dicevano: “De mortuis nihil nisi bonum”, cioè “Sui morti, o si tace o si parla bene”. Di fronte a questa alternativa, il mondo politico e mediatico italiano (salvo qualche rarissima e coraggiosa eccezione) non ha esitato e ha organizzato all’unisono delle esequie degne del “padre della patria”. 


Sì, certo, c’è stata qualche polemica sulla decisione del governo di decretare per il 14 giugno (il giorno dei “solenni funerali di stato”) anche una giornata di “lutto nazionale”, con le bandiere esposte a mezz’asta all’ingresso degli edifici pubblici, un minuto di silenzio nelle scuole pubbliche (fortunatamente già chiuse per le vacanze estive) e la cancellazione, per un’intera settimana, di tutti gli impegni ufficiali dei principali organi istituzionali. 


E’ stata di colpo rimossa, a reti unificate, ogni considerazione sulla sua folgorante carriera che in pochi anni lo ha trasformato da piccolo e squattrinato animatore dei saloni delle navi da crociera e da venditore ambulante di aspirapolvere nel terzo uomo più ricco d’Italia (secondo Forbes, il 352° più ricco del mondo), con un patrimonio stimato in 6,4 miliardi di dollari, sui suoi legami per niente oscuri con gli ambienti della mafia siciliana e con il golpismo reazionario della loggia massonica di Licio Gelli, sui favoritismi politici che gli hanno aperto la strada prima nel mondo dell’edilizia e poi in quello delle televisioni, sui suoi rapporti con il fisco, fatti di evasioni e di frodi, sul suo squallido ma esibito maschilismo.

L’impronta di Berlusconi in Italia e non solo

Ormai da una settimana, tutti i canali televisivi e tutti i mezzi di comunicazione ci ripetono che lui “ha lasciato un’impronta indelebile nella storia d’Italia”. Ed è effettivamente vero, perché l’Italia, dopo trent’anni di “berlusconismo” è effettivamente molto peggiore del passato, in termini politici, democratici, sociali, culturali. E su questo piano l’apporto di Berlusconi è stato determinante.


E lo è stato anche a livello internazionale. Berlusconi si colloca, evidentemente, nel solco del “neoliberismo” aperto negli anni 80 da Margareth Thatcher e da Ronald Reagan, ma, negli anni 90, lui ha “arricchito” quel neoliberismo con uno stile demagogico reazionario, oscurantista e affarista fino ad allora inconcepibile nella politica del dopoguerra, uno stile che ha rapidamente fatto decine di proseliti in altrettanti “leader” internazionali, da Bolsonaro in Brasile a Trump negli USA, a Modi in India, a Putin in Russia, solo per citare i principali.


Vale la pena di ricordare alcune tappe della “resistibile” ascesa di Silvio Berlusconi.


Agente immobiliare nei primi anni 60 e poi, nella seconda metà del decennio, imprenditore edile, quando con i giusti appoggi politici e con il sostegno di un oscuro fondo finanziario svizzero si potevano costruire interi quartieri nelle metropoli del nord investite dal boom economico, poi, nei primi anni 80, gli interessi di Berlusconi si spostano radicalmente verso il settore delle comunicazioni, con l’acquisto di “Telemilano”, che diverrà l’embrione della tv commerciale firmata prima Fininvest e poi Mediaset.


Anche qui Berlusconi sa avvalersi dei favori della politica e delle banche, comprese quelle gestite da Michele Sindona per conto di ambienti mafiosi, che gli hanno concesso lauti finanziamenti a tassi agevolatissimi. Berlusconi peraltro non negò mai i suoi legami con personaggi notoriamente mafiosi, in particolare l’ex senatore Marcello Dell’Utri (cofondatore di Forza Italia, condannato in via definitiva per mafia), il boss Stefano Bontate (che negli anni 70 era la massima “autorità” nel mondo della mafia), il malavitoso Vittorio Mangano (che il giudice Borsellino definì “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa del Nord Italia”).

Lo strumento delle televisioni

Grazie al sodalizio con il “socialista” Bettino Craxi ottenne l’emanazione prima di un decreto (1984) e poi di una legge (la legge Mammì del 1990) che “legalizzò” il suo monopolio di fatto sulla televisione privata. La legge fu così controversa, da indurre cinque ministri della corrente democristiana di sinistra ad uscire dal governo.


Come scrive il teologo laico Vito Mancuso sulla “Stampa” del 13 giugno

“il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io… Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa di più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio […] Il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla di più importante di Me”. 


E le televisioni di Berlusconi, i loro show, i loro personaggi, il loro stile seppero avvelenare con quella nuova “religione” il costume, il modello di società, la politica, il rapporto con le donne e quello con il potere. Anche la televisione pubblica in pochi anni si trasformò, per inseguire quella commerciale nella ricerca dei finanziamenti pubblicitari, l’editoria si concentrò nelle mani di Berlusconi, il mito del self made man (che l’affarista seppe farsi costruire addosso anche con abili campagne di stampa e diffondendo a centinaia di migliaia di copie un libro patinato che illustrava la sua vita) penetrò nella coscienza di milioni di italiane e di italiani, e soprattutto, ovviamente, nello sterminato mondo dei padroncini della piccola e piccolissima impresa di cui è fatta grandissima parte dell’economia nazionale.

La mercificazione di tutto

Fino a quell’epoca, i ricchi non ostentavano le proprie ricchezze, con il timore di aizzare l’invidia sociale. Da Berlusconi in poi, invece, la ricchezza inizia ad essere esibita e diventa un veicolo di prestigio, un modello di vita, un pungolo per tanti che iniziano ad illudersi: “ce la posso fare anch’io”.


La ricerca del “successo” nella “popolarità” e nel “portafoglio” si diffonde al di sopra di qualunque scrupolo etico: con la legittimazione dell’evasione fiscale, con la mercificazione di qualunque cosa, dai favori delle donne al sostegno dei parlamentari, tutto ridotto alla stregua del “calciomercato”.


Vale la pena di ricordare la sua smania (è il termine più calzante) di ostentare lo stile usato nel suo rapporto con le donne, fatto di barzellette volgari, di cene con i suoi sodali “allietate” da esibizioni pruriginose, del mantenimento di harem di escort. Il tutto in un paese nel quale continuava e continua ad imperare un maschilismo violento e una fortissima disparità nelle opportunità tra i sessi. Sono passate alla storia le sue battute volgari su Angela Merkel e su Rosy Bindi, ex ministra cristiana di sinistra, battute culturalmente devastanti, ma accolte con compiacimento dai suoi sostenitori.


Comunque, lo strumento pervasivo della televisione consentì a Berlusconi di ambire a ben altro che al “semplice” successo economico.

Dalla ricchezza alla politica

Così, Silvio, da grande imprenditore di successo divenne un personaggio pubblico quanto mai popolare, tanto da far apparire quasi “naturale” la sua “discesa in campo” in politica. Dal dopoguerra fino ad allora la politica istituzionale era stata un mestiere riservato alla casta dei politicanti, quelli che sia da destra che da sinistra avevano scelto fin da ragazzi di dedicarsi alla “Res Publica”


Certo, c’era stata qualche eccezione, come quella di Gianni Agnelli, il padrone della Fiat, nominato “senatore a vita” per “meriti economici”, ma l’impegno politico diretto degli imprenditori si inaugura nel 1994 con la scelta di Berlusconi di contrapporre la sua coalizione di destra a quella del “centrosinistra” aggregata attorno al PDS di Achille Occhetto.


A spingere Berlusconi verso il potere politico furono anche le preoccupazioni sui rischi che stavano correndo le sue aziende e lui sapeva che a questo poteva mettere rimedio molto più facilmente agendo dalla “stanza dei bottoni”. Contava di poter penetrare con relativa facilità sulla scena politica, considerava la sparizione dei partiti moderati e centristi, distrutti dalle inchieste di “Mani pulite” e vedeva la sinistra ex-PCI impegnata in una delicata fase di transizione da partito operaio tradizionale a un’altra “cosa” (“la Cosa”: così veniva definita nei primi anni 90 la “creatura postcomunista” che stava nascendo dalle ceneri del PCI).


Così costruisce il “suo” partito, “Forza Italia”, che già nel nome richiama la sua identità beceramente ottimistica e populista, il suo voler trasferire nella politica il sostegno cieco e accanito tipico degli stadi. Lui si presenta come un uomo che non ha mai avuto nulla a che fare con la politica, sfruttando il momento di massimo discredito dei partiti, ma per costruire Forza Italia sostanzialmente da zero raccoglie tanti “naufraghi” dei vari partiti politici distrutti dalle inchieste sulla corruzione di “Tangentopoli”: ex democristiani, ex socialisti (compreso dalla “estrema sinistra socialista”, come Fabrizio Cicchitto), ex del PRI, ex del PLI. Ma anche alcuni intellettuali della sinistra “extraparlamentare”, come Giulio Savelli o Lucio Colletti.


La trasformazione del Partito comunista in Partito democratico di sinistra, invece di sopire l’anticomunismo di cui si era per decenni nutrita la politica del potere democristiano, al contrario lo rinfocola e lo trasforma nel collante con cui Berlusconi tiene insieme, attorno al suo Forza Italia, il Movimento sociale di Fini, intriso di nazionalismo esasperato, e la Lega Nord di Bossi, che aveva nel suo programma il secessionismo del Nord Italia dal resto del paese.


Oggi in un paese come l’Italia si parla tanto dell’arrivo al potere di Giorgia Meloni e del suo entourage fatto di militanti neofascisti. Ma occorre ricordare che a rendere “accettabili” nel governo i neofascisti fu già trent’anni fa Berlusconi, con il suo primo governo che comprendeva 5 o 6 ministri neofascisti e di cui fu vicepresidente del consiglio Giuseppe Tatarella, dirigente nazionale del Movimento sociale italiano, il partito fondato dai fascisti della Repubblica di Salò.

Berlusconi poco “liberale”?

I critici del berlusconismo attribuiscono al defunto ex presidente del consiglio il fatto di non aver tenuto fede alla sua promessa di “rivoluzione liberale”, di essersi troppo dedicato a tutelare i propri interessi privati e personali (sul piano giuridico e su quello economico) piuttosto che alla vera “modernizzazione” del paese.


Effettivamente i risultati dei quattro governi guidati da Berlusconi (1994-95, 2001-05, 2005-06, 2008-11) si sono caratterizzati sul piano formale soprattutto per le “leggi ad personam”, volte a tutelare le sue aziende spesso messe in pericolo da spericolate operazioni finanziarie o a preservare la sua persona dalle indagini giudiziarie a suo carico. Ma la sua azione “liberale” è stata tutt’altro che irrilevante; ne ricordiamo qui i risultati più significativi: 


  • la sua proposta di legge di attacco al sistema previdenziale del settembre 1994, che non venne approvata ma aprì la strada alla successiva analoga “legge Dini”, questa sì approvata l’anno successivo con il sostegno dei sindacati e di tutto il centrosinistra. L’operazione si “perfezionò” qualche anno dopo (nel 2004) con la legge Maroni-Tremonti e il suo “scalone”;

  • la legge 30 del 2003, conosciuta da tutti come legge Biagi, che cambiò il volto del mondo del lavoro in Italia, rendendo strutturale la precarietà dei contratti, con le inevitabili conseguenze nella diminuzione delle retribuzioni e nella perdita di diritti;

  • le riforme prima Moratti e poi Gelmini della istruzione e dell’università che hanno:

    • dequalificato la scuola, parificandola alla “formazione professionale” a cui da allora si può accedere già a 14 anni, definendo dunque un sistema formativo socialmente duale, 

    • tagliato pesantemente i finanziamenti all’istruzione pubblica incrementando quelli alle scuole private, 

    • stravolto la struttura della scuola primaria, smantellando le riforme conquistate nei decenni precedenti, 

    • spezzettato l’istruzione universitaria, sulla base dei modelli americani;

  • la riforma Brunetta della pubblica amministrazione che ha precarizzato anche il lavoro pubblico e ha fatto prevalere il criterio meritocratico, con la penalizzazione dei lavoratori ritenuti dai dirigenti “meno produttivi”;

  • la legge Bossi-Fini in materia di immigrazione del 2002 che condiziona ancora oggi la politica italiana in direzione dei migranti, creando il cortocircuito infernale per cui non si può sottoscrivere un contratto di lavoro se non si ha un permesso di soggiorno e non si può avere il permesso di soggiorno se non si ha un contratto di lavoro legale.


Certo, i suoi critici liberali avrebbero preteso molto di più, ma non dimentichiamo che Berlusconi, ancor più che con la magistratura, ha avuto a che fare con i due movimenti sindacali di massa più significativi degli ultimi decenni: quello dell’autunno del 1994 che comportò, il 24 ottobre di quell’anno, uno sciopero generale di dimensioni storiche e una manifestazione a Roma (12 novembre) di oltre un milione di persone e che portò alle dimissioni del primo governo Berlusconi, e quello del 2002 contro il progetto di legge “Biagi” a cui si contrapposero due straordinarie manifestazioni nazionali a Roma (23 marzo e 14 settembre), ritenute le più grandi nella storia della Repubblica.

Destra e sinistra nella stessa direzione

Comunque i critici liberali non hanno di che lamentarsi, visto che l’opera di “modernizzazione” che Berlusconi non ha potuto portare a compimento è stata perfezionata dai governi di centrosinistra o dai governi tecnici che si sono alternati negli anni con quelli di centrodestra:


  • le pensioni sono state definitivamente devastate dalla legge Fornero del governo Monti (2011);

  • il diritto del lavoro è stato ulteriormente aggredito dall’altra legge Fornero (2012) e dal Jobs Act del governo Renzi (2015);

  • altrettanto, l’istruzione è stata riformata con la legge sulla “buona scuola” di Renzi (2015).


Sul fisco i governi Berlusconi hanno abolito l’imposta sulle successioni e sulle donazioni (nel 2001) e l’imposta sulla “prima casa” (2008), e hanno abbattuto le aliquote sulle transazioni finanziarie (del 2008). Ma la pressione fiscale formale è rimasta pressoché invariata sotto tutti i vari governi degli ultimi trent’anni (attorno al 43%). La politica fiscale di tutti i governi (centrodestra, centrosinistra, tecnici) è andata sempre nella stessa direzione, spostando sempre più il peso del fisco sui redditi medio-bassi e in particolare su quelli dei lavoratori dipendenti e dei pensionati e sgravando i redditi alti e quelli delle imprese e dei lavoratori autonomi.


Quel che ha caratterizzato i governi Berlusconi è stata la legittimazione culturale e sostanziale degli strumenti dell’evasione e dell’elusione fiscale, di cui lo stesso presidente del consiglio è stato un accanito utilizzatore. E questo obiettivo è stato perseguito caparbiamente, raccontando barzellette sulle tasse, indicando che “lo stato non deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, che le indagini sugli evasori sono frutto di una “pratica di persecuzione della libera impresa”, ecc. e decretando di anno in anno successivi condoni “liberatori”, tanto che è noto che lo stesso Berlusconi nel 2006 è riuscito a sanare una sua accertata evasione di decine di milioni di euro pagando l’irrisoria cifra di 1.800 euro.


Sul piano istituzionale e costituzionale Berlusconi ha sapientemente sfruttato gli spazi che il centrosinistra aveva saputo offrirgli, con la prima trasformazione della legge elettorale dal modello proporzionale a quello prevalentemente maggioritario a turno unico (legge Mattarella, dal nome del suo ideatore, l’attuale e da tutti osannato presidente della Repubblica). Nel 1994 la coalizione guidata da Berlusconi trionfò anche perché, grazie a quel sistema e ai legami che il suo partito intratteneva con potenti settori della società siciliana, riuscì a conquistare tutti i 61 seggi elettorali dell’isola.


Poi, per opera del suo ministro Calderoli (della Lega Nord), il governo di destra è riuscito a peggiorare ulteriormente la legge elettorale (con la legge cosiddetta “porcellum”). 


La riforma complessiva della costituzione è stata tentata dal terzo governo Berlusconi nel 2006, in senso decisamente “presidenzialista”, ma è stata respinta al momento del referendum popolare confermativo (25 giugno 2006). Ma Berlusconi, come persona e come governante, è stato la concretizzazione plastica di un presidenzialismo praticato al di là della sua codificazione istituzionale, di una politica condotta da “un uomo solo al comando”, senza mediazioni istituzionali né il filtro dei partiti, ridotti a clientele a sostegno dei “leader”.


Peraltro, anche numerosi altri governi, non solo di destra, hanno adottato un analogo “stile” presidenzialista di fatto, con Renzi o Draghi. E, oggi con Giorgia Meloni. 


E’ evidente che una struttura presidenzialista è quella che meglio risponde all’esigenza di collegare strettamente il ruolo del leader (o della leader) con i peggiori umori popolari, per trasformare le “minoranze silenziose” in “maggioranze urlanti” e “governanti”.


Non casualmente, nell’agenda del governo Meloni, c’è ai primi posti proprio il progetto presidenzialista, accarezzato per anni dal MSI e dai suoi epigoni postfascisti, ricercato dalla destra nelle sue varie sfumature, sognato dal padronato per la sua presunta maggiore efficienza decisionale, evocato anche dai social-liberisti, in nome di una società svincolata da “incrostazioni ideologiche obsolete”.

I sindacati

Non bisogna dimenticare, infine, che tra i risultati “liberali” del berlusconismo c’è anche la messa a tacere del sindacalismo confederale. Abbiamo già ricordato i due grandissimi movimenti di massa che i sindacati organizzarono nel 1994 e poi nel 2002, il primo unitariamente CGIL, CISL e UIL e l’altro solo la CGIL.


Ma furono uno straordinario “canto del cigno”, perché dal 2002 ad oggi abbiamo assistito ad un progressivo ma inarrestabile fenomeno di paralisi della mobilitazione sindacale, nonostante i numerosi motivi di darsi da fare per difendere le conquiste sociali e sindacali. 


I sindacati confederali si sono ingabbiati nel corso dei primi anni 90 nella politica della “concertazione”, illudendosi che al timone del paese si sarebbero succeduti sempre “governi amici” o, almeno, governi “dialoganti”, disposti a discutere e condividere con le organizzazioni confederali le principali scelte in materia di economia e di politiche sociali, mantenendo dunque i vertici sindacali in un ruolo centrale per il paese.


Questo era stato concordato in maniera assolutamente miope negli accordi del luglio 1993. Ma l’illusione è durata molto poco. Solo un anno dopo la musica era già cambiata. Nel 1994 il governo era finito in mano a Berlusconi, ai postfascisti e ai leghisti, per niente intenzionati a mediare la propria politica con i sindacati. Ma il sindacato aveva ancora l’energia per scuotersi e opporsi, tanto da far cadere il primo governo di destra. Poi, però, la concertazione riapparse già nel 1995 con il governo Dini (ex ministro dell’Economia di Berlusconi) con cui i vertici sindacali concordarono una riforma delle pensioni sostanzialmente fotocopia di quella sonoramente bocciata l’anno precedente.


Da allora, iniziò la parabola discendente, splendidamente interrotta, ma non invertita, nel 2002 dalla manifestazione di tre milioni di persone nelle vie di Roma.


Da allora (quindi da oltre 20 anni a questa parte), i sindacati non hanno più preso significative iniziative di mobilitazione e hanno visto assottigliarsi e poi sparire del tutto i margini di concertazione e di “codeterminazione”, perfino con i governi di “centrosinistra” e con quelli “tecnici”, sempre più intenzionati a non farsi condizionare dagli “umori popolari” nella loro opera di “risanamento”. Così hanno scelto di adottare la politica della “limitazione del danno”, salvo accorgersi che il danno da limitare era sempre più grave e poi che non c’era più neanche lo spazio per limitarlo.

La destra e l’Italia senza Berlusconi

Dunque, l’impronta dell’avventura berlusconiana nella società e nella politica italiana resta e resterà indelebile.


Ne risente la cultura, ormai impregnata dalla pervasività dei frutti del trentennio di Berlusconi, compreso l’annullamento sostanziale della “pregiudiziale antifascista” che da grande parte dell’opinione pubblica è considerata solo un residuato di un’epoca finita.


Ne risente la politica istituzionale, che, tutta, da destra a “sinistra”, si inginocchia di fronte al mito della “centralità dell’impresa”, motore dello “sviluppo”, fonte di “lavoro” e di “benessere”, al cui primato devono sottostare anche i diritti sociali e la tutela ambientale.


L’idea capitalista, secondo la quale, se il fine è quello di arricchirsi, è consentito ogni strumento (favoritismi, corruzione, evasione fiscale), ha conquistato ampi strati di opinione pubblica: l’importante è il risultato.


Nonostante le ripetute prove del contrario (tra tutte basti citare che per sconfiggere la pandemia la società ha dovuto fare ricorso a quel poco di pubblico che è rimasto nella sanità), il “privato” continua ad essere presentato da tutti i media come di per sé bello, e il pubblico di per sé come fonte di inefficienza, di burocratismo e di corruzione.


Per la “crescita” è universalmente considerato necessario tagliare le tasse, soprattutto ai ceti più abbienti, e ogni idea di patrimoniale o di tassa di successione è considerata un “furto di stato”.


La precarietà del lavoro e della vita è ritenuta il prezzo da pagare alla globalizzazione e alla “competitività del paese”.


E anche in campo politico, mentre la destra ha scelto di radicalizzare il suo progetto e il suo discorso (dalla Democrazia cristiana a Berlusconi, poi a Salvini e ora a Meloni), la sinistra istituzionale, invece di accettare la sfida, ha deciso di assumere un atteggiamento sempre più moderato e conciliante (da Berlinguer a Occhetto, a Veltroni, a Renzi).


E così il sindacato, come abbiamo cercato di dire poco sopra.


Ora l’interrogativo è quale sarà il futuro della politica italiana senza Berlusconi.


L’illustre defunto era ormai l’unico collante che teneva insieme (e già con qualche difficoltà) il partito di Forza Italia. Non potrà certo sostituirlo efficacemente il vicepresidente Antonio Tajani. Per rafforzarne la scialba figura e farlo indicare “autorevolmente” come nuovo presidente, è dovuta intervenire, con un messaggio al partito, Marina Berlusconi, la primogenita di Silvio. Tajani, dunque, sarà nuovo presidente “reggente” di Forza Italia, in attesa di una soluzione più strutturale. E forse la stessa prima erede patrimoniale sarà anche la vera erede politica del “magnate”.


Ma, ormai, quel partito ha sostanzialmente già svolto il suo triste compito. Gli restano solo poche mission: da un lato il fornire una copertura “moderata” al governo di destra di Giorgia Meloni e al suo radicalismo reazionario e dall’altro il fare da “garante” dell’ormai dichiarato proposito di stipulare a Bruxelles un nuovo accordo di maggioranza tra il PPE di Manfred Weber e le formazioni di destra capitanate proprio da Meloni, escludendo o, comunque, mettendo ai margini il PSE. Ovviamente se i risultati elettorali del giugno 2024 lo consentiranno.

Quanto al partito in Italia, il compito di Tajani di evitare lo smottamento dei parlamentari e dei quadri verso altre formazioni sarà molto arduo.


Le formazioni centriste di Calenda (Azione) e di Renzi (Italia Viva) hanno aperto un’esplicita “campagna acquisti”. Quella di Giorgia Meloni è meno dichiarata, perché, si sa, tra alleati questo non si fa, o meglio si fa senza dirlo. Ma le possibilità di acquisizioni sono per lei e per Fratelli d’Italia molto più sostanziose, vista la diffusa presenza nel partito che fu di Berlusconi di quadri e dirigenti di comprovata cultura fascista (come Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato) o sfacciatamente razzisti (come Flavio Tosi, deputato ed ex sindaco di Verona).


La destra italiana tra neofascismo e conservatorismo

di Fabrizio Burattini


Dopo la valutazione politica dei risultati elettorali del 25 settembre, abbiamo scritto sulla “crisi della democrazia” e sul contesto sociale del paese. Nell’articolo qui sotto cerchiamo di analizzare l’itinerario politico che ha condotto il partito dei postfascisti italiani al governo. Ci soffermiamo sulle sue contraddizioni, sulle difficoltà politiche che ha di fronte ma anche sui suoi punti di forza.

Occorre dire che la strategia adottata da Giorgia Meloni e dal suo partito per dissimulare le proprie origini (post fasciste o neofasciste che dir si voglia) ha finora avuto un notevole successo.

Forza e contraddizioni delle “abiure” di Giorgia Meloni

Basti pensare che il sito Shalom.it si è accontentato senza troppe difficoltà delle “forti e chiare abiure” della Giorgia nazionale (in realtà molto scarne, volutamente ambigue e più dedicate a condannare il comunismo che il ventennio fascista). Il sito della Comunità ebraica romana è arrivato ad affermare che “la svolta è iniziata, adesso bisogna continuare”. Non a caso l’ex portavoce di quella stessa comunità, Ester Mieli, è persino stata eletta deputata nelle file di Fratelli d’Italia nelle recenti votazioni del 25 settembre.

Espliciti sono stati anche i riconoscimenti arrivati a Giorgia Meloni, ad esempio, da fonti insospettabili come il quotidiano britannico di orientamento social-liberale The Guardian, che ha dato pieno credito alla sua “presa di distanza dalle origini neofasciste di FdI”.

La “presa di distanza”, occorre sottolinearlo, è sempre verso alcuni aspetti del fascismo (“la privazione della democrazia”, “le infami leggi antiebraiche”…) ma mai dal fascismo in quanto tale. E’ troppo facile. Oggi la questione della soppressione formale delle libertà democratiche non si pone perché tali libertà sono diventate sempre più formali e meno sostanziali e, ancor più, per l’estrema debolezza delle forze politiche e sociali progressiste. Quanto alle leggi antiebraiche, l’antiebraismo è un pallino di esigue formazioni reazionarie. Oggi il razzismo, a causa delle epocali trasformazioni planetarie, ha modo di esprimersi in maniera molto più brutale ed efficace nell’islamofobia e nella “difesa delle radici dell’Europa”, non a caso definite “giudaico-cristiane” dalla stessa Meloni e dalla destra più estrema. E sono noti i legami tra il partito di FdI e il Likud israeliano di Netanyahu. 

Ma soprattutto quella “dissociazione” non diventa mai un’adesione all’antifascismo. Non so se qualcuno tra i numerosi giornalisti che l’hanno intervistata, le ha mai chiesto: “Ma lei, se fosse vissuta nel 1943-45, avrebbe sostenuto la Repubblica di Salò o la resistenza antifascista?”. Certo, a una domanda così, Giorgia Meloni risponderebbe in via preventiva affermando di essere nata nel 1977, dunque molto dopo gli anni della Resistenza antifascista. Ma questa risposta (che comunque la leader di FdI profonde a piene mani nella sua famosa biografia) non vale niente di fronte ad una domanda così cruciale. E’ un’indecente elusione, è come se, per rispondere ad una domanda su che cosa si pensa della schiavitù, si dicesse: “Il problema non mi riguarda, è stata abolita prima che io nascessi”.

Non vogliamo qui cimentarci nella valutazione su quanto fosse autentica e genuina la “svolta di Fiuggi” che Gianfranco Fini inaugurò nel 1995, sciogliendo il vecchio Movimento sociale italiano (MSI) e fondando Alleanza nazionale (AN), partito che in quel congresso definì “l’antifascismo momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”. Il partito di Alleanza nazionale è oggi scomparso. Ma vale la pena di sottolineare come FdI sia il partito in cui si sono raccolti molti degli ex militanti e dirigenti del MSI e poi di AN che in modo più o meno esplicito non condivisero la scelta di Fini o che la ingoiarono malvolentieri ritenendola solo una scelta “tattica” al fine di “legittimarsi” nella politica ufficiale.

Sì, perché in quegli anni, Silvio Berlusconi, da pochissimo impegnatosi in politica e alla ricerca di una più solida base politica e elettorale, ritenne di “costituzionalizzare” il partito postfascista di Gianfranco Fini che da MSI si stava trasformando in Alleanza nazionale, come si disse di “sdoganarlo”.

Giorgia Meloni nel 1995 era una giovane militante di base missina diciassettenne, ma già l’anno successivo cominciò ad emergere come figura politica seppur discretamente critica nei confronti della leadership di Fini e, intervistata da vari giornali, disse: “Benito Mussolini è stato un buon politico, il migliore della nazione degli ultimi cinquant’anni, tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per l’Italia” e, poi, molti anni dopo ebbe a dichiarare: “Fini mi ha ferito quando ha ucciso la destra italiana”. E lo definì la “mascotte dei poteri forti, della massoneria, delle grandi lobby”.

Primi successi nazionali e internazionali

La stampa e l’opinionismo mainstream, che avevano fatto di tutto nel disperato tentativo in extremis di scoraggiare l’elettorato a votare FdI, ora si sono largamente rassegnati al governo di estrema destra, ben consapevoli del fatto che l’azione politica di questo governo, sui punti economici e sociali centrali, non si discosterà significativamente da quella del “tanto amato” Mario Draghi: taglio delle tasse per i ceti più abbienti, riduzione delle spese sociali per i ceti in difficoltà, privatizzazioni, aiuti alle imprese, liberalizzazioni, greenwashing prudente, atlantismo spinto… Se poi questa politica comporterà anche qualche importante passo indietro sul terreno dei diritti civili, in termini razzisti, omofobici, misogini e antidemocratici, con un europeismo “sovranista”, beh, le classi dominanti non sono poi così preoccupate. Purché l’Italia non si isoli dal consesso delle “nazioni più potenti”.

Quanto a queste nazioni più potenti, anche in quell’ambito, la preoccupazione per l’anomalia di un governo a guida postfascista sembra essere sfumata in pochi giorni. Appena insediata, Giorgia Meloni il 3 novembre è stata accolta con la massima cordialità dai massimi esponenti dell’Unione europea (la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio UE Jean Charles Michel), che, come ha dichiarato la Meloni stessa: “hanno scoperto che il mio governo non è composto da marziani”. E, molto evidentemente, non si sono affatto spaventati per qualche dichiarazione tiepidamente “sovranista” del tipo: “siamo qui per collaborare, ma anche per difendere gli interessi nazionali nell’ambito dell’Unione europea” oppure vagamente tardo gollista come: “l’Europa vive nelle identità della sue nazioni, nelle tradizioni dei suoi popoli, nei sogni dei suoi giovani e nelle speranze dei suoi cittadini”.

D’altra parte i dirigenti centristi della UE avranno anche considerato che Giorgia Meloni può diventare utile nelle future necessarie ricomposizioni delle maggioranze di governo nell’Unione, vista la sua forza elettorale attuale in Italia (che, salvo sorprese, si rifletterà anche nella ridefinizione della composizione della delegazione italiana al momento delle elezioni europee che avranno luogo tra un anno e mezzo), e visto il suo ruolo di presidente del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (ECR), che già ora controlla oltre 60 deputati nel parlamento di Strasburgo. 

E, al vertice G20 di Bali, Giorgia Meloni ha avuto buon gioco per accreditarsi anche a livello mondiale, sia con il suo esordio come rappresentante italiana nel consesso dei “grandi della Terra” (e su questo piano ha potuto vantare il fatto di essere stata l’unica donna tra i venti leader) sia negli incontri bilaterali con Joe Biden, con Xi Jinping, con Narendra Modi e con Justin Trudeau. Tutti questi esponenti politici, pur nei loro diversi orientamenti politici e geopolitici, a stare alle loro dichiarazioni e ai loro twitter, hanno espresso grande apprezzamento per la giovane leader italiana.

E’ del tutto evidente che anche costoro, a Bruxelles come a Bali, hanno constatato con piacere che Giorgia Meloni condivide in pieno le loro idee sui principali nodi politici ed economici e, dunque, non è affatto il caso di indugiare o recriminare su qualche aspetto della sua identità (razzismo, patriarcalismo, omofobia…) che loro considerano sostanzialmente “marginale”.

Resta aperta in questi giorni la partita con la Francia e con il suo presidente Emmanuel Macron sulla vicenda della nave Ocean Viking e con i suoi 230 migranti, ma non è difficile pronosticare che anche questo “incidente” sarà presto ridimensionato, superato e dimenticato. Sull’irrigidimento di Macron incide non tanto il disgusto per la gestione razzista e discriminatoria che il governo di FdI ha fatto della questione migranti e ONG, ma soprattutto il timore che il successo politico di Giorgia Meloni (sia a livello elettorale che a livello mediatico) costituisca un ulteriore fattore di rafforzamento della sua antagonista Marine Le Pen e del suo Rassemblement national. FdI, con il voto del 25 settembre, ha conquistato il risultato elettorale migliore di tutta l’estrema destra europea e questo risultato, se sarà mantenuto (i sondaggi più recenti indicano un’ulteriore crescita), spingerà ancora più avanti anche le altre forze dell’estrema destra del continente.

Il lungo percorso che ha portato a Fratelli d’Italia

Per tutte queste ragioni, per un giudizio più compiuto sulla destra e sull’estrema destra italiana, occorre ripercorrere l’itinerario di questa corrente nel corso del dopoguerra.

Fratelli d’Italia, com’è noto, nasce nel dicembre 2012 in seguito alla scissione dal partito berlusconiano Popolo della Libertà della corrente allora guidata dall’attuale presidente del senato Ignazio La Russa. Ma in realtà, salvo i pochi uomini portati dall’ex democristiano Guido Crosetto, tutto il personale del nuovo partito aveva e ha un curriculum politico proveniente dal Movimento sociale italiano, il partito fondato da Giorgio Almirante e da numerosi altri reduci della Repubblica sociale fascista, alleata con la Germania nazista. 

Paradossalmente, proprio grazie alla forza di un movimento di resistenza antifascista che invece non esistette in Germania, gli “alleati” ritenettero nel 1945 che l’Italia fosse capace di rompere con il passato fascista e di uscirne sostanzialmente da sola. E, inoltre, vista la forza del movimento operaio italiano, ritennero anche di non dover infierire troppo contro i reduci del fascismo, perché sarebbero potuti tornare utili in caso di necessità. Così, l’Italia, al contrario della Germania, non conobbe un processo analogo a quello intentato contro i nazisti a Norimberga, né una reale punizione dei principali dirigenti del regime fascista.

Inoltre, con il dichiarato intento di “avviare rapidamente il paese a condizioni di pace politica e sociale”, nel giugno del 1946 Palmiro Togliatti (il massimo dirigente del Partito comunista italiano e allora ministro di Grazia e giustizia) condonò con un’amnistia ogni reato a coloro che erano stati “collaborazionisti” con i nazisti, tra quali potevano essere annoverati appunto Giorgio Almirante e gli altri “padri fondatori” del MSI. Non a caso la fondazione del nuovo partito fascista MSI avvenne nel novembre 1946, dunque solo pochi mesi dopo l’improvvida amnistia.

“Italiani, brava gente”

La vicenda di quella amnistia ha giocato pesantemente a far sì che il “paese profondo” non facesse i conti con il passato fascista (che, non dimentichiamolo, aveva coinvolto la grande maggioranza del popolo italiano). Si creò così il mito di “Italiani, brava gente”, il mito di un’Italia che, pur se fascista e colonialista, in realtà avrebbe esercitato la dittatura e il colonialismo in maniera amabile e paterna, con la conseguenza di “condonare”, rimuovere e perlomeno minimizzare l’efferatezza dei crimini delle squadracce fasciste e degli eserciti coloniali italiani prefascisti e fascisti in Libia, in Etiopia, in Somalia, in Eritrea, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia e nell’Italia stessa. Solo pochi autori (tra i quali vale la pena di ricordare Angelo Del Boca), nei decenni del dopoguerra, ebbero il coraggio di proporre una lettura attenta e senza sconti dei crimini commessi.

Dunque, fu questo il contesto nel quale, sostanzialmente senza problemi, solo un anno e mezzo dopo il 25 aprile 1945, venne fondato il MSI. Le radici repubblichine e dunque “anticapitaliste” e “antiamericane” del partito vennero rapidamente superate tanto che nel 1949 Giorgio Almirante dichiarò il suo consenso all’adesione dell’Italia alla NATO antisovietica. Il MSI fu un partito che in certe fasi riuscì ad aggregare un’importante base elettorale (e in piccola misura anche militante) soprattutto al Sud del paese e soprattutto in quella che potremmo definire la “lumpenborghesia” antioperaia, anticomunista e qualunquista, per riprendere la definizione che Andre Gunder Frank utilizzò nei suoi scritti sull’America latina.

Nel MSI rimase solo una piccola componente minoritaria legata al falso “anticapitalismo fascista”, quella di Pino Rauti e dei suoi seguaci, con un orientamento “terzaforzista” ispirato a Julius Evola, “né con il capitalismo né con il socialismo”. Sulla base di queste impostazioni, Rauti e la sua corrente ebbero negli anni frequenti interlocuzioni con i gruppuscoli del terrorismo nero e, nel 1995, in dissenso con lo scioglimento del MSI e con la “svolta di Fiuggi” di Gianfranco Fini, dettero vita al Movimento sociale italiano – Fiamma tricolore.

Anche i reduci di questa avventura politica avversa ad ogni revisionismo sul passato fascista, con a capo Isabella Rauti, figlia del vecchio Pino Rauti, nel 2014 molto eloquentemente confluirono nel neonato partito di Fratelli d’Italia.

Poco più di un anno fa il giornale online Fanpage, con una sua videoinchiesta, pubblicizzò la sfrontata presenza nelle file di FdI di numerosi neofascisti fanatici, molti anche provenienti dai gruppuscoli del neofascismo violento, e Giorgia Meloni, già avviata verso la sua resistibile ascesa elettorale, fu costretta a minimizzare e a promettere del tutto improbabili “approfondimenti” da parte della direzione del partito. Ma la realtà è lapalissiana: salvo l’importante ma isolata eccezione di Guido Crosetto, tutta la rappresentanza parlamentare, tutto il gruppo dirigente e grandissima parte della militanza del partito proviene da quel percorso (altro discorso è per la sua base elettorale): in buona sostanza, FdI è il partito dei delusi dello scioglimento del MSI, di coloro che ritenevano, purtroppo fondatamente, che fosse arrivato il momento di uscire dal ghetto senza dover cambiare identità, il contrario di quel che aveva fatto Gianfranco Fini.

Ma l’impostazione ultra identitaria di FdI dei primi anni non fa andare il partito oltre l’1,96% (660.000 voti nelle elezioni del 2013). La scelta di Ignazio La Russa e di Giorgia Meloni di mettere un po’ ai margini del partito le frange più identitarie aiutò il partito a crescere facendogli conquistare nelle elezioni del 2018 il 4,33% (1,4 milioni di voti): comunque un risultato marginale.

La destra italiana e la “discriminante antifascista”

Ma occorre qui riprendere il discorso già toccato sul rapporto del popolo italiano con il passato fascista. 

C’è un elettorato socialmente e tradizionalmente collocato a destra (nel dopoguerra con la Democrazia cristiana, dal 1994 con Berlusconi) per il quale l’antitesi fascismo-antifascismo non ha una rilevanza significativa. Per decenni il motore di questo elettorato fu in realtà l’antitesi tra comunismo e anticomunismo. E questo elettorato è stato facilmente sedotto fin dal 1994 da Berlusconi proprio con la sua demagogia anticomunista, che peraltro venne agitata anni e anni dopo lo scioglimento anche formale del vecchio Partito comunista italiano (1991).

Vale la pena di dire che in Italia non è mai esistita una significativa “destra antifascista”

Ma nelle elezioni degli ultimi decenni abbiamo assistito anche a progressivi, importanti smottamenti verso il voto a destra da parte di considerevoli settori di elettorato tradizionalmente di sinistra, o almeno non di destra, rimuovendo definitivamente ogni discriminante antifascista.

Quanto alla rimozione della discriminante antifascista, occorre non dimenticare il contributo dato dal partito degli epigoni del PCI (PDS, DS, oggi PD) nel suo sforzo di presentarsi come partito della “pacificazione nazionale”. Emblematico fu l’invito di Luciano Violante (nel 1996) a “sforzarsi di capire i motivi per cui migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze si schierarono dalla parte della Repubblica di Salò”.

E questo “smottamento elettorale” da sinistra verso l’astensionismo ma anche verso destra, abbinato agli effetti dell’indebolimento del partito di Berlusconi e del suo leader, alla fragilità politica del progetto della Lega di Salvini e alla “volatilità” e alla “permeabilità interpartitica” dell’elettorato, ha reso possibile la crescita di FdI alle elezioni del 25 settembre scorso.

Alla crescita di FdI, poi, negli scorsi anni della pandemia, ha contribuito anche l’opposizione ostentata contro tutte le restrizioni messe in atto per contenere il contagio: mascherine, vaccini, lockdown, chiusure dei pubblici esercizi… E’ stata una scelta scaltra e spregiudicata per solleticare quella parte, ahimé vasta, del paese che interpreta la “libertà” come arbitrio, che mette i propri interessi immediati e miopi di fronte alle necessità collettive. 

C’è un’importante base sociale, nella piccola borghesia incattivita dalla crisi, nella diffusa borghesia piccola e media dell’evasione fiscale, ma anche in settori popolari colpiti dalla politica neoliberale di Mario Draghi e dei governi precedenti, soggiogati dagli slogan razzisti e reazionari e affascinati dalla “coerenza dell’opposizione” di Giorgia Meloni. Un’opposizione che ha saputo coniugare radicalità demagogica e atteggiamento parlamentare “responsabile”. Un’opposizione che non ha mai veramente avversato il “governo del banchiere” ma che si è sempre concentrata “contro il governo della sinistra”. Il tutto accreditato dalla scelta della “sinistra di governo”, cioè del PD, di mostrarsi più “draghiana” di Draghi.

Le difficoltà e i punti di forza di Giorgia Meloni

Il progetto di Giorgia Meloni è tutt’altro che una strada in discesa. 

In primo luogo, il difficilissimo contesto storico ed economico rende intrinsecamente problematico il progetto. Governare un paese in profonda crisi ambientale, economica, sociale, politica, persino culturale è un’impresa molto più complessa di quella di vincere le elezioni.

Inoltre quel progetto ha altri significativi punti di debolezza. Il partito FdI è stato messo in riga dal gruppo dirigente e in qualche modo è stato costretto a mettere in soffitta gli elementi simbolici ed identitari più scomodi per il ruolo che ormai ha conquistato. Ma quegli elementi restano e, di fronte a fatti oggi imprevisti, non tarderebbero a riemergere mettendo a nudo la doppiezza meloniana

Il progetto ha una base parlamentare composita e litigiosa, segnata dalla competizione e dalla concorrenzialità tra i leader della coalizione. Così come lei ha cannibalizzato la base elettorale dei suoi alleati, altrettanto cercheranno di fare questi ultimi, anche se il trend di crescita che FdI sta registrando nei sondaggi anche dopo le elezioni potrebbe scoraggiare una contesa che potrebbe rivelarsi controproducente per i berlusconiani e per Salvini.

FdI ha un impianto territoriale estremamente più fragile dei suoi alleati che da decenni si sono costruiti una rete di amministratori locali, di sindaci, di “governatori” regionali (FdI, per il momento ha dalla sua solo il presidente della piccola regione delle Marche, tra le 14 regioni del paese amministrate dalla destra). Certo, questa marginalità è destinata a cambiare, visto che il partito ora detiene alcune delle più importanti leve del potere nazionale e c’è alle porte l’occasione delle elezioni regionali anticipate del Lazio dove il candidato della coalizione di destra sarà certamente di FdI.

Sul piano sindacale, il sindacato di destra UGL (Unione Generale del Lavoro), che un tempo, anche se con un nome diverso, fiancheggiava il MSI, nonostante dichiari quasi 2 milioni di aderenti, non è mai stato in grado di rivaleggiare veramente con i sindacati confederali, anche se ora potrà godere di avere il “partito di riferimento” nella “stanza dei bottoni”. Inoltre la CISL, il secondo sindacato italiano, ha già ampiamente manifestato la sua disponibilità ad avere un atteggiamento “benevolo” verso il governo della destra. E gli altri due sindacati confederali (CGIL e UIL) hanno dichiarato di von voler adottare un comportamento di “opposizione preconcetta”.

Ma ci sono anche elementi che rafforzano il progetto di Giorgia Meloni e del suo partito.

Nel panorama della destra italiana Giorgia Meloni appare quella nettamente più affidabile sul piano dell’atlantismo. A differenza dei suoi “amici”, Salvini e Berlusconi, non ha scheletri putiniani nell’armadio. Inoltre il suo partito può vantare una traiettoria anticomunista molto più lineare di Berlusconi e in particolare di Salvini (con i suoi trascorsi giovanili di “comunista padano” e con la sua avventurosa alleanza con il Movimento 5 Stelle). Sono inoltre chiari e netti i suoi legami con importanti partiti conservatori europei ed extra-europei, alcuni dei quali al potere da anni.

Non va dimenticato inoltre che FdI è un partito che ha una indubbia propensione nazionale, a differenza della Lega che, nonostante gli sforzi di Salvini, sconta gli effetti della sua origine come partito “nordista”. 

Inoltre, Giorgia Meloni è riuscita agevolmente a far fruttare sul terreno politico la “questione di genere”, il suo inedito ruolo di unica leader di partito donna e di prima donna presidente del consiglio dei ministri. Noi possiamo sottolineare tutte le ambiguità e tutto il maschilismo che si cela sotto questa operazione, ma resta che al grande pubblico femminile e maschile arriva un ulteriore messaggio di un positivo “cambiamento”. E i “poteri forti” nazionali e internazionali stanno usando a piene mani questa “novità” nel loro proposito di presentare come tutto sommato positiva la nuova leadership italiana.

Né va trascurata un’altra carta che Meloni non ha ancora giocato: quella di essere una self made woman, una donna “non laureata”, proveniente da un quartiere popolare (anche se, prima di essere abbandonata dal padre, abitava in un quartiere esclusivo), cresciuta nella militanza diretta e non in qualche consorteria politica di potere. Sono anche questi argomenti che mordono sull’elettorato. 

Insomma una Giorgia Meloni che non è affatto una replica al femminile della “meteora Salvini”. Un’esponente politica che sa usare, come fecero molto abilmente ma colpevolmente negli anni che furono molti dirigenti della sinistra, una “doppiezza”, un linguaggio doppio: la radicalità reazionaria nei comizi di fronte alla base del partito o alle kermesse di Vox e un discorso “responsabile”, neoliberale, atlantista, europeista e confindustriale verso le classi dominanti nazionali e internazionali.

Il capo della Lega con il suo disinvolto itinerario politico ha mostrato alla grande borghesia italiana la sua inaffidabilità come leader nazionale mentre Giorgia Meloni sta cercando, per il momento con successo, di costruire una sua immagine di credibile strumento per la soluzione della pluridecennale crisi del sistema politico del paese. Il suo progetto è molto diverso da quello affarista che fu di Berlusconi, si basa su un’idea di società aberrante ma a suo modo coerente. Certo, non c’è niente di inedito in tutto ciò. D’altra parte le politiche monetarie e liberiste sono state sperimentate per la prima volta proprio in Cile dai Chicago Boys, combinandole con la sanguinaria dittatura di Pinochet. E il liberismo economico è praticato a piene mani da anni in numerose “democrature”, come quella russa di Putin, quella indiana di Modi, quella brasiliana di Bolsonaro, solo per citarne alcune. Insomma, Giorgia Meloni, il suo partito, il suo progetto e il suo governo vogliono essere la dimostrazione vivente di quanto il neoliberismo economico più radicale possa essere conciliabile con il conservatorismo culturalmente reazionario, antidemocratico e classista, anche nell’Europa occidentale in barba alla suo presunto “modello di democrazia”.