Si sono svolti alcuni giorni fa a Milano i funerali di Silvio Berlusconi: un vero e proprio rito “nazionalpopolare” come sarebbe piaciuto all’illustre defunto.
In un clima da stadio fuori del duomo, gli “orfani del cavaliere” gridavano: “Chi non salta è un comunista”… Da un lato della piazza i tifosi del Milan (la squadra di calcio per lungo tempo presieduta da Berlusconi) intonavano “C’è un solo un presidente, c’è un solo presidente, Silvio, Silvio”, all’altro capo del sagrato il picchetto dei corazzieri scortava il presidente Sergio Mattarella all’interno della chiesa.
E là dentro si svolgeva una kermesse improntata ad una tristezza di maniera, con un rito non dissimile alle esequie di un monarca, con centinaia di VIP (in tutti gli ambiti, dallo sport alla politica, dall’economia allo spettacolo) che sfoggiavano abiti a lutto da decine di migliaia di euro e piangevano il loro “benefattore”. Sì, perché molti di loro, senza Silvio sarebbero rimasti degli “illustri nessuno”. Non a caso l’inno del partito di Forza Italia era intitolato “Meno male che Silvio c’è”…
La rimozione dell’antiberlusconismo
I latini, un tempo, dicevano: “De mortuis nihil nisi bonum”, cioè “Sui morti, o si tace o si parla bene”. Di fronte a questa alternativa, il mondo politico e mediatico italiano (salvo qualche rarissima e coraggiosa eccezione) non ha esitato e ha organizzato all’unisono delle esequie degne del “padre della patria”.
Sì, certo, c’è stata qualche polemica sulla decisione del governo di decretare per il 14 giugno (il giorno dei “solenni funerali di stato”) anche una giornata di “lutto nazionale”, con le bandiere esposte a mezz’asta all’ingresso degli edifici pubblici, un minuto di silenzio nelle scuole pubbliche (fortunatamente già chiuse per le vacanze estive) e la cancellazione, per un’intera settimana, di tutti gli impegni ufficiali dei principali organi istituzionali.
E’ stata di colpo rimossa, a reti unificate, ogni considerazione sulla sua folgorante carriera che in pochi anni lo ha trasformato da piccolo e squattrinato animatore dei saloni delle navi da crociera e da venditore ambulante di aspirapolvere nel terzo uomo più ricco d’Italia (secondo Forbes, il 352° più ricco del mondo), con un patrimonio stimato in 6,4 miliardi di dollari, sui suoi legami per niente oscuri con gli ambienti della mafia siciliana e con il golpismo reazionario della loggia massonica di Licio Gelli, sui favoritismi politici che gli hanno aperto la strada prima nel mondo dell’edilizia e poi in quello delle televisioni, sui suoi rapporti con il fisco, fatti di evasioni e di frodi, sul suo squallido ma esibito maschilismo.
L’impronta di Berlusconi in Italia e non solo
Ormai da una settimana, tutti i canali televisivi e tutti i mezzi di comunicazione ci ripetono che lui “ha lasciato un’impronta indelebile nella storia d’Italia”. Ed è effettivamente vero, perché l’Italia, dopo trent’anni di “berlusconismo” è effettivamente molto peggiore del passato, in termini politici, democratici, sociali, culturali. E su questo piano l’apporto di Berlusconi è stato determinante.
E lo è stato anche a livello internazionale. Berlusconi si colloca, evidentemente, nel solco del “neoliberismo” aperto negli anni 80 da Margareth Thatcher e da Ronald Reagan, ma, negli anni 90, lui ha “arricchito” quel neoliberismo con uno stile demagogico reazionario, oscurantista e affarista fino ad allora inconcepibile nella politica del dopoguerra, uno stile che ha rapidamente fatto decine di proseliti in altrettanti “leader” internazionali, da Bolsonaro in Brasile a Trump negli USA, a Modi in India, a Putin in Russia, solo per citare i principali.
Vale la pena di ricordare alcune tappe della “resistibile” ascesa di Silvio Berlusconi.
Agente immobiliare nei primi anni 60 e poi, nella seconda metà del decennio, imprenditore edile, quando con i giusti appoggi politici e con il sostegno di un oscuro fondo finanziario svizzero si potevano costruire interi quartieri nelle metropoli del nord investite dal boom economico, poi, nei primi anni 80, gli interessi di Berlusconi si spostano radicalmente verso il settore delle comunicazioni, con l’acquisto di “Telemilano”, che diverrà l’embrione della tv commerciale firmata prima Fininvest e poi Mediaset.
Anche qui Berlusconi sa avvalersi dei favori della politica e delle banche, comprese quelle gestite da Michele Sindona per conto di ambienti mafiosi, che gli hanno concesso lauti finanziamenti a tassi agevolatissimi. Berlusconi peraltro non negò mai i suoi legami con personaggi notoriamente mafiosi, in particolare l’ex senatore Marcello Dell’Utri (cofondatore di Forza Italia, condannato in via definitiva per mafia), il boss Stefano Bontate (che negli anni 70 era la massima “autorità” nel mondo della mafia), il malavitoso Vittorio Mangano (che il giudice Borsellino definì “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa del Nord Italia”).
Lo strumento delle televisioni
Grazie al sodalizio con il “socialista” Bettino Craxi ottenne l’emanazione prima di un decreto (1984) e poi di una legge (la legge Mammì del 1990) che “legalizzò” il suo monopolio di fatto sulla televisione privata. La legge fu così controversa, da indurre cinque ministri della corrente democristiana di sinistra ad uscire dal governo.
Come scrive il teologo laico Vito Mancuso sulla “Stampa” del 13 giugno:
“il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io… Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa di più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio […] Il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla di più importante di Me”.
E le televisioni di Berlusconi, i loro show, i loro personaggi, il loro stile seppero avvelenare con quella nuova “religione” il costume, il modello di società, la politica, il rapporto con le donne e quello con il potere. Anche la televisione pubblica in pochi anni si trasformò, per inseguire quella commerciale nella ricerca dei finanziamenti pubblicitari, l’editoria si concentrò nelle mani di Berlusconi, il mito del self made man (che l’affarista seppe farsi costruire addosso anche con abili campagne di stampa e diffondendo a centinaia di migliaia di copie un libro patinato che illustrava la sua vita) penetrò nella coscienza di milioni di italiane e di italiani, e soprattutto, ovviamente, nello sterminato mondo dei padroncini della piccola e piccolissima impresa di cui è fatta grandissima parte dell’economia nazionale.
La mercificazione di tutto
Fino a quell’epoca, i ricchi non ostentavano le proprie ricchezze, con il timore di aizzare l’invidia sociale. Da Berlusconi in poi, invece, la ricchezza inizia ad essere esibita e diventa un veicolo di prestigio, un modello di vita, un pungolo per tanti che iniziano ad illudersi: “ce la posso fare anch’io”.
La ricerca del “successo” nella “popolarità” e nel “portafoglio” si diffonde al di sopra di qualunque scrupolo etico: con la legittimazione dell’evasione fiscale, con la mercificazione di qualunque cosa, dai favori delle donne al sostegno dei parlamentari, tutto ridotto alla stregua del “calciomercato”.
Vale la pena di ricordare la sua smania (è il termine più calzante) di ostentare lo stile usato nel suo rapporto con le donne, fatto di barzellette volgari, di cene con i suoi sodali “allietate” da esibizioni pruriginose, del mantenimento di harem di escort. Il tutto in un paese nel quale continuava e continua ad imperare un maschilismo violento e una fortissima disparità nelle opportunità tra i sessi. Sono passate alla storia le sue battute volgari su Angela Merkel e su Rosy Bindi, ex ministra cristiana di sinistra, battute culturalmente devastanti, ma accolte con compiacimento dai suoi sostenitori.
Comunque, lo strumento pervasivo della televisione consentì a Berlusconi di ambire a ben altro che al “semplice” successo economico.
Dalla ricchezza alla politica
Così, Silvio, da grande imprenditore di successo divenne un personaggio pubblico quanto mai popolare, tanto da far apparire quasi “naturale” la sua “discesa in campo” in politica. Dal dopoguerra fino ad allora la politica istituzionale era stata un mestiere riservato alla casta dei politicanti, quelli che sia da destra che da sinistra avevano scelto fin da ragazzi di dedicarsi alla “Res Publica”.
Certo, c’era stata qualche eccezione, come quella di Gianni Agnelli, il padrone della Fiat, nominato “senatore a vita” per “meriti economici”, ma l’impegno politico diretto degli imprenditori si inaugura nel 1994 con la scelta di Berlusconi di contrapporre la sua coalizione di destra a quella del “centrosinistra” aggregata attorno al PDS di Achille Occhetto.
A spingere Berlusconi verso il potere politico furono anche le preoccupazioni sui rischi che stavano correndo le sue aziende e lui sapeva che a questo poteva mettere rimedio molto più facilmente agendo dalla “stanza dei bottoni”. Contava di poter penetrare con relativa facilità sulla scena politica, considerava la sparizione dei partiti moderati e centristi, distrutti dalle inchieste di “Mani pulite” e vedeva la sinistra ex-PCI impegnata in una delicata fase di transizione da partito operaio tradizionale a un’altra “cosa” (“la Cosa”: così veniva definita nei primi anni 90 la “creatura postcomunista” che stava nascendo dalle ceneri del PCI).
Così costruisce il “suo” partito, “Forza Italia”, che già nel nome richiama la sua identità beceramente ottimistica e populista, il suo voler trasferire nella politica il sostegno cieco e accanito tipico degli stadi. Lui si presenta come un uomo che non ha mai avuto nulla a che fare con la politica, sfruttando il momento di massimo discredito dei partiti, ma per costruire Forza Italia sostanzialmente da zero raccoglie tanti “naufraghi” dei vari partiti politici distrutti dalle inchieste sulla corruzione di “Tangentopoli”: ex democristiani, ex socialisti (compreso dalla “estrema sinistra socialista”, come Fabrizio Cicchitto), ex del PRI, ex del PLI. Ma anche alcuni intellettuali della sinistra “extraparlamentare”, come Giulio Savelli o Lucio Colletti.
La trasformazione del Partito comunista in Partito democratico di sinistra, invece di sopire l’anticomunismo di cui si era per decenni nutrita la politica del potere democristiano, al contrario lo rinfocola e lo trasforma nel collante con cui Berlusconi tiene insieme, attorno al suo Forza Italia, il Movimento sociale di Fini, intriso di nazionalismo esasperato, e la Lega Nord di Bossi, che aveva nel suo programma il secessionismo del Nord Italia dal resto del paese.
Oggi in un paese come l’Italia si parla tanto dell’arrivo al potere di Giorgia Meloni e del suo entourage fatto di militanti neofascisti. Ma occorre ricordare che a rendere “accettabili” nel governo i neofascisti fu già trent’anni fa Berlusconi, con il suo primo governo che comprendeva 5 o 6 ministri neofascisti e di cui fu vicepresidente del consiglio Giuseppe Tatarella, dirigente nazionale del Movimento sociale italiano, il partito fondato dai fascisti della Repubblica di Salò.
Berlusconi poco “liberale”?
I critici del berlusconismo attribuiscono al defunto ex presidente del consiglio il fatto di non aver tenuto fede alla sua promessa di “rivoluzione liberale”, di essersi troppo dedicato a tutelare i propri interessi privati e personali (sul piano giuridico e su quello economico) piuttosto che alla vera “modernizzazione” del paese.
Effettivamente i risultati dei quattro governi guidati da Berlusconi (1994-95, 2001-05, 2005-06, 2008-11) si sono caratterizzati sul piano formale soprattutto per le “leggi ad personam”, volte a tutelare le sue aziende spesso messe in pericolo da spericolate operazioni finanziarie o a preservare la sua persona dalle indagini giudiziarie a suo carico. Ma la sua azione “liberale” è stata tutt’altro che irrilevante; ne ricordiamo qui i risultati più significativi:
-
la sua proposta di legge di attacco al sistema previdenziale del settembre 1994, che non venne approvata ma aprì la strada alla successiva analoga “legge Dini”, questa sì approvata l’anno successivo con il sostegno dei sindacati e di tutto il centrosinistra. L’operazione si “perfezionò” qualche anno dopo (nel 2004) con la legge Maroni-Tremonti e il suo “scalone”;
-
la legge 30 del 2003, conosciuta da tutti come legge Biagi, che cambiò il volto del mondo del lavoro in Italia, rendendo strutturale la precarietà dei contratti, con le inevitabili conseguenze nella diminuzione delle retribuzioni e nella perdita di diritti;
-
le riforme prima Moratti e poi Gelmini della istruzione e dell’università che hanno:
-
dequalificato la scuola, parificandola alla “formazione professionale” a cui da allora si può accedere già a 14 anni, definendo dunque un sistema formativo socialmente duale,
-
tagliato pesantemente i finanziamenti all’istruzione pubblica incrementando quelli alle scuole private,
-
stravolto la struttura della scuola primaria, smantellando le riforme conquistate nei decenni precedenti,
-
spezzettato l’istruzione universitaria, sulla base dei modelli americani;
-
la riforma Brunetta della pubblica amministrazione che ha precarizzato anche il lavoro pubblico e ha fatto prevalere il criterio meritocratico, con la penalizzazione dei lavoratori ritenuti dai dirigenti “meno produttivi”;
-
la legge Bossi-Fini in materia di immigrazione del 2002 che condiziona ancora oggi la politica italiana in direzione dei migranti, creando il cortocircuito infernale per cui non si può sottoscrivere un contratto di lavoro se non si ha un permesso di soggiorno e non si può avere il permesso di soggiorno se non si ha un contratto di lavoro legale.
Certo, i suoi critici liberali avrebbero preteso molto di più, ma non dimentichiamo che Berlusconi, ancor più che con la magistratura, ha avuto a che fare con i due movimenti sindacali di massa più significativi degli ultimi decenni: quello dell’autunno del 1994 che comportò, il 24 ottobre di quell’anno, uno sciopero generale di dimensioni storiche e una manifestazione a Roma (12 novembre) di oltre un milione di persone e che portò alle dimissioni del primo governo Berlusconi, e quello del 2002 contro il progetto di legge “Biagi” a cui si contrapposero due straordinarie manifestazioni nazionali a Roma (23 marzo e 14 settembre), ritenute le più grandi nella storia della Repubblica.
Destra e sinistra nella stessa direzione
Comunque i critici liberali non hanno di che lamentarsi, visto che l’opera di “modernizzazione” che Berlusconi non ha potuto portare a compimento è stata perfezionata dai governi di centrosinistra o dai governi tecnici che si sono alternati negli anni con quelli di centrodestra:
-
le pensioni sono state definitivamente devastate dalla legge Fornero del governo Monti (2011);
-
il diritto del lavoro è stato ulteriormente aggredito dall’altra legge Fornero (2012) e dal Jobs Act del governo Renzi (2015);
-
altrettanto, l’istruzione è stata riformata con la legge sulla “buona scuola” di Renzi (2015).
Sul fisco i governi Berlusconi hanno abolito l’imposta sulle successioni e sulle donazioni (nel 2001) e l’imposta sulla “prima casa” (2008), e hanno abbattuto le aliquote sulle transazioni finanziarie (del 2008). Ma la pressione fiscale formale è rimasta pressoché invariata sotto tutti i vari governi degli ultimi trent’anni (attorno al 43%). La politica fiscale di tutti i governi (centrodestra, centrosinistra, tecnici) è andata sempre nella stessa direzione, spostando sempre più il peso del fisco sui redditi medio-bassi e in particolare su quelli dei lavoratori dipendenti e dei pensionati e sgravando i redditi alti e quelli delle imprese e dei lavoratori autonomi.
Quel che ha caratterizzato i governi Berlusconi è stata la legittimazione culturale e sostanziale degli strumenti dell’evasione e dell’elusione fiscale, di cui lo stesso presidente del consiglio è stato un accanito utilizzatore. E questo obiettivo è stato perseguito caparbiamente, raccontando barzellette sulle tasse, indicando che “lo stato non deve mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, che le indagini sugli evasori sono frutto di una “pratica di persecuzione della libera impresa”, ecc. e decretando di anno in anno successivi condoni “liberatori”, tanto che è noto che lo stesso Berlusconi nel 2006 è riuscito a sanare una sua accertata evasione di decine di milioni di euro pagando l’irrisoria cifra di 1.800 euro.
Sul piano istituzionale e costituzionale Berlusconi ha sapientemente sfruttato gli spazi che il centrosinistra aveva saputo offrirgli, con la prima trasformazione della legge elettorale dal modello proporzionale a quello prevalentemente maggioritario a turno unico (legge Mattarella, dal nome del suo ideatore, l’attuale e da tutti osannato presidente della Repubblica). Nel 1994 la coalizione guidata da Berlusconi trionfò anche perché, grazie a quel sistema e ai legami che il suo partito intratteneva con potenti settori della società siciliana, riuscì a conquistare tutti i 61 seggi elettorali dell’isola.
Poi, per opera del suo ministro Calderoli (della Lega Nord), il governo di destra è riuscito a peggiorare ulteriormente la legge elettorale (con la legge cosiddetta “porcellum”).
La riforma complessiva della costituzione è stata tentata dal terzo governo Berlusconi nel 2006, in senso decisamente “presidenzialista”, ma è stata respinta al momento del referendum popolare confermativo (25 giugno 2006). Ma Berlusconi, come persona e come governante, è stato la concretizzazione plastica di un presidenzialismo praticato al di là della sua codificazione istituzionale, di una politica condotta da “un uomo solo al comando”, senza mediazioni istituzionali né il filtro dei partiti, ridotti a clientele a sostegno dei “leader”.
Peraltro, anche numerosi altri governi, non solo di destra, hanno adottato un analogo “stile” presidenzialista di fatto, con Renzi o Draghi. E, oggi con Giorgia Meloni.
E’ evidente che una struttura presidenzialista è quella che meglio risponde all’esigenza di collegare strettamente il ruolo del leader (o della leader) con i peggiori umori popolari, per trasformare le “minoranze silenziose” in “maggioranze urlanti” e “governanti”.
Non casualmente, nell’agenda del governo Meloni, c’è ai primi posti proprio il progetto presidenzialista, accarezzato per anni dal MSI e dai suoi epigoni postfascisti, ricercato dalla destra nelle sue varie sfumature, sognato dal padronato per la sua presunta maggiore efficienza decisionale, evocato anche dai social-liberisti, in nome di una società svincolata da “incrostazioni ideologiche obsolete”.
I sindacati
Non bisogna dimenticare, infine, che tra i risultati “liberali” del berlusconismo c’è anche la messa a tacere del sindacalismo confederale. Abbiamo già ricordato i due grandissimi movimenti di massa che i sindacati organizzarono nel 1994 e poi nel 2002, il primo unitariamente CGIL, CISL e UIL e l’altro solo la CGIL.
Ma furono uno straordinario “canto del cigno”, perché dal 2002 ad oggi abbiamo assistito ad un progressivo ma inarrestabile fenomeno di paralisi della mobilitazione sindacale, nonostante i numerosi motivi di darsi da fare per difendere le conquiste sociali e sindacali.
I sindacati confederali si sono ingabbiati nel corso dei primi anni 90 nella politica della “concertazione”, illudendosi che al timone del paese si sarebbero succeduti sempre “governi amici” o, almeno, governi “dialoganti”, disposti a discutere e condividere con le organizzazioni confederali le principali scelte in materia di economia e di politiche sociali, mantenendo dunque i vertici sindacali in un ruolo centrale per il paese.
Questo era stato concordato in maniera assolutamente miope negli accordi del luglio 1993. Ma l’illusione è durata molto poco. Solo un anno dopo la musica era già cambiata. Nel 1994 il governo era finito in mano a Berlusconi, ai postfascisti e ai leghisti, per niente intenzionati a mediare la propria politica con i sindacati. Ma il sindacato aveva ancora l’energia per scuotersi e opporsi, tanto da far cadere il primo governo di destra. Poi, però, la concertazione riapparse già nel 1995 con il governo Dini (ex ministro dell’Economia di Berlusconi) con cui i vertici sindacali concordarono una riforma delle pensioni sostanzialmente fotocopia di quella sonoramente bocciata l’anno precedente.
Da allora, iniziò la parabola discendente, splendidamente interrotta, ma non invertita, nel 2002 dalla manifestazione di tre milioni di persone nelle vie di Roma.
Da allora (quindi da oltre 20 anni a questa parte), i sindacati non hanno più preso significative iniziative di mobilitazione e hanno visto assottigliarsi e poi sparire del tutto i margini di concertazione e di “codeterminazione”, perfino con i governi di “centrosinistra” e con quelli “tecnici”, sempre più intenzionati a non farsi condizionare dagli “umori popolari” nella loro opera di “risanamento”. Così hanno scelto di adottare la politica della “limitazione del danno”, salvo accorgersi che il danno da limitare era sempre più grave e poi che non c’era più neanche lo spazio per limitarlo.
La destra e l’Italia senza Berlusconi
Dunque, l’impronta dell’avventura berlusconiana nella società e nella politica italiana resta e resterà indelebile.
Ne risente la cultura, ormai impregnata dalla pervasività dei frutti del trentennio di Berlusconi, compreso l’annullamento sostanziale della “pregiudiziale antifascista” che da grande parte dell’opinione pubblica è considerata solo un residuato di un’epoca finita.
Ne risente la politica istituzionale, che, tutta, da destra a “sinistra”, si inginocchia di fronte al mito della “centralità dell’impresa”, motore dello “sviluppo”, fonte di “lavoro” e di “benessere”, al cui primato devono sottostare anche i diritti sociali e la tutela ambientale.
L’idea capitalista, secondo la quale, se il fine è quello di arricchirsi, è consentito ogni strumento (favoritismi, corruzione, evasione fiscale), ha conquistato ampi strati di opinione pubblica: l’importante è il risultato.
Nonostante le ripetute prove del contrario (tra tutte basti citare che per sconfiggere la pandemia la società ha dovuto fare ricorso a quel poco di pubblico che è rimasto nella sanità), il “privato” continua ad essere presentato da tutti i media come di per sé bello, e il pubblico di per sé come fonte di inefficienza, di burocratismo e di corruzione.
Per la “crescita” è universalmente considerato necessario tagliare le tasse, soprattutto ai ceti più abbienti, e ogni idea di patrimoniale o di tassa di successione è considerata un “furto di stato”.
La precarietà del lavoro e della vita è ritenuta il prezzo da pagare alla globalizzazione e alla “competitività del paese”.
E anche in campo politico, mentre la destra ha scelto di radicalizzare il suo progetto e il suo discorso (dalla Democrazia cristiana a Berlusconi, poi a Salvini e ora a Meloni), la sinistra istituzionale, invece di accettare la sfida, ha deciso di assumere un atteggiamento sempre più moderato e conciliante (da Berlinguer a Occhetto, a Veltroni, a Renzi).
E così il sindacato, come abbiamo cercato di dire poco sopra.
Ora l’interrogativo è quale sarà il futuro della politica italiana senza Berlusconi.
L’illustre defunto era ormai l’unico collante che teneva insieme (e già con qualche difficoltà) il partito di Forza Italia. Non potrà certo sostituirlo efficacemente il vicepresidente Antonio Tajani. Per rafforzarne la scialba figura e farlo indicare “autorevolmente” come nuovo presidente, è dovuta intervenire, con un messaggio al partito, Marina Berlusconi, la primogenita di Silvio. Tajani, dunque, sarà nuovo presidente “reggente” di Forza Italia, in attesa di una soluzione più strutturale. E forse la stessa prima erede patrimoniale sarà anche la vera erede politica del “magnate”.
Ma, ormai, quel partito ha sostanzialmente già svolto il suo triste compito. Gli restano solo poche mission: da un lato il fornire una copertura “moderata” al governo di destra di Giorgia Meloni e al suo radicalismo reazionario e dall’altro il fare da “garante” dell’ormai dichiarato proposito di stipulare a Bruxelles un nuovo accordo di maggioranza tra il PPE di Manfred Weber e le formazioni di destra capitanate proprio da Meloni, escludendo o, comunque, mettendo ai margini il PSE. Ovviamente se i risultati elettorali del giugno 2024 lo consentiranno.
Quanto al partito in Italia, il compito di Tajani di evitare lo smottamento dei parlamentari e dei quadri verso altre formazioni sarà molto arduo.
Le formazioni centriste di Calenda (Azione) e di Renzi (Italia Viva) hanno aperto un’esplicita “campagna acquisti”. Quella di Giorgia Meloni è meno dichiarata, perché, si sa, tra alleati questo non si fa, o meglio si fa senza dirlo. Ma le possibilità di acquisizioni sono per lei e per Fratelli d’Italia molto più sostanziose, vista la diffusa presenza nel partito che fu di Berlusconi di quadri e dirigenti di comprovata cultura fascista (come Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato) o sfacciatamente razzisti (come Flavio Tosi, deputato ed ex sindaco di Verona).