di Fabrizio Burattini
Alcuni giorni fa abbiamo commentato l’elezione di Elly Schlein a segretaria del Partito democratico. In quell’articolo mettevamo in luce tutte le contraddizioni tra, da una parte, le dichiarazioni radicali usate dall’antagonista di Bonaccini per mobilitare una significativa base e per portarla a sostenerla con il voto e, dall’altra, le possibilità di passare dalle parole ai fatti per rimettere in moto un partito segnato da quasi due decenni di vita indelebilmente contraddistinta da una politica social-liberale. Un partito che non a caso, con il voto degli iscritti (53% contro 35%), aveva testimoniato di sentirsi molto più a suo agio sotto la guida rassicurante e gattopardesca di Bonaccini.
C’è chi ha paragonato l’elezione di Schlein all’analoga ascesa di Jeremy Corbyn nel 2015 alla guida del Labour Party e al tentativo di Bernie Sanders di ottenere la nomination dei Democratici americani. Anche Corbyn e Sanders, per tentare di imporsi, hanno dovuto promettere svolte radicali nella politica dei loro partiti, che scontavano, come il PD, il prezzo di un’azione di governo impopolare (e persino antipopolare), sotto la direzione di Tony Benn da un lato e di Bill Clinton e Barack Obama dall’altro.
Ma anche in quei due partiti, quando poi ci si è dovuti confrontare con la prospettiva di tornare al governo, Corbyn e Sanders sono stati messi da parte e sono stati scelti i volti molto meno conflittuali e più compatibili di Keir Starmer in Gran Bretagna e di Joe Biden negli Stati Uniti.
Naturalmente, per chi scrive, la “cura Schlein” non trasformerà affatto il PD nel partito di cui ci sarebbe bisogno, non dico per ridare fiato ad una prospettiva di trasformazione radicale, economica, politica, ambientale, sociale e democratica alla nostra società, ma anche solo per riaprire una dialettica positiva per le classi lavoratrici. Le posizioni della Schlein sono (e ancor più saranno se messe alla prova dei fatti) ampiamente segnate da un’impronta di internità all’attuale quadro neoliberale, pur con importanti correttivi. Inoltre, come appunto abbiamo già sostenuto nell’articolo citato, il collateralismo che si prefigura tra Schlein e Landini sul piano politico-sindacale non fa sperare niente di buono neanche sulla ripresa della mobilitazione sociale.
Tutti questi aspetti della fragilità e della natura largamente contraddittoria del successo di Elly Schlein, però, non possono celare il fatto che il risultato delle primarie rappresenti un episodio che va in controtendenza rispetto ad lungo e progressivo scivolamento verso destra di tutto il quadro politico italiano. Anzi potremmo dire che rappresenta l’unico episodio in controtendenza.
Infatti sono ormai molti anni che tutta la politica del paese slitta verso destra, uno slittamento che ha largamente allontanato amplissime fette di elettorato popolare dalla politica, che ha abbandonato ampi settori di opinione pubblica ai demagoghi nelle loro più varie versioni (berlusconiana, poi renziana, grillina, leghista e, infine, postfascista), che ha portato il principale partito del paese (il PD, appunto) ad essere l’ombra di se stesso e che ha ridotto la sinistra radicale ai minimi termini.
Sappiamo bene – e ci sono le indagini degli istituti demoscopici ad attestarcelo – che a sostenere il progetto Schlein domenica 26 sono accorsi anche molte e molti che non erano più da tempo elettori del PD. Ma non solo. Credo che ognuno di noi conosca qualcuno che, pur non essendo mai stato elettore del PD e probabilmente neanche pensando di poterlo essere in futuro, però è andato ad uno dei gazebo della sua città per votare e dare quel “segnale di sinistra” che Nanni Moretti invocava tanti anni fa…
Il PD, com’è stato giustamente sostenuto, dopo tante sconfitte elettorali, è riuscito a perdere anche le primarie, facendo soccombere il candidato preferito dagli iscritti e più titolato a garantirne la tenuta organizzativa e la continuità nell’azione. Però, quelle primarie sono state lo strumento scelto da oltre mezzo milione di persone che si sono mobilitate per votare Schlein. Il far prevalere Elly Schlein su Stefano Bonaccini costituiva un obiettivo che probabilmente anche a molti di loro (come certamente a noi) appariva confuso, contraddittorio, fragile e anche inadeguato, probabilmente destinato a medio termine ad essere deluso e accantonato. Ma, nonostante tutto ciò, disciplinatamente si sono messi in fila, hanno pagato i due euro di prassi, ecc.
Dunque, pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi profondi limiti, domenica 26 si è verificata una mobilitazione politica significativa, certo, di dimensioni ridotte ma che comunque rappresenta un’eccezione rispetto ad un panorama che va in tutt’altra direzione.
A fronte di questo, abbiamo una “sinistra radicale” che, elezione dopo elezione, riduce drasticamente il suo peso elettorale, con una pratica propagandistica e identitaria che ormai da anni riesce a parlare solo a se stessa, alla sua sempre più esigua base militante.
Ci chiediamo: come mai quel mezzo milione di persone, o almeno una parte significativa di esso, non ha più visto (a partire dalla crisi del 2008) nella “sinistra radicale” uno strumento non dico per cambiare l’Italia, ma almeno per “dire qualcosa di sinistra”?
Questo non è avvenuto né attorno al Partito della rifondazione comunista di Maurizio Acerbo (partito che oramai appare solo come l’esecutore testamentario di quello che fu il PRC a cavallo del cambio di secolo), né attorno a Potere al Popolo (che appare paralizzato dalle sue molteplici e contraddittorie facce), né per il “Partito comunista italiano” di Mauro Alboresi (che si presenta come una versione fuori tempo del “togliattismo”). Né è avvenuto attorno alle loro alleanze a geometria variabile sempre irrimediabilmente segnate solo dall’attesa del successo elettorale.
Sappiamo già che ci si risponderà dicendo che il voto alla Schlein rappresenta una manifestazione del riformismo. Certo, rispondiamo, ma chiediamo da parte nostra: e perché, il voto a De Magistris, o prima ancora ad Antonio Ingroia o a Alexīs Tsipras rappresentava una scelta anticapitalista e rivoluzionaria?
“Il Refrattario” non ha minimamente la presunzione di indicare alternative. Ma vuole sì affermare che non si esce da un’impasse, da un vicolo cieco, insistendo sempre nella stessa fallimentare direzione.
Il PD, reduce da una serie interminabile e gravissima di insuccessi, ha scelto di mettersi in gioco. Lo ha fatto nel suo campo, che ovviamente non è il nostro, anzi, è alternativo al nostro. Non sappiamo se quel che è accaduto lo premierà o lo affosserà definitivamente. Ma l’ha fatto.
Nella sinistra radicale, nel nostro campo, invece del coraggio di mettersi veramente in gioco, ormai da anni prevalgono la testardaggine ed un continuismo ottuso e miope, con gli sconfortanti risultati che ripetutamente constatiamo.