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Landini e il patto con Confindustria


di Fabrizio Burattini

Nell’intervista che oggi 5 dicembre Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, rilascia al Fatto quotidiano, vengono puntualmente enumerate tutte le nefandezze che il neonato governo Meloni ha inserito nella sua legge di bilancio: voucher, innalzamento della soglia del contante e dei pagamenti digitali, alleggerimento della tassazione sugli extraprofitti, tagli alla scuola, alla sanità e ai trasporti pubblici, riconferma della legge Fornero sulla previdenza, diminuzione degli adeguamenti pensionistici all’inflazione, rifiuto del salario minimo e sostegno ai “contratti di prossimità”, taglio del reddito di cittadinanza, ecc.

Landini si rende conto del fatto che “non si vanno a prendere i soldi là dove sono”.

Però poi, quando commenta la riduzione del cuneo fiscale, ne critica la misura limitata ma non arriva a metterne in luce il meccanismo truffaldino (peraltro già presente nelle precedenti riduzioni del cuneo adottate anche da governi di “centrosinistra”) e cioè il fatto che si tratta di miseri aumenti del salario diretto (quello che percepiamo in busta paga) ma a fronte di significative riduzioni di quello indiretto (quello che dovrebbe andare a tutti i cittadini e in particolare a lavoratrici e lavoratori attraverso i servizi pubblici e la previdenza). Dunque piccoli aumenti salariali del tutto e ampiamente autofinanziati dai lavoratori stessi.

Ancora una volta il “patto”

Incalzato dall’intervistatore che gli chiede se “sarebbe possibile un incontro o un’iniziativa comune con la Confindustria”, visto che anch’essa “avanza critiche molto dure” alla manovra, Landini accetta il terreno e afferma che “Sì, anche la Confindustria riconosce che c’è un problema salariale” e che un incontro con l’associazione padronale si potrebbe realizzare, dato che anche Confindustria sarebbe interessata ad una “battaglia sulla legalità, contro gli appalti al massimo ribasso e le finte cooperative”.

In realtà, invece che alla generica, vaga e inconsistente intervista di Landini (di cui non casualmente viene messa in risalto solo la proposta di “fronte comune” con Confindustria, l’attenzione dovrebbe essere rivolta alla audizione che il presidente degli industriali Carlo Bonomi ha tenuto venerdì 2 di fronte alle Commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato, nel quadro della discussione sulla legge di bilancio per il 2023. Come al solito, i padroni italiani hanno idee molto più chiare di quelle di chi pretende di rappresentare lavoratrici, lavoratori e pensionate/i e, ancora di più, non hanno paura di esprimerle con chiarezza.

Che cosa vuole Confindustria

L’associazione padronale presieduta da Bonomi critica, sì, la limitatezza della riduzione del cuneo, ma solo perché vorrebbe che a incamerarne almeno una parte siano le imprese (quindi con i lavoratori che finanziano l’aumento dei profitti); Confindustria vorrebbe che il cuneo fiscale e contributivo fosse di ben 16 miliardi (invece dei 4 previsti dalla manovra Meloni), almeno 5,5 dei quali dovrebbero andare a beneficio delle aziende, ottenendo così due risultati: da un lato un cospicuo taglio di spesa per le aziende e dall’altro 80-100 euro mensili lordi in busta paga al lavoratore, ma totalmente autofinanziati dalla ulteriore riduzione dello stato sociale. Euro che Bonomi vorrebbe andassero ai lavoratori non certo per un improvviso impulso altruistico, ma perché, da un lato attenuerebbero un po’ l’impatto recessivo che la manovra potrebbe avere, e dall’altro servirebbero a zittire immediatamente ogni pretesa salariale da parte delle delegazioni sindacali nelle trattative per i numerosi contratti nazionali in scadenza. Come se non bastasse, il presidente di Confindustria ha anche rivendicato l’abolizione dei 2 miliardi di contribuzione padronale alla CUAF (la Cassa Unica Assegni Familiari).

Landini accredita la Confindustria ritenendola interessata ad una “economia più attenta alle urgenze ambientali”, proprio mentre Bonomi plaude alla decisione del governo di soprassedere all’entrata in vigore della plastic tax e della sugar tax, due “ecotasse” peraltro sostanzialmente simboliche (la plastic tax, ad esempio, incrementerebbe il costo di una bottiglietta di plastica da mezzo litro di non più di un centesimo).

Quanto agli appalti, non ci sembra che la Confindustria sia interessata a una maggiore regolamentazione di appalti e subappalti. Va ricordato che poco più di un anno fa, quando il governo Draghi ha varato l’ennesima norma di “semplificazione” del “codice degli appalti” (il cui decreto attuativo dovrebbe entrare in vigore nel 2023), la Confindustria ha rivendicato ed ottenuto l’attenuazione dei controlli pubblici sulla correttezza delle procedure (considerate frutto di “un’antica e consolidata cultura del sospetto nei confronti delle imprese”) e sul rispetto dei vincoli ambientali (ritenuti “troppo rigidi”). Il tutto nel nome della “maggiore flessibilità” e della “sburocratizzazione”

Quanto alle “false cooperative” evocate da Landini come presunte “avversarie comuni” del sindacato e di Confindustria, vale la pena ricordare l’esultanza di Assologistica (l’associazione della Confindustria a cui aderiscono le imprese di logistica, magazzini generali, portuali, ecc.) quando il senatore Nazario Pagano (Forza Italia), l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia e il ministro Giancarlo Giorgetti hanno ottenuto (va ricordato, con il sostegno di tutto il parlamento) la “riforma” dell’articolo 1677 del Codice civile, riforma che ha esentato le aziende della logistica committenti (a differenza di quanto accade per tutte le altre aziende appaltanti) dall’essere corresponsabili in solido delle inadempienze delle cooperative. Una “riforma” che evidentemente è volta a tutelare le illegalità che dilagano nel settore delle cooperative e dei consorzi delle ditte in appalto e a rendere “legittimi” i furti di salario e la trasgressione ai diritti ai danni dei lavoratori.

E anche di fronte alle commissioni parlamentari Bonomi rivendica l’attuazione piena della famigerata “legge sulla concorrenza, tassello basilare e non rinviabile per modernizzare il paese”, e la “semplificazione di norme e procedimenti amministrativi necessaria per velocizzare gli investimenti”.

Infine, quanto agli extraprofitti, Bonomi incassa il fatto che buona parte dei sussidi volti ad affrontare il “caro bollette” vada alle imprese, mentre le famiglie (in particolare quelle con un ISEE superiore a 15.000 euro) non avranno nulla, anzi, vedranno ridotto persino lo sconto sulle accise sulla benzina che aveva introdotto Draghi.

Continua a mancare l’opposizione

Dunque, ci domandiamo, su che basi sarebbe possibile, come indica e auspica Landini, un “patto” tra i sindacati e la Confindustria. In realtà si tratta solo di una boutade volta a trovare un modo per aggirare quella che è una realtà bruciante ma che si vuole espungere dal panorama: il prolungarsi nel nostro paese dell’assenza di una vera, massiccia, determinata e unitaria opposizione sociale alla politica governativa e padronale. L’evocazione di uno stantio e ipotetico “patto tra i produttori” ci dice che Landini, come non l’ha costruita negli scorsi anni, non la costruirà neanche stavolta, neanche di fronte a questa manovra di bilancio, neanche di fronte ad un governo di estrema destra sul piano politico, sociale e culturale.

Manovra contro gli ultimi illudendo i penultimi

di Fabrizio Burattini

La guerra ai poveri di Draghi continua e si inasprisce con la manovra Meloni 2022. Si delinea una società sempre più diseguale. Vendetta contro chi non ha accettato la demagogia della destra e premio per i ceti che la hanno appoggiata. Un’opposizione da costruire

La “grande stampa”, dopo la pubblicazione della proposta di legge di bilancio del governo Meloni, sembra tirare un sospiro di sollievo. Certo, la manovra è una “manovrina” (“La Stampa” di Massimo Giannini), è “piccola piccola” (“La Repubblica” di Maurizio Molinari), risente della “stesura fatta in tutta fretta da un governo appena insediato”… Sempre sulla “Stampa”, Marcello Sorgi afferma che il governo “supera l’esame di maturità”, perché ha “sostanzialmente rispettato” i vincoli europei e la lezione Mario Draghi quanto a “rigore fiscale” e a “politiche di austerità”.

L’entusiasmo della destra

Se la stampa “democratica” si sente rassicurata (ma sapevano bene che Meloni e i suoi non si sarebbero discostati dai diktat di Bruxelles, il loro progetto è molto più ambizioso), la stampa amica della premier si spertica in elogi e osanna: “La strada giusta” (Alessandro Sallusti su “Libero”), “Manovra di bilancio, il governo aiuta i più deboli” (“Il Tempo”), “Coraggiosa. Aiuta il ceto medio e i pensionati” (De Feo sul “Giornale”). Quanto al blocco del Reddito di cittadinanza, le prime pagine dei giornali di destra traboccano di esultanza: “Buon lavoro fannulloni” (“Libero”), “Stop alla follia dei 5 Stelle” (“Il Secolo d’Italia”). 

Sanno che il blocco del RDC è importante non tanto perché fa recuperare qualche centinaio di milioni (dicono 700) da stornare a favore delle imprese piccole e grandi, ma soprattutto perché è una misura che spinge verso il basso i rapporti di forza delle classi più povere che saranno sempre più costrette ad accettare un lavoro a qualunque condizione e in cambio di salari ancora più bassi. Non dimentichiamo che almeno 173.000 percettori di RDC lavorano regolarmente (iscritti all’INPS) ma ricevono un salario così misero da dover essere integrato dal RDC.

Gli argomenti della demagogia

Come cento e più anni fa, il padronato e il governo al suo servizio vogliono usare come armi di costrizione il bieco marchio del “fannullone” e la fame per obbligare le persone ad accettare qualunque occupazione, e questo non è solo uno strumento di politica (anti)sociale ma costituisce un segnale nei confronti del mondo imprenditoriale ed anche dei settori centristi (Calenda e Renzi), altrettanto agguerriti contro i ceti più poveri.

E poi in quella misura sul RDC c’è anche un aspetto vendicativo verso quegli ampi settori popolari che (soprattutto al Sud) non hanno prestato ascolto alla demagogia reazionaria di Fratelli d’Italia e delle altre consorterie alleate, ma hanno confermato il loro voto agli odiati 5 Stelle.

L’ideologia che muove il governo e che, purtroppo, raccoglie un immeritato consenso, è quella secondo cui la disoccupazione, la povertà non sono fenomeni intrinseci al sistema capitalista, ma sono solo la conseguenza della inettitudine e della pigrizia dei “fannulloni”. I 660.000 percettori di RDC “occupabili”, per di più un certo numero tra di loro anche immigrati da chissà dove, diventano così, nell’immaginario della narrazione governativa, confindustriale e dei loro lacchè, nemici della “nazione”.

Certo, quella misura solletica anche il consenso di quei tantissimi lavoratori che oggi sono occupati e che faticano per portare a casa salari di poco superiori al RDC e che sono quindi sensibili alla demagogia contro i “fannulloni” che “stanno sul divano e vivono sulle spalle di chi paga le tasse”. E che non pensano che il destino di non trovare un lavoro minimamente degno di questa definizione potrebbe colpire anche loro, tanto più in una fase di crisi economica nella quale fabbriche ed aziende chiudono, i contratti a termine non vengono rinnovati…

Cuneo fiscale e Confindustria

Dunque, una manovra durissima contro gli ultimi volta a far credere ai penultimi che il governo vuole aiutarli con la riduzione del “cuneo fiscale”, con l’aumento irrisorio delle pensioni minime e con un piccolo incremento degli aiuti ai settori più poveri per affrontare il “caro bollette”.

In realtà, occorre dirlo una volta per tutte, la riduzione del cuneo fiscale consente sì un misero incremento dei salari netti (tra i 10 e i 20 euro mensili) ma tutto autofinanziato dai lavoratori, perché la riduzione dei prelievi fiscali al lavoro dipendente riduce in maniera cospicua le entrate dell’erario e di conseguenza anche la capacità di spesa pubblica. Con la conseguente riduzione dell’offerta di servizi pubblici e universali (pensioni, ammortizzatori sociali, scuola, sanità) ai ceti più deboli.

Una riduzione del cuneo che punta soprattutto a ridurre la pressione salariale dei lavoratori verso le imprese. La riduzione del cuneo fiscale consente alle imprese di dire durante i negoziati contrattuali: “ma come, avete avuto la riduzione del cuneo e chiedete ulteriori aumenti?”.

La Confindustria critica il governo perché avrebbe voluto una riduzione del cuneo più consistente e almeno una parte di quei soldi a vantaggio delle imprese. Le associazioni padronali (a differenza dei sindacati) non si accontentano mai. Hanno già pronti i comunicati di dissenso ancor prima che il governo annunci le sue scelte, perché sanno che così ostacolano preventivamente ogni “miglioramento” delle misure a favore dei lavoratori e, non si sa mai, spingono verso un “miglioramento” a proprio favore.

La tassa piatta per alcuni e progressiva per gli altri

Com’è noto, la “flat tax” al 15% viene estesa alle partite IVA fino a 85.000 euro di reddito, con la conseguenza (che giustamente Nadia Urbinati su “Domani” ritiene anticostituzionale) per cui un dipendente, a parità di reddito, pagherà fino a 10.000 euro di tasse in più rispetto ad un autonomo. Si delinea, come ha scritto Giuseppe Pisauro sul Manifesto “una separazione netta tra il regime fiscale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, da un lato, e dei lavoratori autonomi e dei professionisti, dall’altro”.

Dunque, una manovra che acutizzerà pesantemente e perfino renderà strutturali le già indegne diseguaglianze economiche e sociali del paese.  Né va trascurato un pesante effetto “macroeconomico” della manovra: essa contribuirà a far scendere ancor di più i consumi interni e, dunque, forse riuscirà a contenere l’inflazione ma asseconderà anche la tendenza recessiva già in atto.

La manovra della disuguaglianza

Una manovra ispirata ad un minimo di equità sociale avrebbe dovuto affrontare seriamente il problema delle retribuzioni del lavoro dipendente e delle pensioni basse al palo da trent’anni e taglieggiate nell’ultimo anno dalla fiammata inflattiva, avrebbe dovuto inasprire la progressività fiscale, ampliare il reddito di cittadinanza e tutti gli altri ammortizzatori sociali, mettere sotto controllo pubblico i prezzi dei prodotti di prima necessità. 

Il governo Meloni ha scelto coscientemente di fare proprio il contrario. Non ha avuto neanche il coraggio di abolire l’IVA sui prodotti di prima necessità (pane, latte…). 

  • Con il taglio netto e la minaccia di abolizione totale del RDC, ha rinvigorito ulteriormente la guerra ai poveri, sulla linea che era già stata di Draghi. 
  • Ha peggiorato il sistema di adeguamento delle pensioni all’inflazione (recupereranno integralmente l’inflazione solo le pensioni non superiori a 1.584 euro netti). 
  • Ha tagliato gli sgravi sulle bollette per le famiglie mentre ha incrementato gli sgravi per le imprese. 
  • Gli extraprofitti miliardari delle imprese dell’energia, lucrati grazie all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas e nei fatti estorti con la forza ai cittadini, verranno tassati al 35%, cioè tanto quanto viene tassato un lavoratore dipendente che riceve un salario mensile netto di 1.650 euro.
  • Hanno allargato, come già detto, la platea di chi godrà di una tassa piatta.
  • Hanno favorito l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro illecito con i provvedimenti sul contante, con la flat tax, sulla rottamazione delle cartelle, sulla detassazione dei capitali illecitamente portati nei paradisi fiscali.

Una manovra di bilancio in continuità con il governo Draghi e con i dettami della UE per ridurre i consumi popolari e così “combattere l’inflazione”. Poco importa se a farne le spese saranno i più poveri, il Sud, i lavoratori a reddito fisso. “Fine della pacchia” per loro, fine di una pacchia che non è mai iniziata.

La “pacchia” e l’opposizione

Mentre la “pacchia” continua e si accresce per quei ceti sociali che hanno votato per Fratelli d’Italia e per gli altri partiti della destra e che vengono per questo premiati: grandi imprese, bottegai, lavoratori “autonomi”, albergatori e ristoratori…: insomma quella che in un altro articolo abbiamo definito “lumpenborghesia dell’evasione fiscale”.

Profittando dell’estrema debolezza (al limite dell’inesistenza) dell’opposizione politica e dell’atteggiamento di complicità (CISL) e di imbarazzata attesa (CGIL e UIL) dei sindacati confederali, il risultato della manovra governativa sarà l’incremento della sofferenza sociale del paese. Allo stato attuale l’unica risposta in campo resta quella dello sciopero generale del 2 dicembre e della manifestazione nazionale a Roma di sabato 3, che così sono diventati appuntamenti ancora più importanti.