Archivi tag: bilancio

Russia, dal neoliberismo al neomercantilismo

di Alexander Bikbov, sociologo e intellettuale russo, docente presso la École des Hautes Études en sciences sociales di Parigi, da a.bikbov.ru

Il regime politico ed economico della Russia è ancora troppo spesso visto attraverso il prisma degli anni ’90: stato debole, criminalità dilagante, corruzione diffusa. Fenomeni politici di grande portata, tragici come l’invasione dell’Ucraina o sorprendenti come la tenuta dell’economia russa di fronte alle sanzioni internazionali, mancano di una spiegazione che tenga conto della natura composita del capitalismo di stato russo, costruito in più fasi negli ultimi 30 anni.

La dimensione patrimoniale e violenta è certamente caratteristica di questo regime, ma la sua costruzione istituzionale va ben oltre l’effetto di una piccola banda, essendo globalmente sincronizzata, negli anni Duemila, con i ritmi mondiali e rappresentando addirittura nel 2022, in questa tragica svolta, una versione di “ultramodernità arcaica”.

Negli anni Duemila, gli alti funzionari russi erano ossessionati da una tentazione neoliberista che, come in tutto il mondo, cercava di aumentare la produttività attraverso la concorrenza, di sfruttare settori non redditizi come l’istruzione e la cultura e di valorizzare i beni comuni.

Le strutture burocratiche sono dominate da economisti liberali come Alexei Kudrin, da alti amministratori con pretese intellettuali come Vladislav Sourkov e da propagandisti con il gusto della filosofia occidentale come Gleb Pavlovsky.

Verso la fine degli anni 2010, questa ossessione è stata soppiantata da un’altra, quella neomercantilista, che, senza mai abbandonare l’idea del profitto, attribuisce il benessere del paese alle risorse sovrane, e in particolare al territorio, al surplus della bilancia commerciale, all’autonomia monetaria e all’aumento della natalità.

In risposta alle proteste popolari (2011-2012), i ministri occidentalizzati e gli amministratori “intellettuali” sono stati sostituiti da lealisti e spesso da “patrioti”; il ruolo del parlamento è stato ridotto all’organizzazione delle decisioni dell’amministrazione presidenziale. All’interno di quest’ultima, i “grandi censori” Vyacheslav Volodin e Alexei Gromov hanno preso il posto di Sourkov, mentre i maestri manipolatori dil tipo intellettuale come Pavlovsky sono stati sostituiti da sottomessi “fatti in casa” senza scrupoli come Yevgeny Prigozhin.

Di fatto, queste due tendenze della pubblica amministrazione russa, quella neoliberale (performance e produttività) e quella neomercantilista (sovranità territoriale e autarchia economica), sono state giustapposte per tre decenni, alternandosi nelle trasformazioni istituzionali.

Queste alternanze si riflettono chiaramente nei cliché dell’ideologia dominante, in cui gli slogan della democrazia e dello stato di diritto vengono abbandonati a favore della singolare “missione storica e morale” della Russia e della specifica giustizia russa in opposizione alla decadenza occidentale.

Ma non si tratta solo di forme simboliche e della cultura dominante adottata dalla classe politica. Gli indicatori oggettivi su scala macro chiariscono notevolmente il corso del cambiamento.

Qui sotto alcuni diagrammi e commenti che accompagnano l’intervista “Radiographie de l’État russe” pubblicata da lundimatin, che rivelano più dettagliatamente i temi trattati.

Il principale obiettivo delle riforme neoliberali, il settore pubblico, rivela molto chiaramente la coesistenza e l’alternanza delle due tendenze. Nel settore dell’istruzione universitaria, soggetto a riforme simili alla LRU (cioè la legge francese del 2007 sull’autonomia delle università, ndt), la tendenza neoliberista ha raggiunto il suo apice tra la fine degli anni 2000 e l’inizio degli anni 2010.

Il numero di università private (la linea verde nel grafico sottostante, con l’asse di riferimento a destra) e la percentuale di studenti che pagano per i loro studi (la linea rossa, con l’asse di riferimento a sinistra) hanno raggiunto il loro picco. Alla fine del 2010, il governo ha “tagliato i rami” e ridotto notevolmente lo spazio per l’istruzione privata.

Il paradosso di queste operazioni bidirezionali è che modificano solo leggermente il numero totale di studenti che pagano per la loro istruzione. Ciò significa che la commercializzazione dello spazio universitario non avviene attraverso il settore privato, ma soprattutto attraverso le università pubbliche, che costringono metà degli studenti e delle loro famiglie a coprire l’intero costo della loro istruzione. E la svolta moralista e nazionalista del mondo accademico alla fine degli anni 2010 non fa nulla per invertire questa tendenza.

Fig. 1 – L’evoluzione del settore universitario russo, 1990-2020

In modo ancora più marcato, la sovrapposizione di una tendenza neoliberista (rendimento a tutti i costi) e di una neomercantilista (garanzia delle funzioni regali dello stato) si può osservare nella gestione dell’apparato statale.


Le riforme neoliberiste attuate in nome della produttività e della riduzione delle spese non redditizie hanno ridotto il numero di dipendenti degli uffici pubblici (linea blu nel grafico sottostante), dell’esercito (linea verde) e della polizia (linea rossa) negli anni 2010. Contrariamente agli stereotipi, i governi Putin e Medvedev sono più interessati a risparmiare sui costi della burocrazia, compresa la polizia.


Dal 2017 si è verificata una controtendenza che ha interessato l’apparato della violenza, a differenza del servizio pubblico generalizzato, che continua a registrare una stagnazione del personale. L’intensificazione della repressione degli oppositori e, chiaramente, l’invasione massiccia dell’Ucraina stanno rinvigorendo le forze armate, che in precedenza dovevano sottostare alla disciplina delle prestazioni professionali. Il piano per il 2025 riflette il rafforzamento di questa deriva regale.

Il mercato della sicurezza e delle milizie private di ogni tipo si è stabilizzato alla fine degli anni 2000. La linea marrone (nel grafico sottostante) rappresenta il numero di dipendenti certificati delle agenzie di sicurezza privata, dove probabilmente non sono incluse le milizie Wagner e altre di questo tipo.

Dalla metà degli anni ’90 in poi, il corpo di sicurezza privata ha raggiunto le stesse dimensioni del corpo di polizia statale, contribuendo a una generale paramilitarizzazione della vita quotidiana nelle città russe (come per le cifre relative alla polizia e all’esercito, sono presi in considerazione solo gli ufficiali regolari, escludendo i servizi tecnici, la manutenzione, ecc.).

Fig. 2 – Dipendenti pubblici, esercito, polizia e sicurezza privata, 2000-2023 (in migliaia)

Le riforme neoliberali degli anni 2000 e in parte del 2010, la riduzione della burocrazia, lo stimolo della concorrenza, a volte molto brutale, nei settori della cultura e dell’università, hanno avuto l’effetto desiderato sull’economia russa?


Chiaramente non così tanto, forse per nulla. L’indicatore di produttività, in nome del quale sono state attuate queste riforme, lo dimostra molto chiaramente. Fino alla fine degli anni 2000, e in particolare prima della crisi finanziaria globale del 2008, la produttività cresceva più rapidamente (la Russia è rappresentata dalla linea marrone nel grafico sottostante).


Tuttavia, il decennio successivo ha visto un aumento molto più lento, nonostante il significativo accumulo di risorse economiche nelle mani del governo russo. Nella media dei paesi OCSE (linea verde), l’aumento della produttività è stato più pronunciato nello stesso periodo.


Fig. 3 – Produttività (PIL per ora lavorata), in dollari USA a prezzi costanti


Quali sono le condizioni che frenano la crescita della produttività, nonostante la continua capitalizzazione dell’economia russa? Una risposta condivisa da molti economisti è chiara: è la natura rentier dell’economia.


Anche gli investimenti di capitale nella Crimea annessa e la guerra nell’Ucraina orientale hanno avuto un ruolo dal 2014, ed è indirettamente visibile nel rallentamento della produttività. Sarebbe possibile specificare queste variazioni in termini di economia politica? Penso che sia del tutto possibile e molto rilevante. È qui che la categoria del nuovo mercantilismo chiarisce ancora meglio le basi dell’attuale politica russa.

Storicamente, il mercantilismo è un modello di collegamento tra commercio e potere che attribuisce agli interessi sovrani e all’autosufficienza economica un ruolo predominante sul territorio nazionale:

“il principe, il cui potere poggia sull’oro e sulla sua riscossione attraverso la tassazione, deve appoggiarsi alla classe mercantile e incoraggiare lo sviluppo industriale e commerciale della nazione in modo che un’eccedenza commerciale permetta l’ingresso dei metalli preziosi” (da Claude-Danièle Echaudemaison, Dictionnaires d’économie et des sciences sociales, Paris, Nathan, 1993). 

Per rendere operativa questa definizione sintetica negli indicatori economici, come requisito minimo dovremmo esaminare la bilancia commerciale, la riserva aurea nazionale e il debito pubblico estero.

Ed è qui che vediamo che le fondamenta mercantiliste della politica economica propriamente detta del governo russo sono state gettate già a metà degli anni Duemila.


La riserva aurea, insieme al fondo sovrano russo, è aumentata notevolmente a partire dal 2008-2009 (si veda il grafico sottostante). Questo può essere giustamente visto come una risposta del governo alla crisi finanziaria globale, e quindi esogeno all’economia nazionale.


È importante notare che l’annessione della Crimea e la prima ondata di sanzioni economiche internazionali non hanno cambiato radicalmente questa tendenza, ma l’hanno semplicemente accelerata. L’accumulo di oro è piuttosto graduale, con un picco nel 2023 ma già vicino al picco del 2020.


L’ascesa dell’ideologia sovranista nella cultura russa e nel discorso governativo è quindi concomitante con l’aumento del fondo sovrano e con la sovranizzazione della moneta russa a partire dal 2014 (attraverso il sistema di pagamento Mir).

Fig. 4 – Dinamica della riserva aurea russa, 1997-2023

L’eccedenza della bilancia commerciale, una delle principali preoccupazioni del mercantilismo, è una caratteristica dell’economia russa che era già visibile negli anni Novanta e che si è accentuata negli anni Duemila e successivamente (il grafico qui sotto, in blu).


Nel 2022, anno dell’invasione dell’Ucraina, il saldo è il più alto in termini assoluti, nonostante le sanzioni internazionali. La guerra è quindi vista come una manifestazione mercantilista per eccellenza, che corrisponde al fenomeno storico delle guerre coloniali in Europa occidentale durante l’era mercantilista. 


Il modello di autonomia economica basato sul surplus della bilancia commerciale non è l’unico possibile. Esso contrasta con il modello degli Stati Uniti, la cui economia era basata su un deficit commerciale negli stessi decenni (si veda lo stesso grafico, in giallo). Questo non priva l’economia statunitense della sua autonomia, ma riflette la sua posizione dominante nel sistema del libero scambio.


In questo senso, le strategie economiche russe e americane sono diametralmente opposte. Vale la pena ricordare che la riserva aurea statunitense è la più grande al mondo tra gli stati nazionali ed è 3,5 volte più grande di quella russa.

Fig. 5 – Bilancia commerciale Russia-USA, 1990-2023 (in miliardi di dollari)

Infine, la riduzione del debito estero è un altro fattore e un altro strumento per rendere più autonoma l’economia nazionale.


Anche in questo caso, il governo russo è impegnato nella sovranità finanziaria. Una delle principali sfide degli anni Duemila, quella di ripagare tutto il debito estero sovietico, è stata completata entro la metà del decennio. Da allora, questo indicatore è molto più basso (vedi grafico sotto).


La spesa di bilancio causata dall’annessione della Crimea è stata compensata dalla ridistribuzione interna, in particolare dal congelamento di parte dei risparmi pensionistici della popolazione. Ciò ha contribuito all’aumento delle disuguaglianze sociali in Russia, ulteriormente accresciute dagli effetti dell’invasione del 2022.

Fig. 6 – Debito pubblico estero del governo russo (in miliardi di dollari)

Per saperne di più su questa combinazione di tendenze neoliberali e neo-mercantiliste nella gestione della popolazione russa (e degli attori coinvolti in queste politiche), ecco tre miei scritti che offrono una panoramica:

  1. Il quarto capitolo del volume (in inglese) Russia – Art Resistance and the Conservative-Authoritarian Zeitgeist, curato da Lena Jonson e Andrei Erofeev, intitolato “Neo-traditionalist fits with neo-liberal shifts in Russian cultural policy”, analizza la dualità della politica culturale russa e le sue figure emblematiche; 

  2. Un’analisi (in inglese) della riforma neoliberale delle università russe “How Russian Universities Became the Future of World Education”;

  3. Un’intervista (in italiano) intitolata “Disuguaglianze e resistenza nella Russia di Putin”, che riassume la gestione neo-mercantilista della guerra e le sue conseguenze dal punto di vista delle disuguaglianze sociali, e fornisce una breve panoramica delle tattiche russe di resistenza alla politica di guerra.


Manovra contro gli ultimi illudendo i penultimi

di Fabrizio Burattini

La guerra ai poveri di Draghi continua e si inasprisce con la manovra Meloni 2022. Si delinea una società sempre più diseguale. Vendetta contro chi non ha accettato la demagogia della destra e premio per i ceti che la hanno appoggiata. Un’opposizione da costruire

La “grande stampa”, dopo la pubblicazione della proposta di legge di bilancio del governo Meloni, sembra tirare un sospiro di sollievo. Certo, la manovra è una “manovrina” (“La Stampa” di Massimo Giannini), è “piccola piccola” (“La Repubblica” di Maurizio Molinari), risente della “stesura fatta in tutta fretta da un governo appena insediato”… Sempre sulla “Stampa”, Marcello Sorgi afferma che il governo “supera l’esame di maturità”, perché ha “sostanzialmente rispettato” i vincoli europei e la lezione Mario Draghi quanto a “rigore fiscale” e a “politiche di austerità”.

L’entusiasmo della destra

Se la stampa “democratica” si sente rassicurata (ma sapevano bene che Meloni e i suoi non si sarebbero discostati dai diktat di Bruxelles, il loro progetto è molto più ambizioso), la stampa amica della premier si spertica in elogi e osanna: “La strada giusta” (Alessandro Sallusti su “Libero”), “Manovra di bilancio, il governo aiuta i più deboli” (“Il Tempo”), “Coraggiosa. Aiuta il ceto medio e i pensionati” (De Feo sul “Giornale”). Quanto al blocco del Reddito di cittadinanza, le prime pagine dei giornali di destra traboccano di esultanza: “Buon lavoro fannulloni” (“Libero”), “Stop alla follia dei 5 Stelle” (“Il Secolo d’Italia”). 

Sanno che il blocco del RDC è importante non tanto perché fa recuperare qualche centinaio di milioni (dicono 700) da stornare a favore delle imprese piccole e grandi, ma soprattutto perché è una misura che spinge verso il basso i rapporti di forza delle classi più povere che saranno sempre più costrette ad accettare un lavoro a qualunque condizione e in cambio di salari ancora più bassi. Non dimentichiamo che almeno 173.000 percettori di RDC lavorano regolarmente (iscritti all’INPS) ma ricevono un salario così misero da dover essere integrato dal RDC.

Gli argomenti della demagogia

Come cento e più anni fa, il padronato e il governo al suo servizio vogliono usare come armi di costrizione il bieco marchio del “fannullone” e la fame per obbligare le persone ad accettare qualunque occupazione, e questo non è solo uno strumento di politica (anti)sociale ma costituisce un segnale nei confronti del mondo imprenditoriale ed anche dei settori centristi (Calenda e Renzi), altrettanto agguerriti contro i ceti più poveri.

E poi in quella misura sul RDC c’è anche un aspetto vendicativo verso quegli ampi settori popolari che (soprattutto al Sud) non hanno prestato ascolto alla demagogia reazionaria di Fratelli d’Italia e delle altre consorterie alleate, ma hanno confermato il loro voto agli odiati 5 Stelle.

L’ideologia che muove il governo e che, purtroppo, raccoglie un immeritato consenso, è quella secondo cui la disoccupazione, la povertà non sono fenomeni intrinseci al sistema capitalista, ma sono solo la conseguenza della inettitudine e della pigrizia dei “fannulloni”. I 660.000 percettori di RDC “occupabili”, per di più un certo numero tra di loro anche immigrati da chissà dove, diventano così, nell’immaginario della narrazione governativa, confindustriale e dei loro lacchè, nemici della “nazione”.

Certo, quella misura solletica anche il consenso di quei tantissimi lavoratori che oggi sono occupati e che faticano per portare a casa salari di poco superiori al RDC e che sono quindi sensibili alla demagogia contro i “fannulloni” che “stanno sul divano e vivono sulle spalle di chi paga le tasse”. E che non pensano che il destino di non trovare un lavoro minimamente degno di questa definizione potrebbe colpire anche loro, tanto più in una fase di crisi economica nella quale fabbriche ed aziende chiudono, i contratti a termine non vengono rinnovati…

Cuneo fiscale e Confindustria

Dunque, una manovra durissima contro gli ultimi volta a far credere ai penultimi che il governo vuole aiutarli con la riduzione del “cuneo fiscale”, con l’aumento irrisorio delle pensioni minime e con un piccolo incremento degli aiuti ai settori più poveri per affrontare il “caro bollette”.

In realtà, occorre dirlo una volta per tutte, la riduzione del cuneo fiscale consente sì un misero incremento dei salari netti (tra i 10 e i 20 euro mensili) ma tutto autofinanziato dai lavoratori, perché la riduzione dei prelievi fiscali al lavoro dipendente riduce in maniera cospicua le entrate dell’erario e di conseguenza anche la capacità di spesa pubblica. Con la conseguente riduzione dell’offerta di servizi pubblici e universali (pensioni, ammortizzatori sociali, scuola, sanità) ai ceti più deboli.

Una riduzione del cuneo che punta soprattutto a ridurre la pressione salariale dei lavoratori verso le imprese. La riduzione del cuneo fiscale consente alle imprese di dire durante i negoziati contrattuali: “ma come, avete avuto la riduzione del cuneo e chiedete ulteriori aumenti?”.

La Confindustria critica il governo perché avrebbe voluto una riduzione del cuneo più consistente e almeno una parte di quei soldi a vantaggio delle imprese. Le associazioni padronali (a differenza dei sindacati) non si accontentano mai. Hanno già pronti i comunicati di dissenso ancor prima che il governo annunci le sue scelte, perché sanno che così ostacolano preventivamente ogni “miglioramento” delle misure a favore dei lavoratori e, non si sa mai, spingono verso un “miglioramento” a proprio favore.

La tassa piatta per alcuni e progressiva per gli altri

Com’è noto, la “flat tax” al 15% viene estesa alle partite IVA fino a 85.000 euro di reddito, con la conseguenza (che giustamente Nadia Urbinati su “Domani” ritiene anticostituzionale) per cui un dipendente, a parità di reddito, pagherà fino a 10.000 euro di tasse in più rispetto ad un autonomo. Si delinea, come ha scritto Giuseppe Pisauro sul Manifesto “una separazione netta tra il regime fiscale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, da un lato, e dei lavoratori autonomi e dei professionisti, dall’altro”.

Dunque, una manovra che acutizzerà pesantemente e perfino renderà strutturali le già indegne diseguaglianze economiche e sociali del paese.  Né va trascurato un pesante effetto “macroeconomico” della manovra: essa contribuirà a far scendere ancor di più i consumi interni e, dunque, forse riuscirà a contenere l’inflazione ma asseconderà anche la tendenza recessiva già in atto.

La manovra della disuguaglianza

Una manovra ispirata ad un minimo di equità sociale avrebbe dovuto affrontare seriamente il problema delle retribuzioni del lavoro dipendente e delle pensioni basse al palo da trent’anni e taglieggiate nell’ultimo anno dalla fiammata inflattiva, avrebbe dovuto inasprire la progressività fiscale, ampliare il reddito di cittadinanza e tutti gli altri ammortizzatori sociali, mettere sotto controllo pubblico i prezzi dei prodotti di prima necessità. 

Il governo Meloni ha scelto coscientemente di fare proprio il contrario. Non ha avuto neanche il coraggio di abolire l’IVA sui prodotti di prima necessità (pane, latte…). 

  • Con il taglio netto e la minaccia di abolizione totale del RDC, ha rinvigorito ulteriormente la guerra ai poveri, sulla linea che era già stata di Draghi. 
  • Ha peggiorato il sistema di adeguamento delle pensioni all’inflazione (recupereranno integralmente l’inflazione solo le pensioni non superiori a 1.584 euro netti). 
  • Ha tagliato gli sgravi sulle bollette per le famiglie mentre ha incrementato gli sgravi per le imprese. 
  • Gli extraprofitti miliardari delle imprese dell’energia, lucrati grazie all’impennata dei prezzi del petrolio e del gas e nei fatti estorti con la forza ai cittadini, verranno tassati al 35%, cioè tanto quanto viene tassato un lavoratore dipendente che riceve un salario mensile netto di 1.650 euro.
  • Hanno allargato, come già detto, la platea di chi godrà di una tassa piatta.
  • Hanno favorito l’evasione fiscale e il riciclaggio del denaro illecito con i provvedimenti sul contante, con la flat tax, sulla rottamazione delle cartelle, sulla detassazione dei capitali illecitamente portati nei paradisi fiscali.

Una manovra di bilancio in continuità con il governo Draghi e con i dettami della UE per ridurre i consumi popolari e così “combattere l’inflazione”. Poco importa se a farne le spese saranno i più poveri, il Sud, i lavoratori a reddito fisso. “Fine della pacchia” per loro, fine di una pacchia che non è mai iniziata.

La “pacchia” e l’opposizione

Mentre la “pacchia” continua e si accresce per quei ceti sociali che hanno votato per Fratelli d’Italia e per gli altri partiti della destra e che vengono per questo premiati: grandi imprese, bottegai, lavoratori “autonomi”, albergatori e ristoratori…: insomma quella che in un altro articolo abbiamo definito “lumpenborghesia dell’evasione fiscale”.

Profittando dell’estrema debolezza (al limite dell’inesistenza) dell’opposizione politica e dell’atteggiamento di complicità (CISL) e di imbarazzata attesa (CGIL e UIL) dei sindacati confederali, il risultato della manovra governativa sarà l’incremento della sofferenza sociale del paese. Allo stato attuale l’unica risposta in campo resta quella dello sciopero generale del 2 dicembre e della manifestazione nazionale a Roma di sabato 3, che così sono diventati appuntamenti ancora più importanti.