Palestina occupata, un’economia coloniale 


L’uso della manodopera palestinese in Israele è uno dei principali meccanismi di controllo coloniale dello stato sionista

di Fabrizio Burattini 

Lo sfruttamento del lavoro delle popolazioni indigene è stata una strategia chiave dello sviluppo economico nell’epoca del colonialismo.

Oggi, perlomeno fino al 7 ottobre, l’uso della manodopera palestinese occupata nell’economia israeliana ha rispecchiato questo approccio, con l’implicita affermazione che tutto ciò contribuirebbe alla “prosperità” dei palestinesi. 

Il colonialismo di sempre

In realtà, invece lo sfruttamento del lavoro palestinese comporta molteplici espropriazioni della dignità dei lavoratori della nazionalità sottomessa.

La logica coloniale del dominio israeliano è molto simile a quella che nei secoli scorsi usarono gli imperi coloniali europei in Asia e in Africa. 

L’accesso al lavoro nell’economia dei coloni israeliani è ovviamente subordinato alla docilità politica dei lavoratori e alla loro continua assenza dalla vita della loro comunità e mira a far concentrare l’attenzione del lavoratore e della sua famiglia sulla ricerca dei mezzi di sussistenza, minandone la capacità di resistenza anticoloniale.

Il meccanismo a volte è stato proprio quello “classico”. Ai contadini palestinesi è stata sotratta la terra, attraverso le varie ondate di espulsione, e poi alcuni di loro, a patto che siano docili, che manifestino una totale accettazione del dominio israeliano e un pieno rispetto del regime espropriatore, vengono reimpiegati come braccianti per lavorare quelle terre che un tempo lavoravano come contadini liberi.

L’analisi dell’economia palestinese fatta negli anni Ottanta da George Abed mostra che lo sviluppo economico sotto l’occupazione israeliana produce espropriazione non solo rendendo i palestinesi “senza terra”, ma anche derubando la popolazione colpita della base materiale per vivere e prosperare come comunità autonoma.

Il lavoro dei palestinesi nell’economia dominante contribuisce a eliminare ogni possibilità per una riproduzione sociale ed economica indipendente.

Buona parte della Cisgiordania (ma seppure in misura più ridotta anche Gaza) era vincolata (lo ripetiamo, perlomeno fino al 7 ottobre) al mercato del lavoro israeliano da cui traeva i una fetta importante dei suoi mezzi di sussistenza. E questo contribuisce alla distruzione economica e politica della Palestina come nazione e come economia, e dei palestinesi come comunità sociale e politica.

I coloni ebrei hanno impiegato palestinesi sin dai primi decenni del sionismo, ma le modalità di sfruttamento di questa manodopera si sono trasformate dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza nel 1967. 

Il ricatto del lavoro

Quell’esproprio della terra, con la conseguente sottomissione dell’economia, la progressiva frammentazione della Cisgiordania, spezzettata dai crescenti insediamenti coloniali hanno spinto sempre più numerosi palestinesi ha cercare lavoro e mezzi di sostentamento nell’economia israeliana, in particolare nell’edilizia, nell’agricoltura e nei servizi, grazie ai salari che Israele corrispondeva a questi lavoratori, salari talmente miseri da essere rifiutati da parte di lavoratori israeliani, ma comunque considerevolmente più alti del salario medio reperibile nel mercato del lavoro palestinese (il salario medio palestinese nel 2019 era di 412 dollari).

Di conseguenza, i lavoratori palestinesi, in cambio di questi salari, erano disposti ad assumersi rischi elevati (la maggior parte degli “omicidi bianchi” nei cantieri edili israeliani colpiscono operai palestinesi) e sobbrarcarsi l’estenuante e umiliante pendolarismo per raggiungere quotidianamente il loro posto di lavoro tra innumerevoli controlli e posti di blocco. Questi lavoratori hanno costituito un prezioso “esercito di riserva industriale” usa e getta, manodopera mobile e flessibile in mano a settori rilevanti dell’economia israeliana.

Aggiungiamo che il sofisticato regime di permessi per i lavoratori palestinesi costitusce di per se stesso un meccanismo di controllo economico e politico.

In Israele, perlomeno fino al 7 ottobre, lavorano circa 140.000 palestinesi, di cui 13.000 provenienti da Gaza, un quantitativo cresciuto negli ultimi anni, perché Benjamin Netanyahu lo aveva “agevolato” anche al fine di “pacificare” il rapporto con il popolo occupato e sottomesso. 

A questi vanno aggiunti (qui le valutazioni sono molto approssimative) circa altri 40.000 palestinesi che quotidianamente vengono (forse è il caso di dire venivano) furtivamente introdotti in Israele attraverso un meccanismo di caporalato per indirizzarli a lavori “al nero”. Va da sé che questi “clandestini” sono ancor più ricattabili dai loro datori di lavoro, in quanto l’ingresso clandestino in Israele è puntito con pesanti pene detentive.

Tra questi lavoratori al nero vanno contati anche migliaia di minorenni, a volte di bambini, che cercano con il loro lavoro di contribuire a mitigare la miseria delle loro famiglie.

Lavoro e disoccupazione

Il mix di integrazione economica della manodopera palestinese e di occupazione coloniale israeliana ha prodotto un apparente paradosso: un gran numero di palestinesi che lavorano in Israele combinato con un tasso di disoccupazione tra i più alti al mondo. Nel 2019, solo un palestinese su tre in età lavorativa era impiegato (il 39,6% in Cisgiordania e il 22,4% a Gaza).

Dunque, nessuna “prosperità economica”, contrariamente a quanto promesso dalla propaganda israeliana, ma sottrazione all’economia palestinese dei lavoratori più qualificati, iniezione di flussi di denaro irregolari in paesi e città palestinesi che diventano finanziariamente dipendenti dal lavoro in Israele. 

Il lavoro palestinese in Israele non ha affatto contribuito alla crescita economica dell’economia palestinese come forse avveniva in passato, ma ha piuttosto lavorato per distruggerla.

Senza contare l’esproprio “politico” e la docilità di cui abbiamo già detto: mantenere i palestinesi occupati aiuta a mantenerli tranquilli. Un alto funzionario della cosiddetta “Amministrazione Civile israeliana per la Cisgiordania” ha dichiarato: “Consideriamo l’occupazione palestinese come un fattore che porta alla stabilità nell’area. Questo è il nostro modo di pensare. La nuova generazione è alla ricerca di mezzi di sussistenza e comprende i vantaggi di lavorare in Israele”.

Si realizza dunque un recirpoco rafforzamento tra lo sviluppo economico israeliano e la dominazione coloniale degli insediamenti, con il lavoro come punto di snodo tra le logiche coloniali e quelle neoliberali.

A ciò ha naturalmente contribuito anche il comportamento dell’Autorità nazionale palestinese che ha in qualche modo sostituito la lotta anticoloniale con relazioni e scambi neocoloniali. Persino le importazioni palestinesi di beni da Israele sono quasi 3 volte superiori alle esportazioni palestinesi verso Israele, senza contare il consumo continuo di beni israeliani da parte di lavoratori palestinesi pendolari. 

I palestinesi continuano a dipendere fortemente dai posti di lavoro israeliani, e tutta l’economia palestinese dipende totalmente da Israele. Persino le esportazioni di prodotti palestinesi verso paesi terzi deve sottostare al controllo e all’autorizzazione della potenza occupante.

Al contempo, l’economia israeliana ha gradualmente ridotto la sua dipendenza dal lavoro palestinese, grazie all’attrazione di un numero crescente di lavoratori stranieri di altre nazionalità, a partire dagli anni ’90, con la conseguenza che Israele stabilisce le “quote” per i permessi di lavoro ai palestinesi a seconda delle necessità del suo mercato del lavoro, e lo fa sapendo che la devastante disoccupazione dei palestinesi fa sì che la manodopera palestinese sia sempre disponibile e in eccesso.

Il sistema dei “permessi”

I permessi di lavoro sono subordinati al fatto che il lavoratore non sia contrassegnato come una “minaccia alla sicurezza”. Chi è conosciuto come “attivista” non ha alcuna speranza di poter accedere ai permessi.

Ma non basta: l’agenzia di sicurezza israeliana, il “famigerato” Shin Bet, sfrutta la discrezionalità dell’accesso dei palestinesi ai permessi per indurre alcuni di loro a “collaborare”, cioè a diventare informatori.

Non si tratta solo di “non parlare di politica”. Se ti sottrai alle pressioni per collaborare allo spionaggio, ti viene chiesto: “Perché non vuoi collaborare? Sei un attivista? Qualche tuo parente lo è? Vuoi perdere il salario?”

I sindacati palestinesi (e persino l’Histadrut, il sindacato israeliano), denunciano che i datori di lavoro socializzano tra di loro “liste nere” di lavoratori palestinesi che hanno intentato contro di loro vertenze sindacali per il rispetto delle norme legislative e contrattuali. Così, questi lavoratori regolarmente perdono la possibilità di avere il permesso.

Occorre penere conto che questi “permessi” assomigliano molto ai “permessi di lavoro” concessi ai detenuti in regime carcerario, perché consentono ai lavoratori palestinesi di recarsi sì in Israele, ma di restarci solo per il tempo strettamente collegato alla loro attività lavorativa e li obbligano a tornare ai loro luoghi di residenza (sottoponendosi anche al rientro alla pesante trafila dei check point) non appena usciti dal lavoro.  

Ecco il racconto di Ahmed, lavoratore proveniente da Tubas, nella Cisgiordania settentrionale: “Esco di casa alle 2:45, molto presto, così posso arrivare in tempo al checkpoint. Arrivo qui alle 4:10, più o meno un’ora e mezza solo per arrivare qui. Se ci sono posti di blocco volanti lungo il percorso, potrebbero volerci più di due ore per arrivare qui. Questi checkpoint si verificano a volte, a volte una o due volte alla settimana intorno a Nablus. Quindi, devi fare una lunga deviazione per arrivare qui”.

Un altro pendolare, Bashir di Qalqiliyah, spiega che anche lui deve svegliarsi alle tre del mattino nonostante viva vicino al checkpoint. Alla domanda su come questo abbia influenzato la sua vita, ha riso e ha detto: “Non vivo, la mia vita è il lavoro”. Dopo aver lavorato in Israele per 30 anni per mantenere i suoi sette figli, ora dice che “tra uno o due anni voglio smettere di lavorare in Israele, è abbastanza”.

Il pendolarismo impegna anche quattro o cinque ore al giorno per il viaggio, di solito per qualche decina di chilometri, espropriando ulteriore tempo non retribuito a questi lavoratori.

Un’economia soffocata dal colonialismo

I vincoli che Israele impone alla Cisgiordania, le restrizioni al commercio e alla circolazione di alcune merci significano che l’economia palestinese non è in grado di accedere alla tecnologia moderna e non può più crescere in modo sostenibile, approfondendone la dipendenza e drenando lavoratori qualificati dalla Cisgiordania. 

Israele impedisce l’ingresso in Cisgiordania di 56 beni cosiddetti “a duplice uso”, cioè che potrebbero essere utilizzati per scopi militari, comprese apparecchiature con funzioni di comunicazione.

Samir Salameh, ex ministro del Lavoro palestinese, ha dichiarato: Perdiamo le persone più professionali. Se si considera l’edilizia, la maggior parte dei nostri lavoratori nell’edilizia e nell’agricoltura vanno in Israele. La maggior parte delle nostre aziende agricole sono abbandonate perché i palestinesi lavorano in Israele. E quando tornano a lavorarci, si rendono conto che Israele paga salari molto più alti. A breve termine è un bene per loro, a lungo termine no”.

L’Autorità Palestinese ha ampiamente fallito nel creare alternative locali al lavoro in Israele e negli insediamenti. 

Nel frattempo, la combinazione di insediamenti coloniali, di capitalismo neoliberista e di un regime di mobilità sempre più restrittivo e altamente regolamentato ha prodotto la ghettizzazione delle aree palestinesi in Cisgiordania e la loro dipendenza economica, trasformandole in contenitori progettati per immagazzinare una popolazione “in eccesso” e  “razzializzata”.

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