India (Bharat), il suo nome e la sua "rivoluzione mancata"

Nei giorni scorsi si è molto speculato sulla decisione del governo indiano di rivendicare che, a livello internazionale, il paese venga definito con il nome di Bhārat, suggerendo l’accantonamento del tradizionale termine India.


Narendra Modi

In realtà, nel paese, la “nuova” definizione è usata da sempre in quanto derivante dalla lingua sanscrita e usato fin dall’antichità per indicare la regione del Gange, il “fiume sacro” degli indù. Il termine India, invece, ha anch’esso un’origine sanscrita, ma indicava la regione dell’altro grande fiume della regione, l’Indo, che oggi però scorre per la quasi totalità del suo corso nel territorio del Pakistan.


Certamente, dunque, la scelta di Narendra Modi e del suo partito populista di estrema destra di prediligere questa definizione ha a che fare con il rinascente nazionalismo indiano e con la “ideologia” dell’hindutva, quel misto di razzismo e di integralismo religioso induista che nega il carattere multietnico e multireligioso del subcontinente indiano e che gli ha consentito di conquistare il 56% dei seggi del parlamento (anche se solo con il 37% dei voti).


Ma questa forse effimera considerazione terminologica, unitamente alla più sostanziale rilettura della Lettera aperta di Leone Trotsky ai lavoratori indiani del luglio 1939 (nella quale il dirigente rivoluzionario chiarisce oltre ogni ragionevole dubbio come, in presenza di uno scontro anche acutissimo tra imperialismi, ci si debba sempre basare sulle esigenze politiche e sociali dei popoli), mi ha spinto ad approfondire la storia recente del Bharat (o dell’India) che proprio qualche settimana fa ha festeggiato il 76° anniversario dell’indipendenza e in particolare la diffusa credenza secondo cui l’immenso paese è riuscito a liberarsi dal giogo coloniale inglese grazie alla strategia non violenta della “disobbedienza civile” sostenuta da Mohāndās Karamchand Gāndhī e dal suo Partito del Congresso.


Pierre Rousset

La storia mainstream ci dice che l’India si liberò dal colonialismo inglese grazie al movimento di disobbedienza civile diretto da Gandhi. Ma è vero? L’azione di massa non violenta è stata sufficiente a costringere l’esercito coloniale britannico ad abbandonare il paese e a rinunciare alla più importante colonia che restava all’impero inglese nel secolo scorso? Così ho letto (e pubblico qua sotto in italiano) l’intervista che Pierre Rousset, del sito europe-solidaire.org ha fatto, proprio ponendo queste domande, a Sushovan Dhar, attivista politico e sindacalista.

Sushovan Dhar

Pierre Rousset: L’indipendenza, la liberazione dal giogo coloniale britannico nel 1947, è stata effettivamente conquistata grazie al movimento di disobbedienza civile incarnato da Mohāndās Karamchand Gāndhī?

Sushovan Dhar: Per quanto riguarda il movimento di liberazione dell’India e la non violenza di Gandhi, si tratta di una versione esagerata e asettica della storia indiana, presentata dal Partito del Congresso e dagli storici liberali, soprattutto dopo l’indipendenza.


In realtà, i gruppi di resistenza armata furono molto potenti e diedero un contributo importante alla lotta per l’indipendenza dell’India. Il movimento era particolarmente forte in Bengala, Bihar, Uttar Pradesh (allora chiamato Provincia Unita) e Punjab. Inoltre, ci fu una serie di movimenti di massa armati guidati dalla sinistra: Telangana, Tebhaga e molte altre rivolte in diverse parti dell’India. Anche Bhagat Singh e i suoi compagni dell’Associazione socialista repubblicana dell’Hindustan giocarono un ruolo importante.


Il “sogno” della borghesia indiana

Anche alla vigilia dell’indipendenza, il famoso ammutinamento navale scosse il paese nel 1946. Non va dimenticato il ruolo svolto dall’Esercito nazionale indiano guidato da Subhash Chandra Bose.


Anche diversi movimenti operai e contadini facevano parte del Congresso. Sarebbe quindi sbagliato pensare che il Congresso rappresentasse solo la tradizione della non violenza. 


In realtà, Gandhi entrò in scena solo nel 1920 con il suo movimento di non cooperazione. Si trattava di un tentativo, non riuscito, di indurre il governo britannico a concedere l’autonomia, o swaraj, all’India. Tuttavia, il fallimento di questo movimento portò Gandhi a perdere il controllo sul Congresso. Infatti, le fazioni socialiste del partito, che comprendevano sezioni che non aderivano pienamente alla non-violenza di Gandhi, presero il controllo del partito. 


Lo stesso accadde nel 1934, quando Gandhi rinunciò alla disobbedienza civile. Se analizziamo la storia della lotta per la libertà in India, scopriamo che, fino al 1942, il movimento della non violenza di Gandhi non era in prima linea nella lotta per la libertà. La politica di Gandhi era in gran parte limitata ad azioni individuali (satyagraha).


Una manifestazione di Quit India

Nemmeno il movimento Quit India del 1942 può essere descritto come totalmente non violento. Se così fosse stato, la pressione sul governo imperiale sarebbe stata molto limitata. Molti gruppi di pressione si unirono al movimento. Non dimentichiamo che gli alti dirigenti del Congresso erano tutti in carcere quando fu lanciato il movimento Quit India. I leader di medio livello del partito che hanno avuto un ruolo di primo piano in questo movimento si sono poi uniti al Partito Socialista e non si sono impegnati nell’idea della non violenza in senso gandhiano.


P.R: Il movimento comunista indiano è stato importante. Ma non sembra aver giocato un ruolo importante nel 1946-1947?


S.D.: L’importanza del movimento comunista indiano divenne evidente a seguito delle cause intentate dalla potenza coloniale. Già negli anni Venti, i comunisti furono processati in una serie di casi di cospirazione.


MN Roy

I processi per la cospirazione di Peshawar (1922-1927): l’amministrazione britannica li avviò in cinque fasi contro 50 muhajir che avevano fondato il Partito comunista dell’India (PCI) a Tashkent nel 1920. Questi leader avevano ricevuto una formazione politica e militare a Tashkent, che faceva parte dell’ex Unione Sovietica, e all’Università Comunista dei Lavoratori dell’Est (KUTV) di Mosca. La maggior parte dei muhajir erano khilafiti e avevano pianificato di recarsi in Turchia per combattere gli inglesi. Tuttavia, incontrarono Manabendra Nath (MN) Roy a Tashkent e insieme fondarono il primo Partito Comunista dell’India. Furono accusati di incitare “una rivoluzione proletaria contro gli oppressori imperialisti britannici per restituire la libertà alle masse” e incriminati in base all’articolo 121-A.


Il processo per la cospirazione comunista (bolscevica) di Kanpur (1924-25): fu avviato contro leader comunisti tra cui MN Roy, Shaukat Usmani, SA Dange, Muzaffar Ahmad, Ghulam Hussain, Singaravelu Chettiar e altri, molti dei quali appartenenti al gruppo di Tashkent e altri attivisti contadini e operai provenienti da diverse parti dell’India. I suddetti individui furono accusati in base all’articolo 121-A perché, secondo il governo britannico, stavano tentando di “privare il Re Imperatore della sua sovranità sull’India britannica, separando completamente l’India dalla Gran Bretagna imperialista attraverso una rivoluzione violenta”.


Il processo per la cospirazione di Meerut (1929-1933): questo processo fu il più importante per l’affermazione del Partito Comunista dell’India come partito della classe operaia e contadina. Per aver organizzato una protesta dei dipendenti delle ferrovie indiane e dell’industria tessile, diversi funzionari sindacali di tutta l’India furono arrestati, insieme a tre inglesi affiliati all’Internazionale Comunista, e processati. I leader erano Sohan Singh Josh, Muzzafar Ahmed, Philip Spratt, Shaukat Usmani e Shripad Amrit (SA) Dange. Sono stati condannati ai sensi del’articolo 121-A. La Grande Depressione portò a un’ondata di attività sindacale, organizzazione e scioperi nelle principali aree industriali indiane alla fine degli anni Venti, cui seguirono i processi di Meerut.


Purtroppo, il Partito Comunista dell’India non partecipò al movimento Quit India del 1942.


Che conseguenze ha avuto l’assenza del PCI?


Lasciò le masse nelle mani del Partito del Congresso. Il risultato fu un trasferimento di potere e non una rivoluzione sociale… Ha portato all’indipendenza della borghesia nazionale e non delle masse lavoratrici, che pure avevano svolto un ruolo fondamentale nella lotta per l’indipendenza. È stata ottenuta a costo di lotte popolari in diverse parti del paese per quasi un secolo.


Ci furono possibilità di creare autogoverni locali in diverse parti dell’India (ad esempio, il governo indipendente della città di Tamralipta nel Bengala), ma l’assenza di una forte forza di sostegno – la leadership – lasciò che queste rivolte popolari accettassero gli ordini di Gandhi e si arrendessero.


Tuttavia, non dimentichiamo che le organizzazioni popolari di sinistra, in particolare i sindacati, hanno svolto un ruolo importante nel movimento Quit India. Le forze di sinistra di tradizione non-PC (il Revolutionary Socialist Party-RSP, il Revolutionary Communist Party of India-RCPI, il Bolshevik–Leninist Party of India, Ceylon and Burma-BLPI e altre) parteciparono al movimento con pieno vigore.


Pertanto, il 1942 non fu un movimento non violento né un movimento guidato da Gandhi. Tuttavia, la borghesia nazionale, che sostenne Gandhi per tutto il tempo, purtroppo emerse come unica vincitrice e giocò un ruolo importante nell’India post-indipendenza, plasmando il corso della storia indiana, dove le strutture fondamentali di sfruttamento e oppressione (casta, genere, ecc.) rimasero intatte anche dopo la fine del dominio coloniale. L’esperienza indiana è diventata un modello per la borghesia del Terzo Mondo, che è emersa come forza principale nella maggior parte del mondo decolonizzato.


Va aggiunto che porre le questioni della violenza e della non violenza come opposizioni binarie contribuisce a elevare le questioni metodologiche o tattiche al di sopra del contenuto politico della lotta.


Questo è vero non solo per la politica gandhiana, ma anche per i suoi contraltari, i movimenti armati marxisti, maoisti e di guerriglia in molte parti del mondo. Abbiamo visto più volte il fallimento di queste politiche.


Alcuni suggerimenti di lettura (in inglese)


India’s Struggle for Independence, Bipan Chandra, Mridula Mukherjee, Aditya Mukherjee, Sucheta Mahajan, and K. N. Panikkar, Penguin Random House, 1987

The Mahatma and the Ism, E. M. S. Namboodiripad, LeftWord, 2010 (la première publication en 1959)

Modern India 1885–1947, Sumit Sarkar, Palgrave Macmillan London, 1989

A History of Indian Freedom Struggle, E. M. S. Namboodiripad, Social Scientist Press, 1986

From Plassey to Partition and After: A History of Modern India, Sekhar Bandyopadhyay, Orient Longman, 2004

• An Open Letter to the Workers of India, Leon Trotsky, July 1939

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